venerdì 23 novembre 2007

La sinistra che vogliamo: quali politiche internazionali

di Mark Bernardini

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PETIZIONE!

Questo documento verrà presentato dalla Redazione di "Aprile online" all'assemblea per la Sinistra unita dell'8 e 9 dicembre 2007 a Roma.

Una doverosa premessa. Quando un Partito, o una coalizione di Partiti, chiede il voto dei cittadini per governare, presenta un programma. Così fece anche Lenin, in maniera estremamente semplice: non abbiamo il potere, se l’avremo, primo, basta con la guerra, tutti a casa, secondo, tutto il potere ai consigli di fabbrica, terzo, la terra a chi la lavora. Ma questo è solo un esempio.

Nel 2006, l’Unione ha presentato un programma esageratamente lungo e perciò ambiguamente interpretabile, ben 262 pagine. In particolare, vi si diceva che “Per affrontare i problemi che derivano dall’assetto unipolare del mondo dobbiamo puntare ad una difesa europea autonoma, pur se sempre in rapporto con l’Alleanza Atlantica, che sta profondamente cambiando”. Già questa impostazione non ci trova concordi, poiché una difesa europea autonoma deve costituire un’alternativa all’Alleanza Atlantica esistente. E’ un falso storico, infatti, che la NATO sia stata costituita per proteggere l’Europa occidentale dal blocco sovietico. E’ vero il contrario: il Patto di Varsavia fu costituito nel 1955 in risposta alla costituzione della NATO nel 1949. Come che sia, il Patto di Varsavia non esiste più dal 1991, come non esistono più tre Paesi che ne facevano parte (Cecoslovacchia, RDT ed URSS), ciò nonostante la NATO continua a dettare legge all’interno dei Paesi che la compongono (tra cui anche alcuni Paesi che, a vario titolo, erano membri del Patto di Varsavia, quali la Bulgaria, la Repubblica Ceca, l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Polonia, la Romania, la Slovacchia e l’Ungheria, oltre alla Slovenia, che faceva parte della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia), e nessuno pensa di scioglierla, pur se essa ha esaurito i compiti per i quali era stata costituita.

Nel 2007, i Partiti che compongono l’Unione hanno siglato un programma di 12 punti, che gli elettori non hanno votato, e che in questa sua parte differisce nettamente dal programma delle 262 pagine: “Sostegno costante alle iniziative di politica estera e di difesa stabilite in ambito Onu ed ai nostri impegni internazionali, derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea e all’Alleanza Atlantica, con riferimento anche al nostro attuale impegno nella missione in Afghanistan”.

Zapatero in Spagna a suo tempo disse che, qualora fosse stato eletto, per prima cosa avrebbe fatto tornare a casa le truppe spagnole dall’Iraq. Detto, fatto. Nessuno pensò di guadagnarci, ad accusarlo di non essere affidabile in quanto non ha rispettato gli accordi del governo precedente. Questo governo italiano, invece, ci ha messo otto mesi, e per compensare ha inviato le truppe in Afghanistan. Di più: ha deciso di rispettare gli accordi di Berlusconi circa l’ampliamento della presenza militare statunitense a Vicenza.

Siamo per l’uscita unilaterale dell’Italia dalla NATO, che non riveste più alcun carattere difensivo, vero o presunto tale, non vogliamo più macchiarci di crimini orrendi contro l’umanità come ad esempio l’aggressione armata al popolo amico jugoslavo, che anzi dovremmo risarcire. Siamo per la liberazione dei territori italiani occupati dalle servitù militari statunitensi, da Vicenza ad Aviano, dalla Sardegna alla Puglia.

