mercoledì 21 gennaio 2009

I conti della Russia

Fondamentalmente, quel che si dice attualmente in Occidente sull'economia russa è che:

  1. L'inflazione in Russia sarebbe superiore al 10% circa dichiarato.
  2. In Russia la produzione sarebbe di gran lunga inferiore a quella dichiarata.
  3. La Russia dipenderebbe dalle importazioni.
  4. Per tutte queste ragioni, la Russia soffrirebbe più di altri della svalutazione del rublo nei confronti dell'euro.

Naturalmente, le opinioni sono come le corna e ciascuno ha le sue, tutte legittime.

Però, a parte che si nutrono seri dubbi circa l'attendibilità dell'inflazione in Italia, le mie tasche dicono che l'inflazione forse è addirittura più bassa. Nel 2002 una pagnotta di pane Darnickij costava 9 rubli e mezzo, adesso 17. Conti alla mano, il risultato sarebbe il seguente:

200215,1%9,50
200312,0%10,93
200411,7%12,25
200510,9%13,68
20069,0%15,17
200711,9%16,54
200812,5%18,50
2009 20,82

Potrei fare esempi analoghi su carne, latte, sigarette, vodka, ecc. Il mio tenore di vita è assolutamente da russo.

La produzione. La matematica difficilmente può essere considerata un'opinione.

AnnoEsportazioniImportazioniDifferenza% Export% Import
199871.313,743.579,627.734,1
199972.885,430.277,942.607,52%-31%
2000103.092,833.878,569.214,341%12%
200199.969,641.881,358.088,3-3%24%
2002106.712,046.173,060.539,07%10%
2003133.656,057.347,076.309,025%24%
2004181.663,075.569,0106.094,036%32%
2005241.473,098.707,0142.766,033%31%
2006301.530,0137.764,0163.766,025%40%
2007351.924,0199.840,0152.084,017%45%

Come si evince, non solo le esportazioni continuano a crescere e ad essere sempre più superiori alle importazioni, ma soprattutto, grazie alle esportazioni delle fonti di energia (le risorse energetiche rappresentano il 69% delle esportazioni, di cui 35% petrolio, 14% gas, 12% i metalli, e d'altra parte ciascuno esporta quel che ha, non è colpa della Russia se le risorse di energia non si trovano in Occidente), anche le importazioni continuano a crescere, e ad un ritmo che fa invidia a qualunque Paese occidentale.

Per l'euro, infine, vedremo come andrà a finire. Adesso sta a 43 rubli (il dollaro a 33). Fatto sta che già a cavallo tra il 2004 ed il 2005 aveva sfiorato i 38 rubli (il dollaro a cavallo tra il 2005 e il 2006 i 29 rubli), per poi scendere a 33 rubli agli inizi del 2006 (il dollaro a 23 rubli a metà 2008). Difficile parlare di tendenze.

martedì 20 gennaio 2009

Scampoli di memoria 9

di Dino Bernardini

La liberazione di Roma

La mattina del 4 giugno 1944, dopo giorni che se ne parlava, si sparse la notizia che le truppe angloamericane erano finalmente arrivate alle porte di Roma. In realtà si trovavano non proprio «alle porte», che per i romani sono quelle delle mura aureliane e, in particolare per noi «san-giovannini», quelle di Porta San Giovanni. Tuttavia stavano ormai davvero a pochi chilometri dalla città, ferme in attesa di capire se i tedeschi si sarebbero ritirati senza combattere, o se invece avrebbero trasformato Roma, «città aperta», in un campo di battaglia. In questo secondo caso, ci si aspettava che il comando tedesco avrebbe proclamato lo stato d’assedio. Questo timore quella mattina indusse tutti i romani a uscire di casa, finché era possibile, a cercare di procurarsi qualche provvista in vista del peggio che poteva accadere.

Avevo dodici anni e scesi anch’io per strada a vedere, speravo, l’arrivo degli americani. Tutte le strade del nostro quartiere brulicavano di gente che si aggirava con l’aria inquieta. Da via Corfinio girai a sinistra per via Magnagrecia, la attraversai e la percorsi fino all’angolo con Piazzale Appio, dove voltai a destra per via Appia Nuova. Era da lì, si supponeva, che gli americani sarebbero arrivati. Notai subito che in via Appia Nuova, all’altezza delle prime due traverse, via Veio a destra e via Faenza a sinistra, i tedeschi avevano allestito una postazione di mitragliatrici con dei sacchetti di sabbia posti al centro della strada. Le mitragliatrici erano puntate verso sud. Tornai a casa e sul pianerottolo incontrai mia madre, indecisa se uscire o rimanere in casa. Il fatto è che nella nostra trattoria di Largo Brindisi avevamo lasciato il giorno prima un grosso borsone contenente il pane da vendere ai clienti in cambio dei bollini della tessera annonaria. Se fossimo stati costretti a rimanere chiusi in casa chissà per quanti giorni, sarebbe stato un peccato lasciar sprecare tutto quel pane. Ci consultammo e mia madre decise che dovevamo andare a prenderlo.

Da via Corfinio attraversammo subito via Magnagrecia e imboccammo via Veio in direzione di via Appia Nuova. Era il percorso più breve per arrivare a Largo Brindisi passando per le due traverse, via Veio e via Faenza, che sono l’una la continuazione dell’altra. Giunti però alla fine di via Veio, ci accorgemmo che per continuare in linea retta e proseguire quindi per via Faenza bisognava attraversare via Appia Nuova proprio all’altezza della postazione di mitragliatrici. Ci ponemmo subito il dilemma: era più prudente passare davanti alle mitragliatrici o dietro? Le facce di quei tedeschi non erano più quelle pulite, spensierate e sorridenti delle sentinelle tedesche che da mesi stavano in via Sannio a guardia della centrale telefonica e che ogni tanto davano un calcio al pallone con noi ragazzini. Quel giorno i tedeschi erano sporchi, brutti e cattivi, avevano una faccia feroce, la faccia di un esercito sconfitto, costretto forse a lasciare la capitale d’Italia senza combattere, oppure a battersi strada per strada in una città ostile, contro l’esercito angloamericano e anche contro la guerriglia dei partigiani. Passare davanti a loro e alle loro mitragliatrici puntate poteva essere considerato un atto di sfida, una provocazione, ma anche a passare alle loro spalle c’era un rischio. Potevano pensare che volessimo fare un attentato, che so, lanciare una bomba contro di loro.

Decidemmo di passare davanti, ma a passo lento. Quelle poche decine di metri ci sembrò che non finissero mai, il cuore ci batteva forte, la paura era tanta. I tedeschi ci guardavano con odio, come ormai guardavano con odio tutti gli italiani. Arrivammo in via Faenza senza problemi, la percorremmo e attraversammo Largo Brindisi. La trattoria era chiusa, ma entrammo dal retro, dalla parte del cortile, prendemmo il borsone del pane e ripercorremmo la stessa strada in senso inverso. Questa volta, nel passare di nuovo davanti a quelle facce minacciose, avevamo un motivo ulteriore di paura: con quel borsone potevamo essere scambiati per «borsari neri» – così si chiamavano allora a Roma coloro che si dedicavano alla «borsa nera», il mercato nero illegale – e magari essere fucilati sul posto. Invece non ci successe niente.

Dopo qualche ora i tedeschi raccolsero le loro mitragliatrici, salirono sui camion e partirono in direzione nord. Noi intanto eravamo rientrati in casa.