Rifuggiamo categoricamente la logica per la quale “l’amico del mio nemico è mio nemico”. Sempre più spesso negli organi di informazione di sinistra si leggono attacchi ingiustificati contro Paesi comunisti o ex comunisti, per un malcelato complesso di inferiorità, un bisogno di dimostrare di essere più antisovietici dei postsovietici, più anticomunisti degli ex comunisti, da Cuba alla Russia, passando per la Romania e la Cina. E’ il caso di ricordare che la prefazione alla traduzione italiana dell’autobiografia di Ceauşescu fu fatta da Andreotti, insospettabile di alcuna simpatia. E’ quel che distingue uno statista, nel bene e nel male. Per quanto riguarda l’Europa orientale, abbiamo ben presente che nel 2006 l’Italia è stata il secondo importatore in assoluto nel mondo dalla Russia, con 18 miliardi di € (dopo l’Olanda, con 26 miliardi), ed il settimo esportatore in Russia, con 4 miliardi di € (dopo la Germania, la Cina, il Giappone, gli USA, la Corea del Sud e la Francia). Gli imprenditori italiani in genere non sono particolarmente propensi a votare a sinistra, con le dovute eccezioni. Lo stesso vale per l’Unione Europea nel suo complesso, che è al primo posto in assoluto: essa rappresenta i due terzi delle importazioni dalla Russia (170 miliardi) e più della metà delle esportazioni in Russia (60 miliardi). In altre parole, bisogna convivere, e convivere bene, senza mettersi in cattedra.

Una analisi a parte merita la questione degli italiani all’estero e del loro diritto di esercitare il voto. C’è chi, anche e soprattutto a sinistra, ritiene che la circoscrizione estero sia una cosa sbagliata perché metterebbe in una riserva indiana gli eletti all’estero, che comunque non sarebbero partecipi alla dialettica politica del paese. E’ un discorso inadeguato. Poteva essere vero ancora qualche decennio fa, quando persino i giornali italiani arrivavano a singhiozzo, e bisognava sintonizzarsi di notte sulle onde corte con le radioline a transistor per ascoltare il “Notturno italiano” della RAI. Oggi, chiunque voglia, può leggere i giornali via internet. Certo, molti “non masticano” di telematica, ma in genere sono proprio quelli della prima generazione, mentre quelli di seconda e terza, per la loro età, sono proprio i navigatori più progrediti. Ma soprattutto, la stragrande maggioranza degli italiani all’estero hanno la parabola, vedono non solo i sette canali televisivi nazionali, ma anche le televisioni locali della loro regione di provenienza. E spesso ne sanno più di chi vive in Italia.

Resta il problema se sia lecito che essi possano cambiare i destini italiani, da fuori. La storia ci insegna che i votanti all’estero sono meno del 3% dei votanti complessivi, e gli aventi diritto all’estero sono poco più del 5% degli aventi diritto nel loro complesso, non è quindi così grave.

E se votassero tutti? E qui dobbiamo richiamarci al PCI. Per trent’anni, dal dopoguerra alla costituzione del Parlamento Europeo, i comunisti volevano dare la possibilità agli emigranti italiani di votare rimanendo nel Paese di residenza, e i democristiani invece non l’hanno mai consentito. La ragione è semplice: gli emigranti votavano a sinistra, tutti noi ricordiamo i treni speciali di emigranti che tornavano per votare con appesi fuori dai finestrini i manifesti “vota comunista” con la falcemmartello. Tanta acqua è scorsa sotto i ponti, gli emigranti ormai votano un po’ come gli italiani residenti in Italia, ed ecco che persino tra i comunisti riecheggiano i toni della vecchia DC.

Riteniamo che sarebbe giustificato se gli italiani residenti all’estero potessero votare candidati residenti in Italia. A condizione di poter votare anche candidati residenti all’estero. E’ invece da respingere fermamente la posizione per la quale non si possa affidare a degli eletti all’estero una circoscrizione al di fuori dello Stato italiano, e per la quale il voto marginale di questa circoscrizione possa influire sulla fiducia ad un governo: significherebbe sancire uno status di parlamentari di “serie B”, in tal caso indubbiamente inutili.

Gli italiani residenti all’estero vi risiedono perché il loro Paese non è stato in grado di assicurargli la sopravvivenza ed una vita dignitosa. E’ dovuta loro la speranza di poter eleggere un governo che muti le condizioni per le quali essi sono emigrati, e poter quindi un giorno tornare a casa.

martedì 20 novembre 2007

Fuori la NATO e dalla NATO

di Mark Bernardini

In Aprile, quotidiano per la sinistra, continua il dibattito in vista dell'Assemblea generale di Roma dell'8 e 9 dicembre 2007 per la Sinistra unita. Sono intervenuto anch'io, a proposito di NATO e di bombardamenti in Jugoslavia.

E' ora di sbilanciarsi contro la NATO. Bisogna sporcarsi le mani, berlinguerianamente, senza paure di perdere voti, poltrone, convenienze. Si chiama onestà intellettuale. La difesa europea, inquadrata nell’ONU, verrebbe da se. Ed anche l’ONU, se non diamo retta alla proposta di Chávez di spostare la sede da Washington, rischia di fare la fine della Società della Nazioni.

Per quanto riguarda la Jugoslavia, cosa diavolo vuol dire “DOVETTE intervenire la NATO”? Gliel’ha ordinato il medico? L’ONU ha fatto fior di risoluzioni, in nessuna – IN NESSUNA! – è mai stato dato mandato alla NATO di fare da gendarmi. Infatti, l’ONU voleva mandare i caschi blu. Ma non è solo questo. Immaginiamo quel cerebroleso di Bossi iniziare sul serio la sua paventata secessione. Immaginiamo i carabinieri che arrestano i dinamitardi trentini e gli alpinisti veneziani (mi riferisco a quegli imbecilli che salirono sul campanile di San Marco), immaginiamo che, dopo la caccia all’immigrato, già in atto, si ritorni alla caccia al terrone, ma stavolta con linciaggi in piazza; solo che i matrimoni misti, il meticciato (sto usando volutamente tutta terminologia loro), è talmente diffuso che iniziano anche le ronde meridionali di autodifesa proletaria, che partono da Quarto Oggiaro per bastonare le signore impellicciate di corso Buenos Aires, mogli di quei padani che intanto continuano ad impiccare pugliesi e calabresi ai pali della luce di piazzale Loreto. Interviene l’esercito, che però è anch’esso misto. Ecco che si passa alla guerra fratricida, di trincea: non più sassi e bastoni, ma FAL e Garand (l’esercito italiano continua ad essere all’avanguardia, in fatto di armamenti). I cadaveri vengono ammassati lungo i marciapiedi, non si fa in tempo a seppellirli né tantomeno a riconoscere le spoglie, comincia a diffondersi il tifo, il colera e, vista la zona climatica, la malaria, si rischia una rigurgito endemico della peste di secoli fa.

Ecco che l’ONU si indigna, con gran dignità, esecra e condanna. E discute se sia il caso di inviare i caschi blu. Nel frattempo gli USA, pardon la NATO, con il pretesto di difendere a)le proprie basi militari in territorio italiano; b)i propri interessi strategici nel Mediterraneo e nello scacchiere internazionale (leggi: avamposto per bombardare qua e là in Medio Oriente); e c)la democrazia nel mondo, comincia a bombardare Milano, e poi Torino, e poi Padova (cazzo c’entra Padova? Niente, ma bombardare Venezia non serve a un cazzo, tanto basta aspettare e affonda da sola), e giù Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Cagliari (la Maddalena no, altrimenti l’anno prossimo Berlusconi va in vacanza a Manhattan), Palermo (no, Palermo no, ché s’incazzano quelli di Little Italy. Va beh, allora facciamo Catania o Messina). Di più: alla NATO si unisce, per poi dividere le fette di torta al tavolo delle trattative, Francia, Austria e Svizzera (cazzo, dalla Svizzera chi se l’aspettava?). E persino… Indovinate? La Slovenia, la Croazia e la Serbia! Grande! Eh, un po’ per uno, è la legge del contrappasso, o, per meglio dire, del menga…

Che dite, ho spiegato le ragioni per cui per me i bombardamenti NATO ed italiani in particolare in Jugoslavia sono stati una roba da vigliacchi macellai?

Una difesa europea autonoma deve costituire un’alternativa all’Alleanza Atlantica esistente. E’ un falso storico, infatti, che la NATO sia stata costituita per proteggere l’Europa occidentale dal blocco sovietico. E’ vero il contrario: il Patto di Varsavia fu costituito nel 1955 in risposta alla costituzione della NATO nel 1949. Come che sia, il Patto di Varsavia non esiste più dal 1991, come non esistono più tre Paesi che ne facevano parte (Cecoslovacchia, RDT ed URSS), ciò nonostante la NATO continua a dettare legge all’interno dei Paesi che la compongono (tra cui anche alcuni Paesi che, a vario titolo, erano membri del Patto di Varsavia, quali la Bulgaria, la Repubblica Ceca, l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Polonia, la Romania, la Slovacchia e l’Ungheria, oltre alla Slovenia, che faceva parte della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia), e nessuno pensa di scioglierla, pur se essa ha esaurito i compiti per i quali era stata costituita.