Nel primo pomeriggio, subito dopo pranzo, ero di nuovo in strada, sul Piazzale Appio. Improvvisamente da via Appia Nuova sbucò un carro armato e si fermò al centro del piazzale, davanti a Porta San Giovanni e in vista della basilica. Dalla torretta del carro spuntò un uomo che prese a fare cenni alla gente presente affinché qualcuno si avvicinasse. Sul piazzale c’erano decine di persone, ma tutti stavano prudentemente a distanza di sicurezza. Io stavo tra loro e sentivo qualcuno chiedersi e chiedere: «Ma quel carro armato, sarà americano o tedesco? E se facessero finta di essere americani e invece sono tedeschi?». Poi a poco a poco qualcuno cominciò ad avvicinarsi, ma emerse subito il problema della lingua perché nessuno parlava né tedesco né inglese. Allora un tale disse: «Ma io conosco uno che è stato emigrato in America, abita qui in via Magnagrecia, adesso lo vado a chiamare».

Tutti si misero ad attendere l’ex emigrato, ma intanto, con il linguaggio dei cenni, si cercò di far capire al carrista che bisognava aspettare. Finalmente l’ex emigrato arrivò, ma si vedeva che aveva una gran paura anche lui. Lo costrinsero ad avvicinarsi al carro armato e a parlare con il carrista. Dopo un breve scambio di battute si rivolse agli altri italiani presenti e disse: «E’ americano». Roma era libera. Andai a cercare mio padre che da qualche mese, dopo le torture dei fascisti della banda Koch, era al sicuro dentro il perimetro della basilica San Giovanni, che godeva dell’extraterritorialità. Come fosse finito lì, l’ho già raccontato in un’altra puntata di questi Scampoli di memoria. Tuttavia mio padre non c’era più, era già uscito, finalmente libero. Nei giorni successivi, per settimane, le colonne della V armata americana e della VII armata inglese (se non ricordo male) percorsero la via Appia, che nell’ultimo tratto urbano fino a Porta San Giovanni si chiama appunto Appia Nuova, tra due fitte ali di folla festante. Particolarmente festeggiati erano gli americani, che lanciavano alla folla tavolette di cioccolata, pacchetti di sigarette, carne e fagioli in scatola, gomme americane, di cui sembrava avessero una scorta infinita. Naturalmente, anch’io ero tra quella folla festante e portavo a casa ogni giorno qualche scatoletta (le gomme americane le tenevo per me).

Questi miei ricordi di quella giornata divergono però da quelli di Giulio Andreotti relativamente alla data dell’arrivo degli americani. Andreotti ha raccontato recentemente che il generale americano Clark il 5 giugno, alle 8 del mattino, «con una colonna di jeep cercava il Campidoglio e finì a San Pietro». Questo episodio sarà sicuramente vero, perché è noto che il senatore a vita Giulio Andreotti ha un’ottima memoria. Il fatto poi che all’epoca lui avesse 25 anni, mentre io ne avevo soltanto 12, ha contribuito a far sorgere in me più di un dubbio. Tuttavia quell’episodio potrebbe essere non in contrasto con i miei ricordi. Infatti il generale Clark potrebbe essere entrato a Roma la mattina del 5 giugno e il carro armato dei miei ricordi il 4 giugno. Certo, la data non è poi così importante, ma resto convinto che i tedeschi lasciarono Roma il 4 giugno 1944, anche perché questa data mi pare di averla vista anche in qualche pubblicazione. Comunque sia, la visione di quel carro armato al centro di Piazzale Appio, davanti a Porta San Giovanni, è ancora nitida nella mia mente.

* * *

Dopo una settimana, andammo tutti e cinque, l’intera nostra famiglia finalmente riunita, a Genzano per vedere in che condizioni si trovasse la nostra piccola vigna. Era meno di un ettaro, frutto dell’«invasione» delle terre incolte negli anni Venti del secolo scorso, che successivamente il governo fascista aveva lasciato in proprietà agli «invasori» a patto che le riscattassero pagando una certa somma. A Genzano, che dista 33 chilo-metri da Roma, arrivammo non ricordo più se con il tram della Stefer o con un pullman, ma poi da Genzano ci avviammo a piedi per raggiungere la vigna. Si trattava di percorrere sette o otto chilometri in un territorio devastato dai carri armati americani e tedeschi che lì si erano dati batta-glia. I confini di tutte le piccole vigne erano stati cancellati dai carri armati, la strada era piena di crateri provocati dalle bombe, ai lati c’erano montagne di armi e munizioni abbandonate. Ricordo che in quel periodo i vignaioli di Genzano giravano per le campagne a raccogliere i nastri di cotone delle mitragliatrici: i proiettili li buttavano, ma i nastri si riusciva a trasformarli in gomitoli di filo robusto con cui si facevano calzini e cal-zettoni. A metà strada, sotto il cavalcavia crollato della ferrovia Roma-Napoli, c’era un carro armato tedesco semidistrutto, che dovemmo aggirare. A un certo punto vidi davanti a me un elmetto tedesco in mezzo alla strada. Fu quello uno degli episodi più orrendi della mia vita. Infatti avvicinai il piede destro e, come se fosse un pallone, lo colpii di piatto. L’elmetto rotolò e scoprimmo tutti con orrore che dentro all’elmetto c’era la testa di un uomo.

* * *

Nei giorni successivi ci fu, lungo quella strada, un altro episodio che ricorda la storia del film La Ciociara, ma che colpì la famiglia di una cugina di mia madre. Anche loro erano andati a controllare lo stato di un terreno e stavano tornando a Genzano, naturalmente a piedi. Erano in quattro, i due genitori, una figlia di quindici anni e un figlio di otto o nove anni. A pochi chilometri dal paese si accorsero di essere seguiti da una decina di militari marocchini dell’esercito francese. I marocchini procedevano a passo svelto e li avrebbero sicuramente raggiunti prima di arrivare al paese. Allora la famiglia allungò il passo, ma i marocchini si misero a correre. A quel punto anche la famiglia cominciò a correre. Genzano era ormai vicina e i marocchini capirono che non sarebbero riusciti a raggiungere in tempo le loro prede. Sapevano tutti nella zona, e forse anche i marocchini sapevano, che Genzano la «rossa», la «Stalingrado dei Castelli romani», era stata un centro della Resistenza e che in quei giorni i partigiani erano ancora tutti armati. Così, i marocchini spararono, forse per far fermare i fuggiaschi, o forse per la rabbia di dover rinunciare alle due donne. Fatto sta che uccisero i due genitori e il ragazzo. L’unica che si salvò, perché era la più veloce, la più lontana dagli inseguitori, fu proprio la preda più ambita, la ragazza.

E con questo brutto episodio termina anche questa puntata di ricordi.

NOTE

* Le puntate precedenti sono state pubblicate in Slavia, 2005, n.3; 2006, nn. 2, 3 e 4; 2007, nn. 1 e 3; 2008,nn.1 e 2.

Slavia, rivista trimestrale di cultura

Dino Bernardini, "Slavia" N°4 2008

venerdì 16 gennaio 2009

Ma chi è Lucia Annunziata?

Comunicazione di servizio: Mario, aspetto che tu pubblichi le questioni della Aspen e quant'altrο.

Stasera ad "Anno Zero", dove peraltro, non appena qualcuno ha provato a contraddire la Annunziata, quest'ultima se n'è andata per protesta, essa ha affermato che "il mestiere di giornalista vuol dire orientare l'opinione pubblica". Fermatevi. Vi rendete conto di cosa voglia dire questo concetto? Dunque, l'opinione pubblica non è quella che orienta i suoi legittimi rappresentanti tramite le democratiche elezioni, bensì i giornalisti, non eletti da nessuno, ad orientare coloro che poi eleggono il potere. Meditate, gente, meditate...

domenica 11 gennaio 2009

Recensione (o quasi) del libro "Post scriptum. Memorie. O quasi"

di Lilia Skomorochova Venturini (università di Genova)

Julija Abramovna Dobrovol'skaja, autrice di Post Scriptum. Memorie. O quasi (Cafoscarina 2006), nasce a Nižnij Novgorod (sul Volga) nel 1917. Il padre, laureato in silvicoltura, nel 1916 viene inviato nel governatorato di Nižnij Novgorod a occuparsi di foreste. Successivamente lavora, sempre a Nižnij Novgorod, per il Consiglio economico nazionale e negli anni Trenta passa a dirigere il settore programmazione di una grossa cartiera di Leningrado. Muore a 58 anni. La madre, laureata in lingua inglese, aveva lavorato come interprete in una fabbrica di automobili impiantata dagli americani, successivamente aveva insegnato inglese. Muore di cancro nel 1980. Né la famiglia né i parenti prossimi di Julija Dobrovol'skaja subirono repressioni. Julija Dobrovol'skaja termina la scuola media superiore e poi la Facoltà di Lingue e Lettere a Leningrado. Fa l'interprete per i consiglieri sovietici durante la guerra civile in Spagna. Tornata dalla Spagna, lavora alla TASS (Agenzia Telegrafica dell'Unione Sovietica) in qualità di assistente presso la Redazione informazioni, diventa membro del Partito comunista.

Nel settembre del 1944 viene arrestata. Sconta dodici mesi di reclusione (fino all'agosto 1945) perché "si trovava in condizione di compiere un crimine" durante la sua permanenza in Spagna. Verrà riabilitata e reintegrata nel Partito comunista nel 1955). Dal 1946 al 1950 insegna italiano all'Istituto universitario di lingue straniere a Mosca e dal 1956 al 1965 all'Istituto di Relazioni Internazionali del Ministero degli Esteri dell'URSS (il MGIMO). Negli anni successivi traduce dall'italiano per la casa editrice Progress (Umberto Nobile, Giovanni Pirelli, V. Scapin, Marcello Venturi, Marina Sereni, Leonardo Sciascia, Gianni Rodari, Pietro Butitta, Paolo Grassi e altri) e svolge attività di interprete presso il Ministero della Cultura e l'Associazione URSS-Italia. Diventa membro dell'Unione degli scrittori (Sezione traduttori). Sposata due volte (senza figli), in prime nozze con A. Dobrovol'skij, un importante dirigente nel settore dell'industria ottica, da cui divorziò, e, in seconde nozze, con S. Gonionskij, padre della latinoamericanistica russa, morto di tumore nel 1974. Dal 1982 vive e lavora in Italia.

Ho letto il libro di Julija Dobrovol'skaja e parlerò di ciò che mi ha colpito in modo particolare.

L'autrice è consapevole di aver fatto parte dello strato privilegiato della società russa. Lasciamo la parola a lei stessa: "Noi della cosiddetta intelligencija creativa non disdegnavamo, comunque, i privilegi - i centri vacanze, i viaggi a Karlovy Vary, il policlinico efficiente, le pubblicazioni..." (p. 81). Oppure: "... il convegno dei teatranti ebbe fine... me ne andai a Peredelkino, a tirare il fiato al "Centro di creatività", vicino a Lilja Brik e Vasja Katan'jan, vicino agli Ivanov... " (p. 149). L'Autrice racconta anche, con noncuranza, delle sue "conversazioni sull'Italia a Koktebel'" nel 1981 (p. 279). (Per chi non lo sappia, Peredelkino era il villaggio esclusivo composto dalle seconde case che lo Stato sovietico concedeva agli appartenenti all'Unione degli scrittori, mentre Koktebel' era il luogo di vacanze più esclusivo della nomenklatura in Crimea sul Mar Nero). Da ricordare, inoltre, che l'ammissione della Dobrovol'skaja all'università, a differenza dei comuni mortali, avvenne grazie alla raccomandazione del celebre fisiologo A. D. Speranskij, che "aveva telefonato al comitato regionale del partito" (p. 31).

Julija Dobrovol'skaja sapeva come doveva comportarsi per ottenere e conservare i privilegi: in primo luogo bisognava iscriversi al partito comunista (il che non era un'impresa facile): "All'epoca (...) diventai membro dell'allora Partito comunista bolscevico. Tutti avevano la tessera, e la presi anch'io" (p. 80). In secondo luogo, dopo averla perduta, bisognava riavere quella tessera. Così la Dobrovol'skaja non rinuncia alla reintegrazione nel partito dopo che, nel 1955, la sua condanna del Tribunale speciale era stata cassata "per non aver commesso il fatto". L'Autrice motiva la sua decisione nel seguente modo: "Dopo diciassette anni di carcere e lager anche Lev Razgon, il nostro saggio rabbi, volle che lo riammettessero nel partito" (p. 119). Inoltre, dichiara che all'epoca (aveva 38 anni) la sua "sovieticità non era ancora esaurita" (corsivo di chi scrive) (p. l19). In terzo luogo, non bisognava mai entrare in conflitto diretto con il potere: "La mia strada non ha mai incrociato quella dei dissidenti; del resto non ero giunta al loro grado di disperazione, né avevo il loro coraggio (p. 26).

Ma quanto sono severi ora i suoi giudizi riguardo al proprio paese! Abbiamo niente di meno che "l'impero del male" (p. 151), "la peste del 1917 che ha infettato tutto il pianeta avvelenando la vita di molte generazioni, non solo la mia" (p. 219).

Un'altra contraddizione che noto riguarda gli anni in cui studiava. Bisogna dire che l'Autrice era molto competitiva, sempre ai primi posti, a undici anni "guida" dei pionieri (p. 17), poi, negli anni dell'università, la sua fotografia era nella bacheca dei migliori del corso (p. 28). Aggiungiamo che riuscì persino ad essere prima tra quelli della TASS nella raccolta delle patate, nonostante "i boccoli dorati, il vitino da vespa e la pelle di porcellana... abiti parigini e tacchi alti" (pp. 79-80). Confrontiamo il passaggio che descrive la sua esperienza di bambina undicenne e la sua valutazione da adulta del sistema di educazione in URSS: "D'estate c'era il campeggio dei pionieri. Da soli, senza adulti. A undici anni fui eletta guida. Quanta fiducia!... Magari avevano capito che i ragazzi si divertono di più e stanno molto meglio da soli? E che in questo modo diventano più indipendenti e più responsabili? O forse era per influsso di certe teorie pedagogiche che avevano fatto scalpore in Occidente... (p. 17) (...) Ai campeggi dei pionieri la sera, attorno al fuoco acceso in una radura del bosco, cuocevamo le patate e cantavamo a squarciagola" (p. 18). Ed ecco i suoi giudizi di adesso:

«- triste spettacolo della scuola sovietica, delle scuole-caserme e dei ragazzini-soldati (p. 187).

- La scuola - insieme a tutto ciò che ci circondava - si prefiggeva di fare di noi dei "mancuri" (schiavi perfetti, nota di chi scrive) (p. 18)

- la scuola dell'odio si frequentava fin da piccoli e per tutta la vita (p. 125)».