E la Russia? La Russia non ha mai, dico mai, fatto parte della NATO. La NATO ha bombardato la Jugoslavia. La Russia no. La NATO ha bombardato l’Iraq. La Russia no. La NATO ha bombardato l’Afghanistan. La Russia no (lo fece l’URSS, altra storia). La NATO bombarderà l’Iran. La Russia no. La NATO bombarderà la Corea del Nord. La Russia no. Come politica di difesa, pace e disarmo ha decisamente del perverso.

Mi corre l’obbligo citare il vituperato Gaber, in epoca non sospetta:

…Non c‘è popolo più giusto degli americani. Anche se sono costretti a fare una guerra, per cause di forza maggiore, s’intende, non la fanno mica perché conviene a loro. No! È perché ci sono dei posti dove non c‘è ancora né giustizia, né libertà. E loro… Eccola lì… Pum! Te la portano. Sono portatori, gli americani. Sono portatori sani di democrazia. Nel senso che a loro non fa male, però te l’attaccano. L’America è un arsenale di democrazia.

giovedì 15 novembre 2007

Scampoli di memoria 5

di Dino Bernardini

Coltivo da sempre una passione smodata per le enciclopedie. La nostra biblioteca di casa ne annovera molte, tra cui la Britannica, la Larousse, la Piccola Treccani, la spagnola del País, ecc. Ma, soprattutto, ho raccolto enciclopedie e dizionari in lingua russa. Posso dire di possedere quasi tutte le edizioni sovietiche del genere, che sono state moltissime. E’ noto che ai tempi dell’Unione Sovietica l’editoria in lingua russa si trovava ai primi posti delle classifiche mondiali per quantità di libri pubblicati. Ma attenzione, il dato è relativo alle copie, non al numero dei titoli. Affinché sia chiaro, ricorderò che, per esempio, l’editoria italiana è in situazione opposta: siamo ai primi posti nel mondo per numero di titoli pubblicati e agli ultimi posti per numero di copie. Il che significa che le tirature italiane sono spesso minime, mentre quelle sovietiche erano enormi. In compenso, nella vecchia URSS i prezzi dei libri erano incredibilmente bassi.

Il sistema di vendita delle grandi enciclopedie sovietiche era il seguente. Quando cominciava a uscire una nuova enciclopedia, chi acquistava il primo volume riempiva un modulo con tutti i suoi dati personali e pagava subito anche per l’ultimo volume. Poi, via via che uscivano, i volumi successivi venivano venduti liberamente nelle librerie e chiunque poteva acquistarli senza formalità. Ma l’ultimo lo potevano ritirare soltanto gli acquirenti del primo volume, che firmavano una ricevuta, previa presentazione di un documento di identità. Naturalmente, tra l’uscita del primo volume e quella dell’ultimo trascorrevano a volte degli anni, a seconda del numero dei tomi.

Mi sono dilungato su questi particolari perché altrimenti non si capirebbe come sia stato possibile, tecnicamente, arrivare all’incredibile episodio di censura che ora racconterò, se le case editrici non fossero state in possesso dei dati personali degli abbonati alle enciclopedie.

In epoca brežneviana un mio carissimo amico ora scomparso, il sociologo Eduard (Evik per gli amici) Arab-Ogly, mi regalò con un sorriso beffardo il 5° volume della Bol’šaja, pur sapendo che possedevo già l’intera enciclopedia in 55 volumi. Ma quel 5° volume conteneva qualcosa di cui il mio 5° volume era privo.

Il fatto è che il 5° volume della Bol’šaja Sovetskaja Enciklopedija in 55 volumi (2a edizione), uscito negli ultimi mesi del 1950, conteneva la voce Berija. Secondo la formula in uso per tutti i membri del Politbjuro del partito comunista sovietico, Berija era stato presentato come “uno dei più eminenti dirigenti del Partito e dello Stato sovietico, fedele seguace e tra i più stretti collaboratori di I. V. Stalin, membro del Politbjuro del CC del partito, vice presidente del Consiglio dei ministri dell’URSS”. Seguiva una sfilza di titoli e la biografia del potente capo dei servizi segreti, corredata da una pagina in cartoncino con il ritratto. Sennonché, nel 1953, poco dopo la morte di Stalin, Berija venne arrestato in modo rocambolesco e giustiziato. Come rimediare al fatto che il quinto volume dell’enciclopedia, trecentomila copie di tiratura, era già stato venduto da tre anni? La soluzione sembra quasi uscita dalla penna di Orwell.