(Nella stampa russa odierna non sono rare le voci di coloro che, di fronte alla dilagante delinquenza minorile, rimpiangono la smantellata organizzazione capillare dei pionieri con le loro numerosissime iniziative sia per quanto riguarda il doposcuola, sia per quanto concerne il tempo libero - comprese le vacanze - che tenevano i ragazzi lontano dalla strada). Ma come ho fatto io (non la Dobrovol'skaja) a non accorgermi di tutto questo orrore scolastico, pur essendo nata in URSS nel 1942, cresciuta dall'età di 13 anni in poi in un orfanotrofio di provincia, laureata all'MGU, l'università statale di Mosca, sposata con un italiano (anche lui studente dell'MGU) e venuta a vivere in Italia una volta terminati gli studi nel 1966? Conosco già la risposta dell'Autrice del libro, sarò relegata tra coloro che: "Per istinto di conservazione o per ottusità, (...) si tennero i paraocchi vita natural durante" (p. 48). Quanto a giudizi sferzanti, nel libro ce n'è per tutti i gusti: "uno zoticone del ministero della Cultura" (p. 160), "delirio millantatorio di Evtušenko" (p. 212), "testo scialbo come quello de La Madre di Gor'kij" (p. 200), gli "ottusi manuali sovietici" (p. 12). Ma soprattutto la Dobrovol'skaja è poco tenera con gli italiani, colpevoli di non averle offerto qualcosa di analogo a ciò che lei aveva in patria: una casa degna di lei, un lavoro ben pagato, magari nella stessa città in cui viveva, un equivalente di Peredelkino e di Koktebel' e così via. L'Autrice scrive che, dopo il suo trasferimento in Italia, ovvero dopo che lei aveva "scelto la libertà" (p. 280), "...i miei comunisti dal volto umano si volatilizzarono. Per loro ero scomoda, un rimprovero vivente. E non ero nemmeno più la loro traduttrice e interprete" (p. 280). Ecco come tratta lo storico Giuseppe Boffa: "Bisogna essere davvero sordi di cuore per inventarsi un radioso passato da sostituire alle speranze infrante di un futuro radioso" (p. 151). E Renato Guttuso: "...e se la sua fede politica indefessa... fosse solo un paravento? Allora sì che i conti tornerebbero!" (p. 299). E Marina Sereni (che scrive all'amatissima madre: "per il Partito sono pronta a sacrificare anche mia madre: non ti scriverò, non mi scriverai". "Una scelta che non solo ha un che di fanatico, ma anche di inumano" (p. 180). Carlo Benedetti, corrispondente de l'Unità: "Devo ammettere che non mi sarei mai aspettata tanta audacia, da parte sua (...). Tanto più che in seguito si sarebbe comportato come un coniglio di fronte a un boa" (p. 192). Giorgio Bassani: "Sentiva sterilità alle porte? Che tristezza!" (p. 282). Bruno Pontecorvo: "...le sue opinioni erano prive di logica e assomigliavano piuttosto a una religione, a una vera e propria fede" (p. 266). Gianni Rodari: "Sapevi delle porcherie che accadevano intorno a te, e cos'hai fatto?" (p. 188). I docenti universitari che non adottavano il suo manuale Il Russo per Italiani, uscito nel 1987: "la loro preparazione non li metteva in grado di utilizzarlo" (p. 231). L'Italia nel suo insieme è un paese in cui l'esistenza di GULag e di cose simili "si passa sotto silenzio" (p. 27), un paese che "ha quasi sempre ignorato i dissidenti sovietici" (p. 26), in cui i brigatisti rossi e i comunisti hanno un unico "album di famiglia" (p. 151), le università e le case editrici sono di sinistra e cocciutamente filosovietiche (p. 295). E' un paese in cui i sindacati sobillano i lavoratori, come è successo con l'orchestra della Scala (p. 277).

Ma più curioso ancora è che i giudizi sull'Italia e sugli italiani possono non coincidere nell'edizione italiana con quella russa del libro. Per esempio: "...nessuno dei postcomunisti che si erano tanto profusi in buoni sentimenti nei miei riguardi..." (p. 152), "... nikto iz postkommunistov, rasšarkivajuščichsja peredo mnoj kogda-to..." (p. 142). All'espressione "tanto profusi in buoni sentimenti nei miei riguardi" nel testo russo corrisponde "rasšarkivajuščichsja peredo mnoj kogda-to". Il verbo (rasšarkivat'sja), da cui è formato il participio, stando al dizionario Ožegov, ha due soli significati: 1. inchinarsi come atto di omaggio, di rispettoso saluto strascicando il piede; 2. (traslato) mostrarsi servizievole. Ovviamente, nella frase italiana il participio è usato nel secondo significato.

Nel testo italiano, il passo sull'università e sulle case editrici termina con "qualcosa nel piatto": "... non sapevo ancora fino a che punto fossero di sinistra e cocciutamente filosovietiche le università e le case editrici per cui avrei dovuto lavorare se volevo mettere qualcosa nel piatto" (p. 295). Il testo russo, invece, continua: "nel caso migliore ignoravano Solženicyn e Sacharov in quanto traditori della grande causa del comunismo" (Solženicyna i Sacharova v lučšem slučae ignorirovali kak izmennikov velikogo dela kommunizma", p. 276). Riguardo alla morte di Pasolini nel testo italiano si ha soltanto la seguente citazione: «:"... è un omicidio di matrice fascista", mi scrisse (Guttuso) contro ogni evidenza» (p. 212). Il testo russo, invece, continua ammaestrando il lettore nel seguente modo: «perché il "povero" Pasolini fu ucciso da un ragazzo della periferia romana, un ragazzo di cui Pasolini cercava senza successo di ottenere favori omosessuali" («potomu, čto ubil "bednogo" Pazolini paren' iz rimskogo predmest'ja, gomoseksual'nych uslug kotorogo Pazolini bezuspešno dobivalsja», pp. 200-201).

Sempre in merito alla delusione provocata dall'Italia si legge: "Resistette e resiste a tutt'oggi l'amicizia con Marcello e Camilla Venturi, con i Gandolfo, con la famiglia Cevese e con Piero e Marisa Ostellino. Che però la pensano come me (p. 280). Il testo russo abbrevia l'elenco di chi la pensa come lei: "pročno deržitsja družba s Vizmarami i s P'ero i Marizoj Ostellino" (p. 263) (si mantiene salda l'amicizia con i Vismara e con Piero e Marisa Ostellino). In compenso, si dilunga su Piero Ostellino, ex corrispondente da Mosca de "Il Corriere della Sera" e sulla politica del quotidiano in questione: "Non per nulla l'allora direttore prettamente di sinistra del principale quotidiano italiano, "Il Corriere della Sera", cestinava sistematicamente le veritiere corrispondenze di Ostellino da Mosca. Per fortuna, i direttori vanno e vengono, mentre un ottimo giornalista come Ostellino rimane. Anzi, anche lui è stato direttore per qualche tempo (e in questa veste mi aveva piacevolmente sorpreso perché teneva sempre aperta la porta del suo ufficio), ma durò poco, un paio di anni: non era piaciuto a qualcuno. Sotto i suoi articoli nel Corriere della Sera avrei messo la mia firma con entrambe le mani (Nedarom glavnyj redaktor glavnoj ital'janskoj gazety "Korr'ere della sera", togda sugubo levyj, sistematičeski brosal v korzinu pravdivye korrespondencii Ostellino iz Moskvy. K sčast'ju, glavnye redaktory prichodjat i uchodjat, a otmennyj žurnalist Ostellino ostalsja. Bolee togo, on tože byl kakoe-to vremja glavnym redaktorom (i v ètom kačestve prijatno udivil menja tem, čto dver' kabineta vsegda deržal otkrytoj), no nedolgo, goda dva, ne ugodil komu nado. Pod ego stat'jami v "Korr'ere della sera", podpisyvalsja obeimi rukami, pp. 263 - 264).

Infine, abbiamo la comparazione tra comunismo e fascismo, nel testo russo, che diventa tra comunismo e nazismo nel testo italiano: "meždu fašizmom i kommunizmom - znak ravenstva" (p. 183): "tra fascismo e comunismo c'è il segno di uguaglianza". L'edizione italiana dice: "nazismo e comunismo hanno molto in comune" (p. 201), "fascismo è uguale al comunismo" (p. 185).

Viviamo in tempi curiosi. Se una presentatrice televisiva, diventata onorevole, può senza il minimo pudore pronunciarsi nel merito sulla fisica delle particelle e dei suoi studiosi, perché la traduttrice Julija A. Dobrovolskaja non può giudicare a suo modo un'epoca che, oggi chiusa, secondo Giuseppe Boffa, in Memorie dal comunismo. Storia confidenziale del quarantennio che ha cambiato il volto dell'Europa, pag. 22-23, "tuttavia non merita di essere dimenticata"? Se non altro, perché lei è coetanea della Rivoluzione d'Ottobre. Peccato solo che l'Autrice usi due pesi e due misure: una per sé e una per gli altri. Non è che sa che si deve avere "il rispetto delle opinioni altrui senza abiurare le proprie" (p. 257), ma proprio non riesce a metterlo in pratica?

Slavia, rivista trimestrale di cultura

Lilia Skomorochova Venturini, "Slavia" N°2 2008

sabato 10 gennaio 2009

Capire l'Ucraina

di Aleksandr Sabov

(L’autore di questo articolo, scritto a caldo nel 2004 ai tempi della cosiddetta rivoluzione arancione, ma che, in una situazione che si è ripresentata senza via di uscita, sembra quasi scritto nel 2007, alla vigilia delle nuove elezioni, è un giornalista russo esperto di politica internazionale, che è stato per molti anni corrispondente da Parigi prima della Komsomol’skaja pravda e poi della Literaturnaja gazeta. Per nascita, Sabov proviene dalla Galizia, una regione situata all’incrocio tra più nazioni. In uno dei suoi libri, ha raccontato dello strano destino di sua sorella, che, senza essersi mai mossa dal proprio villaggio, si è trovata ad essere, nel corso della sua vita, cittadina austriaca, polacca, ungherese, cecoslovacca e sovietica. Oggi, dopo il crollo dell’URSS, supponiamo sia cittadina ucraina. L’articolo di Sabov riflette abbastanza fedelmente le posizioni russe sull’argomento, che naturalmente sono diverse da quelle di molti autori ucraini).

Ormai è da più di un mese che rimaniamo incollati davanti alla televisione e soffriamo per l’Ucraina. E’ dunque vero che il Paese si trova sull’orlo della scissione? E’ già tornata la “rivoluzione castana”, o si è temporaneamente allontanata fino al terzo turno di elezioni? Ad ogni modo, in Ucraina occidentale, dove si trova la potente Chiesa greco - cattolica, l’ultima tappa della campagna elettorale coinciderà con il Natale. I propagandisti “arancioni” sono già in giro per le campagne, dove entrano nelle case a recitare poesie natalizie: “Si siedono a tavola, non bevono e non mangiano, dànno consigli…”.

Nel suo famoso saggio Kak nam obustroit’ Rossiju (Come possiamo sistemare la Russia), uscito un anno prima del dissolvimento dell’URSS, Aleksandr Solženicyn (“Io stesso per poco non sono per metà ucraino”) pensava, con un senso di dolore lacerante, proprio all’Ucraina e alla Russia con i loro venti milioni di parenti dall’una e dall’altra parte! Un anno fa abbiamo letto il libro Ukraina – ne Rossija (L’Ucraina non è la Russia) del Presidente Leonid Kučma, scritto al termine del suo decennale mandato. Ciò che più lo preoccupava era l’“incompiuta auto-identificazione degli ucraini”. Ricordiamo anche un vecchio dibattito, svoltosi in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Taras Ševčenko, quando anche la Russia, dopo l’Ucraina, aveva cominciato a cantare il suo Zapovit (“Quando morirò, seppellitemi… Seppellitemi e alzatevi, liberatevi con il sangue dei nemici, conquistate la libertà”). Un famoso giornalista della rivista Novoe vremja (Tempi nuovi), Michail Men’šikov, così si espresse a questo riguardo (Pis’ma k russkoj nacii, 1914):

«C’è da chiedersi quali “nemici” avesse l’Ucraina ai tempi di Ševčenko cinquanta anni fa. Di certo, non più i polacchi e non più i tartari. Anche a non voler considerare gli altri attacchi politici dei “parenti” di Taras, era chiaro che gli unici nemici che popolassero allora la sua fantasia erano i “moscali” [i moscoviti], che avrebbero tenuto l’Ucraina in prigione e gli ucraini in catene [kajdany]. Era vero tutto ciò? E’ stato vero allora o in qualsiasi altro momento della storia? … Forse, l’annessione della “Piccola Russia” alla “Grande Russia” nel XVII secolo avvenne in qualche modo con la forza, ma a forzarla non furono i “moscali”, bensì i polacchi, i giudei, i turchi, i tatari… Dov’è la vostra schiavitù, dove sono le catene, dov’è l’urgente necessità di cospargere l’intero Dnepr di sangue grande-russo?».

Un punto fermo su questa discussione dimenticata venne posto a suo tempo da una trojka itinerante della VČK (1): nel 1918 il “černosotenec” [membro dell’organizzazione di estrema destra dei “Cento neri”] M. O. Men’šikov venne fucilato sulla riva del lago Valdaj, vicino alla sua dača. Oggi, dopo 75 anni, è stato riabilitato. Gli estimatori del suo talento, in collaborazione con il museo cittadino di Valdaj, hanno organizzato un ciclo patriottico di letture intitolato Men’šikovskie čtenija e si stanno adoperando affinché vengano ripubblicati i suoi libri.

Sono tante le spine di questo genere rimaste infisse nella memoria dei nostri popoli durante la vita vissuta in comune all’interno degli imperi russi. Ma adesso vogliamo soffermarci sugli ucraini: come si evolvono oggi i loro rapporti?

I nuovi “federalisti”

Già durante la prima presidenza di Leonid Kučma, trenta storici ucraini avevano scritto un’opera imponente, Ukrainskaja gosudarstvennost’ v XX veke (L’ordinamento statale ucraino nel XX secolo). Il libro inizia così:

“Per fortuna o per sfortuna, nel XX secolo il socialismo è stato l’ideologia più influente in Ucraina. A partire dai primi tentativi di fondazione dei partiti politici nelle zone a nord del Dnepr, proprio all’inizio del secolo, passando attraverso la guerra di indipendenza del 1917-1922 e fino al crollo dell’URSS, il movimento politico ucraino e tutti i governi ucraini (o pseudo - ucraini) sono stati socialisti”. L’autore di queste righe è James E. Meis, importante collaboratore scientifico dell’Istituto di Relazioni nazionali e di Politologia dell’Accademia delle scienze ucraina, il quale sottolinea anche che gli ucraini sono sempre stati dei “sognatori federalisti”. Né si deve dimenticare che il “padre della nazione” Michail Gruševski, famoso storico nonché primo Presidente della Repubblica Popolare Ucraina, eletto dalla Rada centrale (2), un’assemblea che non era stata eletta da nessuno, a suo tempo aveva proposto di ritagliare le circoscrizioni amministrative in modo che avessero una popolazione di circa un milione di persone e fossero in grado di gestire “le questioni in materia di sanità, trasporti, agricoltura, territorio, industria e istruzione”. Chissà che Chruščëv non abbia ripreso da lui l’idea dei sovnarchoz (3)?