Tutti gli abbonati all’enciclopedia ricevettero a domicilio la seguente lettera, di cui posseggo l’originale e che tradurrò integralmente (prego di fare attenzione al verbo “raccomandare”):

«ALL’ABBONATO ALLA GRANDE ENCICLOPEDIA SOVIETICA

La casa editrice scientifica di Stato Bol’šaja Sovetskaja Enciklopedija raccomanda di togliere dal 5° volume della BSE le pagine 21, 22, 23 e 24, nonché il ritratto inserito tra le pagine 22 e 23. In sostituzione, le vengono fornite le pagine con il nuovo testo.

Le suddette pagine vanno tagliate con le forbici o con una lametta da barba, lasciando vicino alla cucitura un margine a cui incollare le nuove pagine.

La Casa editrice scientifica di Stato “Bol’šaja Sovetskaja Enciklopedija”».

Che cosa contenevano le nuove pagine? Fotografie del Mar di Bering e alcune voci di personaggi e località minori che precedentemente erano state scartate. Ogni ulteriore commento mi sembrerebbe superfluo.

***

Sempre in tema di enciclopedie sovietiche, forse un giorno troverò il tempo di passare in rassegna l’evoluzione delle voci relative ai dirigenti sovietici caduti in disgrazia, poi riabilitati, poi fucilati, poi di nuovo riabilitati. Nel corso degli anni questi personaggi sono stati presentati di volta in volta, nelle varie enciclopedie, come “grandi dirigenti del movimento operaio”, oppure come “traditori”, o anche come “compagni che hanno sbagliato”. Più spesso però, dopo la condanna, scomparivano del tutto. Ma adesso voglio raccontare la breve storia della pregevole Kratkaja Literaturnaja Enciklopedija, l’enciclopedia letteraria degli anni Trenta che annoverò tra i suoi collaboratori il fior fiore dell’intelligencija sovietica. Credo che oggi valga un patrimonio e che qualsiasi collezionista farebbe pazzie per averla.

L’opera doveva essere in 12 volumi e lentamente, pur tra difficoltà d’ogni genere, la penuria di carta e ostacoli della censura, approdò felicemente al nono volume. Il decimo conteneva la lettera “S”, quindi la voce “Stalin”, anche se non si capisce che c’entrasse Stalin con un’enciclopedia letteraria. Ma tant’è, l’epoca era quella. Ebbene, il volume 10, già pronto per andare in libreria, venne bloccato in attesa di giudizio. La voce “Stalin” non era piaciuta.

Passò un po’ di tempo e intanto il volume 11 fu pronto, dopo aver superato e aggirato chissà quali e quanti ostacoli e ottenuto il visto della censura. Così, venne stampato e messo in vendita. Soltanto allora ci si accorse che non era normale che il volume 11 fosse uscito prima del 10. Se ne accorsero soprattutto in alto loco, dove forse c’era ancora qualche amico della Literaturnaja che sperava di riuscire a salvare la pubblicazione imponendo un rifacimento del volume in questione. Evidentemente nel rigido sistema della censura c’era stata una smagliatura, un disguido, una svista, forse non involontaria. Ma, involontaria o no, questa svista fece precipitare le sorti della Literaturnaja Enciklopedija. I fautori del salvataggio vennero sconfitti, l’intera tiratura del 10° volume venne distrutta e nessuno osò conservarne neanche una copia per sé. Fu anche deciso che la cosa doveva finire lì. Il 10° volume non vide mai la luce neppure in forma rifatta e trascinò nella disgrazia anche il 12°, che era in gestazione, ma non arrivò mai in tipografia.

Quanto a me, sono comunque felice di possedere i dieci (1-9 e 11) volumi usciti di un’opera che fa onore alla cultura russa.

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Negli anni Settanta del secolo scorso mi capitava spesso di soggiornare a Mosca per settimane, a volte più a lungo. Mi reputavo uno che la sapeva lunga, che riusciva a muoversi in Unione Sovietica come un pesce nell’acqua e che sapeva evitare le fregature. Tuttavia mi capitò di farmi “fregare” e voglio raccontare come.