Tuttavia, la prima a cui questa idea piacque fu la Repubblica Sovietica Donecko-Krivorožskaja, il cui fantasma è stato alla testa dell’attuale parata ucraina di rivendicazioni di sovranità. Nel febbraio del 1918 questa “repubblica” propose che tutta la futura Federazione Russa venisse formata da analoghe regioni economicamente omogenee e non dalle repubbliche nazionali sovietiche, come era stato già deliberato dal terzo congresso panrusso dei Soviet. Mosca però non riconobbe la Repubblica Sovietica Donecko-Krivorožskaja né come repubblica separata né come componente della Federazione russa. E’ curioso che, se si paragonano quegli eventi con quelli attuali, si potrebbe pensare che sulla scena agiscano le stesse forze motrici e persino gli stessi leader, magari con nomi diversi. Quali ragioni, per esempio, emersero allora a sostegno della separazione? Le stesse di oggi: la vicinanza con la Russia, l’eterogeneità della popolazione, l’ucrainizzazione e la derussificazione, il rifiuto di consegnare il denaro al bilancio dello Stato e di “nutrire” così quelle regioni dell’Ucraina che vivono con le “dotazioni”. Solo che questa volta la posta in gioco è più alta: il Congresso ucraino dei deputati, riunitosi recentemente a Severodoneck a sostegno di Viktor Janukovič, ha minacciato di costituire una “Repubblica Federale Sud-orientale con capitale Char’kov”. Il governatore di Char’kov, Evgenij Kušnarev, è salito subito alla tribuna: «Voglio ricordare una cosa alle teste calde che sfilano sotto i vessilli arancioni: da Char’kov a Kiev ci sono 480 chilometri, mentre il confine con la Russia è a 40 chilometri (applausi). “In piedi, mio grande Paese, questa è una guerra per la vita o per la morte, contro le forze oscure del fascismo, contro la peste arancione! (valanga di applausi)”» [salvo l’accenno finale alla “peste arancione”, sono le parole di una famosa e commovente canzone nata nei primi giorni dell’invasione nazista dell’URSS (N.d.R.)] . Ci sono anche altri progetti di separazione: ad esempio, quello del kraj di Novorossijsk, che rivendica uno status di territorio libero autogovernato. Una particolarità notevole del “separatismo orientale” è data dal fatto che, con rare eccezioni, l’apparato amministrativo è compatto.

Al contrario, in Ucraina occidentale il separatismo ha preso quasi ovunque la forma di opposizione contro i dirigenti delle amministrazioni presidenziali, ossia dei governatori. La rada regionale di L’vov [Leopoli], subito dopo aver riconosciuto Juščenko come presidente legalmente eletto, ha rimesso in piedi il vecchio oblispolkom [Comitato esecutivo regionale], escludendo la oblgosadministracija [Amministrazione regionale statale] da ogni attività. Quando poi la Rada nazionale [Parlamento] ha insistito per lo scioglimento degli ispolkom in quanto forme illegali di potere, a L’vov e subito dopo anche a Černovcy sono stati eletti direttamente nelle piazze dei “comitati di salvezza nazionale”. Funzionari regionali di livello dirigenziale vanno adesso, quasi senza nascondersi, a tenere discorsi presso questi comitati.

In questa situazione estrema, il sistema statale ucraino ha mostrato segni di cedimento. Ormai chiunque sia il presidente dovrà affrontare lo stesso compito: arrestare un processo che sta facendo scivolare il Paese verso la creazione di “due Ucraine”. Ma perché una tale separazione è divenuta possibile?

La cicatrice dell’annessione

Nel 1921 la Polonia riconobbe l’Ucraina sovietica mentre la RSFSR (4) e l’USSR (5) riconobbero i diritti della Polonia sulla martoriata Galizia. Due anni dopo, questa decisione venne confermata anche dal Consiglio degli ambasciatori dei Paesi dell’Intesa (6). Per i leader storici della causa ucraina si trattò di un colpo terribile: la speranza di istituire in Galizia un’Ucraina indipendente era fallita. Dovettero rivolgere lo sguardo a un’altra Ucraina, quella “sotto i Soviet” (così la chiamavano). Allora l’ex presidente della UNR (7) Michail Gruševski, l’ex presidente del Direttorio Vladimir Vinničenko, il “romantico dell’idea ucraina” Mikola Michnovski e altri esponenti del Tovariščestvo ukrainskich postepencev espressero al potere sovietico la loro disponibilità a “ritornare a casa” e a contribuire alla lotta contro la Polonia dei pan, a patto che in cambio venisse attuata una piena ucrainizzazione della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina.

La proposta venne accettata. In quello stesso anno 1923, il Comitato Centrale del VKP(b) (8) approvò una risoluzione sulla necessità di “ucrainizzare” l’Ucraina. La campagna di ucrainizzazione assunse ritmi intensi nel 1925, quando L. M. Kaganovič venne nominato primo segretario del CC del KP(b)U (9). Lo stesso Lazar’ Moiseevič imparò l’ucraino a tempo da record e pretese che tutto il personale seguisse il suo esempio. La lingua russa venne bandita ovunque: furono chiuse numerosissime scuole ad indirizzo russo e in sostituzione vennero aperte scuole ucraine. Cinquantamila insegnanti di lingua ucraina residenti in Galizia si trasferirono in Ucraina. Per gli uffici giravano i “controllori linguistici”, gli scrittori vennero sfidati a ripulire le loro opere dai “russismi”. I linguisti, invece, ripulirono urgentemente Ševčenko: questi scriveva «car’», «kobzar’», sostituite con «car», «kobzar»; scriveva «osen’», «kamen’», sostituite con «osin’», «kamin’»; «Kiev» divenne «Kiïv», sebbene Taras Grigor’evič non conoscesse affatto la lettera ï. Gli accademici ripulivano i vocabolari, fenomeno che, tra l’altro, dura tuttora. Recentemente, sono arrivato in un vicolo cieco: cosa vuol dire «pidtjagul’nicja»? Sembra che voglia dire «ipotenusa» [gipotenuza]: cosa vuol dire, invece, «matolok»? Pare voglia dire «idiota» [idiot]. Ma gipotenuza e idiot sono parole che ancora di recente facevano parte del lessico ucraino.

Nelle regioni orientali dell’Ucraina, dove si parla il “suržik”, che tra l’altro è un lingua viva ed espressiva, l’ucrainizzazione forzata era sempre stata percepita come un’offesa e, di conseguenza, venne avversata. Persino Lazar’ Moiseevič, a suo tempo, fece un gesto di rinuncia. In Galizia, invece, che si era ritrovata nuovamente sotto il dominio della Polonia dei pan, emersero nuove forze. Nel 1929 il pensatore Dmitro Doncov, con un gruppo di ammiratori del suo libro Nacionalizm, fondò quell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini che, in seguito, diede vita all’esercito ucraino degli insorti di Stepan Bandera. Ecco succintamente riassunte le idee di Doncov, in base alle quali si erano formati gli uomini di Bandera: il nazionalista ucraino deve rifiutare la concezione razionale della vita e rafforzare dentro di sé “la volontà di tendere alla vita, al potere, all’espansione”; essere romantici significa «nutrirsi della leggenda dell’“ultima battaglia”»; essere dogmatici vuol dire “obbedire agli ordini senza discutere”; essere fanatici significa “ritenere la propria verità come unica, generale, obbligatoria per gli altri”. Essere, se necessario, un fanatico amorale significa “estendere le rivalità intestine e la reciproca infedeltà, portare il dissidio in casa. Senza tutto ciò, non può sussistere alcuna unione, alcuna comunità!”.

Agli occhi di queste persone, la storia appariva come un crudele e ingiusto paradosso. Si erano sacrificati per l’ideale di un’Ucraina indipendente, erano arrivati a massacrare per questo la lingua ucraina, e i bolscevichi si erano appropriati di tutto ciò con il loro “pseudo - stato ucraino”. Avevano persino firmato la pace con i polacchi, e a loro era rimasto il buco della ciambella.

I tentativi di riabilitare gli uomini di Bandera come eroi nazionali, di cui dànno conto le notizie provenienti dalle regioni occidentali dell’Ucraina, adesso non dividono più la Russia e l’Ucraina, bensì la società ucraina stessa. Il rischio non consiste più nel ritorno del fenomeno Bandera, che certo non tornerà: il pericolo è nel ritorno delle idee su cui esso era germogliato.

Le arance blu

Sfogliamo il manuale di storia su cui oggi studiano i ragazzi ucraini della quinta classe, senza interrompere il filo del discorso: che cosa si dice riguardo all’OUN (10) e all’UPA (11)? Sembra che, verso il 1943, l’esercito di Bandera “liberò dai tedeschi la maggior parte delle città ucraine”. Mi stropiccio gli occhi, ricorro ai documenti, alle fonti: nel 1943 tutti i dirigenti dell’UPA passarono un corso di aggiornamento professionale nei campi tedeschi. Agli ordini di chi, dunque, combatté quell’esercito, quali città liberò… dai tedeschi?

I russi figurano nel manuale solo come “moscali”. Si tratterebbe, a quanto pare, di varie tribù ugro-finniche provenienti dal nord, dove si sarebbero spinte “anche genti appartenenti alle tribù ucraine”. Nel manuale si sostiene che, provenendo da Kiev, giunto a Suzdal’, Andrej Bogoljubskij vi trovò non solo una nuova capitale ma anche un nuovo popolo. Con il quale nel 1169 saccheggiò Kiev in modo tale che “più tardi il pogrom tataro non aggiunse molto a quei pogrom intestini”. Gruševski si limitò a questa breve constatazione. I nuovi storici ucraini, invece, hanno dedotto che fu appunto questa marcia su Kiev a portare al divorzio definitivo tra Ucraina e Russia. Non si vede però come si possa parlare di divorzio se prima non ci fosse stato un matrimonio.

Ai “moscali” subentrano poi i “moscali comunisti”, la cui occupazione principale sarebbe stata quella di “distruggere l’Ucraina”, “distruggere la lingua ucraina”(?!). Il capo del NKVD (12), Berija, avrebbe avuto l’intenzione di trasferire tutti gli ucraini in Siberia. Mosca avrebbe ceduto la Crimea, facendola entrare a far parte della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, al fine di “addossare all’Ucraina la responsabilità morale per l’espulsione della popolazione tatara”.

Devo ammettere che ho chiuso il manuale della quinta classe persino con un senso di sollievo: si trattava solo di vecchie controversie, di questioni del passato. Si rimestano vecchi rancori. Ben altra alienazione hanno dovuto superare altri popoli, basti pensare ai francesi e ai tedeschi. Ma oggi non c’è alternativa: i rapporti tra Russia e Ucraina si possono fondare solo sulla base degli interessi nazionali. Per non parlare poi dei caratteri nazionali: una peculiarità dei russi è che nella loro testa c’è l’idea fissa dello zar, mentre gli ucraini hanno nel sangue tutt’al più l’“atamanščina” (13). Non ho dubbi sul fatto che gli ucraini sentano più vicina a sé la repubblica parlamentare che non quella presidenziale. Se solo Leonid Kučma avesse a suo tempo introdotto una riforma politica, ma non alla fine, bensì agli inizi o a metà del suo mandato…

C’è però che il manuale delle classi superiori, quello che tratta la storia fino ai giorni nostri, non può essere messo da parte così facilmente. Qui è scritto, nero su bianco, che i russi in terra ucraina sono stranieri, che “il potere imperiale russo” ha intenzionalmente popolato di russi l’Ucraina meridionale ed orientale allo scopo di strappare in seguito questi territori a favore della metropoli. In altre parole, ci sono i “moscali interni”, c’è una “quinta colonna della Russia”. Non sarà per questo che oggi in Crimea si dice: “Le nostre arance sono blu?”. Il solo Fondo Soros, stando a quanto Bogdan Gavrilišin, presidente della sezione ucraina del Fondo stesso, ha reso noto in un’intervista di qualche anno fa al giornale di Kiev Zerkalo nedeli, ha pubblicato già 90 manuali e sussidiari di storia dell’Ucraina “di impostazione anti-colonialista”. A quanto sembra, nella storia dei nostri Paesi ci sarebbero state già quattro “guerre russo-ucraine”. Mazepa è adesso un eroe nazionale ucraino, che cercò di correggere il fatale errore commesso da Bogdan Chmel’nicki quando convocò la Rada di Perejaslav…

Se a questo punto siamo riusciti a farci una qualche idea del sottofondo storico dell’ondata “arancione”, quella “blu” la presenteremo così come appare agli occhi degli ucraini occidentali. “La popolazione di Doneck, nel complesso, è costituita da immigrati poveri provenienti da Kursk e da altre regioni della Russia. Si tratta per lo più di gente losca, avvilita, analfabeta, all’interno della quale sono diffusi l’alcolismo, il banditismo, il teppismo, i furti” (Za vil’nu Ukrainu, L’vov). “…Occorre distruggere il marciume dell’influenza moscovita e di altri influssi nelle città ucraine, che sono piene di parassiti, di quella sporca massa moscovita semicriminale e sottoproletaria, insediata intorno a fabbriche e imprese che non servono a nessuno… A qualsiasi tipo di resistenza da parte di questa biomassa si deve rispondere con immediate azioni dissuasive e punitive” (da Slovo, organo della Tovariščestvo della lingua ucraina, ente finanziato dallo Stato).

E veniamo infine a coloro che sono già pronti alla guerra. L’Assemblea Nazionale Ucraina (UNA (14)), al momento della sua fondazione dieci anni fa, si presentò quale continuatrice della causa di Stepan Bandera. Insieme con la sua organizzazione paramilitare UNSO (15) (Autodifesa nazionale ucraina), svolse a Kiev esercitazioni dello stato maggiore per mettere a punto le misure da intraprendere nel caso di una “secessione della Crimea, della fondazione di una Repubblica Donecko-Krivorožskaja o di una aggressione della Russia contro l’Ucraina”. Da quella dichiarazione conseguiva che l’UNA era pronta, ancora prima dell’inizio di un conflitto, a concentrare in territorio russo “50-100 punti di appoggio per atti di terrorismo”. In conseguenza di ciò il Ministero della Giustizia ucraino privò UNA-UNSO (16) dello status legale, ma, due anni dopo, effettuò una nuova registrazione dell’organizzazione, che adesso esorta la gioventù della Galizia a seguire l’esempio di Che Guevara (e non quello di Stepan Bandera) e ha assunto la denominazione non più di “movimento nazionalista”, bensì di “associazione eurasiatica”. Di fatto però la sua eurasiaticità si riduce a fraternizzare in tutto il mondo con le organizzazioni terroristiche islamiche e a mandare propri combattenti in Cecenia, mentre per ciò che riguarda propriamente la Galizia coltiva l’idea di unire gli ortodossi e i cattolici “in un unico patriarcato”. Il leader dell’UNA-UNSO, Dmitro Korčinski, si è presentato alle elezioni attuali come candidato alla carica di Presidente dell’Ucraina. Non ha superato il primo turno. Ma anche così è troppo.

Promettere e dimenticare!

Per una parola russa, minacciò una volta questo giovane politico, taglieremo un dito, per due parole la mano, per tre la testa. Non è il caso di esagerare la serietà di simili minacce: per gli estremisti nell’attuale Ucraina non è certo un momento buono. Ma già il fatto stesso di percepire una parte della società come una biomassa sottoproletaria e le insistenti accuse pubbliche di “moscalità” si accordano con troppa evidenza con la formula del fanatismo di Doncov: “considerare la propria verità unica, generale, obbligatoria per gli altri”. Anche quando ciò provoca una “lite in casa”.

Mi permetto ora di citare un autore altolocato che ha riflettuto a lungo su questo tema: «La nazione ucraina (nazione-Stato) si forma oggi non in senso etnico, ma politico e civico. Cosa vuol dire “si forma”? Vuol dire che in essa è in corso un processo di consolidamento, una tappa necessaria del quale è costituita dal consolidamento socio-culturale. Ma non c’è il pericolo di una divaricazione? Il progetto non potrebbe infrangersi sulla questione linguistica? Ove si rispettino rigorosamente i diritti e le libertà di tutti i gruppi della società e ove si conduca una ragionevole politica culturale, ciò non dovrebbe avvenire».