Poco prima che io partissi per l’URSS lo scrittore Anatolij Kuznecov, autore di un romanzo di successo tradotto anche in Italia, Prodolženie legendy, era stato protagonista di un fatto clamoroso, del quale avevano parlato tutti i giornali del mondo. Dopo una lunga attesa, Kuznecov aveva ottenuto dalle autorità sovietiche il permesso di recarsi a Londra, a spese dell’Unione degli scrittori, per scrivere un libro sul soggiorno londinese di Lenin. Però gli era stato affiancato un accompagnatore: evidentemente non ci si fidava del tutto di lui. Un paio di giorni dopo l’arrivo a Londra i due sovietici stavano andando a piedi a una vicina biblioteca frequentata a suo tempo da Lenin quando si trovarono a passare davanti a un commissariato di polizia. Improvvisamente, Kuznecov piantò in asso il suo accompagnatore e si precipitò dentro il commissariato. Aveva, come si diceva allora, “scelto la libertà”.

Io arrivai a Mosca qualche giorno dopo. Appena mi sistemai in albergo, andai al banco di vendita dei giornali e delle riviste che, come in tutti gli alberghi sovietici, si trovava nella hall. Per curiosità, presi in mano l’ultimo numero, appena uscito, della rivista letteraria Junost’ e andai a controllare sul retro della copertina, nell’elenco della Redakcionnaja kollegija, il nome di Anatolij Kuznecov, che ne era membro. Vidi che il suo nome c’era ancora. Avrei potuto comprare quel numero della rivista, ma non lo feci perché, essendo abbonato a Junost’, ogni mese la ricevevo regolarmente a Roma. Pensai che sicuramente nel numero successivo Kuznecov sarebbe scomparso dall’elenco, ma che per quel numero le autorità non potessero fare più nulla. Errore.

Tornato a Roma, aspettai tranquillamente l’arrivo della rivista. Ero abbonato a diverse altre riviste letterarie in lingua russa, che una dopo l’altra arrivarono regolarmente. Ma non Junost’. Dopo due o tre mesi, finalmente la rivista arrivò. Nella Redakcionnaja kollegija il nome di Anatolij Kuznecov era scomparso. Avevano rifatto la copertina, non so se dell’intera tiratura, o delle sole copie inviate agli abbonati, o soltanto di quelle degli abbonati all’estero. Ma resta il fatto che di quel numero di Junost’ non ho la doppia copia, come mi è capitato invece per il 5° volume della Bol’šaja Sovetskaja Enciklopedija.

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Sempre in tema di censura, questa volta antistalinista, voglio raccontare infine un episodio nel quale venni coinvolto mio malgrado. Avevo tradotto in italiano il romanzo Zvezda di Emmanuil Kazakevič per la casa editrice Progress di Mosca. Era un romanzo di guerra e c’era un episodio bellico ambientato nella tenda di un generale sovietico. Il generale stava parlando con alcuni ufficiali, dietro di lui era appeso un ritratto di Stalin. Così era scritto nell’originale russo e così io avevo tradotto. Ma grazie a Chruščëv, dopo il famoso XX congresso del PCUS c’era stata la destalinizzazione. Quando ebbi in mano le bozze della mia traduzione mi accorsi che il ritratto di Stalin dietro al generale era scomparso. Lo feci notare al direttore della sezione italiana della Progress e cercai di convincerlo che per quanto sia lui che io fossimo degli antistalinisti, l’operazione non era lecita. L’unica persona che avrebbe potuto modificare legittimamente il testo sarebbe stato l’autore, Kazakevič, il quale però si dava il caso che fosse morto da una decina di anni. Ma non ci fu niente da fare. Il romanzo uscì censurato. D’altra parte, in epoca zarista era stato censurato in modo alquanto ingegnoso anche Gogol’. Nelle Anime Morte c’è un episodio in cui si parla di un arciprete che praticamente “compra” una ragazza. Che cosa fece la censura di allora per tutelare il buon nome della Chiesa ortodossa? Trasformò la parola protopop, arciprete, in Protopopov, che è un cognome abbastanza diffuso in Russia. In questo modo risultava che a comprare la ragazza non era stato un sacerdote, ma un qualsiasi signor Protopopov. Va detto che in epoca sovietica venne ristabilito nelle edizioni di Gogol’ il testo originale, protopop, arciprete. Ignoro come si comportino oggi le case editrici russe, se abbiano ripristinato o no la variante zarista. Ma, come scrisse Seneca, Nulla più mi stupisce.Slavia, rivista trimestrale di cultura

Dino Bernardini, "Slavia" N°1 2007