Tuttavia è appunto ciò che si è verificato un anno dopo l’uscita dell’ottimistico libro di Leonid Kučma. Nei giorni roventi della crisi ucraina la mia attenzione venne catturata da una dichiarazione del presidente dell’Istituto per la strategia nazionale, Stanislav Belkovski: “La separazione non procede secondo la linea delle relazioni con la Russia. La questione qui è l’atteggiamento verso la cultura e la lingua. Dire che qualcuno in Ucraina guardi alla Russia come alla manna è un errore”.

In teoria, ciò è risaputo già da quattordici anni, a partire dall’ultimo referendum sovietico, quando l’Ucraina scelse la strada dello sviluppo indipendente. Già allora, il confronto del numero totale dei votanti con quello della comunità russa non lasciava alcun dubbio sul fatto che anche quest’ultima, con una preponderante maggioranza, avesse operato la scelta a favore di un’Ucraina senza l’URSS, a favore dell’Ucraina e “non della Russia”. Vale a dire che già in quella fase, di fatto, tutti i cittadini della repubblica, senza differenze tra i gruppi etnici, avevano dimostrato di essere una nazione ad altissimo potenziale di consenso politico, pronta a costruire un suo nuovo Stato comune. Il potenziale, tuttavia, è cosa del futuro, che non si può costruire senza un fondamento, senza il consenso delle comunità etniche.

Il famoso appello “a una Russia unica ed indivisibile” tracciato sul monumento di Bogdan Chmel’nicki a Kiev appartiene all’ucraino M. Juzefovič. Precedentemente, costui veniva ingiuriato in quanto “filo moscovita”, mentre adesso semplicemente viene chiamato “collaborazionista”. Ma perché adesso ci si dovrebbe arrabbiare per un monumento del passato? I nuovi tempi esigono una nuovo appello: “Per una Ucraina unita e indivisibile”. Quando e su quale pietra scolpirlo lo deciderà la storia futura. Intanto si sta preparando la pietra.

Da qui erano partiti anche Leonid Kravčuk e Leonid Kučma: nei loro programmi elettorali promisero di fare il possibile al fine di attribuire alla lingua russa lo status, se non di seconda lingua statale, almeno di lingua ufficiale. Tuttavia, al momento di assumere la carica, il punto di vista cambiò. Kravčuk affermò che in Ucraina non ci sono russi, e che "gli undici milioni di parlanti russo non rappresentano un problema". Durante l’attuale campagna presidenziale, Leonid Kučma, prendendo la parola nella regione di Čerkassy, ha sollevato dubbi su alcuni punti del programma elettorale di V. Janukovič, tra cui anche l’eterna pietra d’inciampo, lo status della lingua russa. Adesso Leonid Danilovič non sente neanche la necessità di argomentare la sua posizione: «In quanto Presidente dell’Ucraina, intendo dichiarare solo una cosa: la Costituzione per me è come il “Padre Nostro”. Ed è tutto. I commenti a questo proposito sono superflui». A queste affermazioni Viktor Fedorovič, dalla regione di Vinnica, replicò che, in caso di vittoria, avrebbe sottoposto a referendum nazionale lo status della lingua russa, la doppia cittadinanza e i rapporti tra l’Ucraina e la NATO, “dove non si deve entrare”. Comunque vada, è ormai giunto il momento di fare chiarezza sulla natura della lingua russa in Ucraina, se la si deve considerare una madrelingua oppure una lingua straniera. Senza di ciò, non si può ovviare alla confusione statistica, non si può costruire una chiara politica nazionale che sia rispettosa verso tutti i gruppi di popolazione.

Una sola lingua porterà fino a Kiev?

Ma quanti russi ci sono in Ucraina? “8.334.100”, risponde con esattezza matematica nel suo libro il Presidente Kučma, evidenziando subito il rapporto tra ucraini e russi: 77, 8% e 17, 3%. Il restante 5% è costituito da gruppi etnici minori, di cui elencherò solo quelli che ammontano almeno a 100.000: ebrei, bielorussi, moldavi, tatari di Crimea, bulgari, polacchi, ungheresi, romeni. Questa era la situazione alla fine del 2001.

A quel tempo, Vladimir Malinkovič, direttore della sezione ucraina dell’Istituto internazionale di ricerche umanistiche e politiche, aveva già abbandonato la squadra presidenziale in segno di disaccordo con le sue posizioni. Era stato proprio lui a elaborare le promesse elettorali del presidente sullo status della lingua russa e il relativo progetto di legge presentato alla Rada. Ecco il suo punto di vista, espresso a Radio Svoboda: “Noi siamo un Paese dove c’è un bilinguismo reale. Oggi le persone che sono state educate alla cultura russa e a cui è cara la lingua russa, rappresentano non meno del 50% della popolazione ucraina. Alla lingua russa occorre assegnare uno status che può essere leggermente inferiore a quello della lingua ucraina nazionale. Così non ci sarebbero arbìtri da parte degli impiegati a L’vov, in Crimea o a Lugansk”.

Ecco dunque come stanno le cose: nella statistica presidenziale sono del tutto omessi i cosiddetti “ucraini di lingua russa”! Si tratta, certamente, di un gruppo non etnico, ma linguistico, tuttavia sono pur sempre cittadini ucraini. Sono propriamente cittadini di etnia ucraina, la cui madrelingua è il russo. Ecco spiegato il motivo per cui i candidati alla carica di presidente cedono sempre alla tentazione di puntare ai voti di questa metà del Paese e, una volta ottenuti, dimenticano subito le loro promesse.

Ha mai contato qualcuno quanti sono in Ucraina i cittadini di etnia russa e quanti quelli di etnia ucraina ma di madrelingua russa, quanti sono quelli realmente immigrati e quanti quelli che hanno dietro di sé più di una generazione, o addirittura secoli? Probabilmente ricerche del genere sarebbero state effettuate, se lo storico bilinguismo dell’Ucraina fosse stato ufficialmente riconosciuto. Anzi, all’inizio questo bilinguismo è stato soppresso dalla scienza e, in seguito, in silenzio e senza clamori, è stato bandito dalla politica. Iniziò Gruševski, quando era professore all’Università di L’vov: l’antica Rus’, nei suoi lavori di storia, si trasformò dapprima in “Ucraina-Rus’”, poi il nome “Rus’” venne abbandonato e rimase solo “Ucraina”. Poi, “russi” e “bielorussi” si dissolsero definitivamente nella “storia millenaria del popolo ucraino”. Su come questo punto di vista sia coesistito con la scienza storica dell’epoca sovietica, quando Gruševski divenne socio dell’Accademia delle scienze dell’URSS, non intendo pronunciarmi. E’ evidente, tuttavia, che, una volta “svernato”, questa tesi sia fiorita con la primavera ucraina. Proclamando che l’antica Rus’ era uno Stato ucraino primigenio, hanno privato del luogo di origine non solo i russi e i bielorussi, ma anche buona parte degli ucraini.

Non sarà per questo che il pensiero politico ucraino scorre attualmente lungo due correnti separate? In una, c’è il lavoro collettivo di quegli storici ucraini di cui abbiamo parlato all’inizio di questo articolo, nell’altra troviamo un intero fiume di pubblicazioni che calpestano apertamente la verità storica. Basta sfogliare lo Slovar’ drevneukrainskoj mifologii (Vocabolario di mitologia ucraina antica) dell’“etnografo e scrittore” Sergej Plačinda: “Arii (orii) è il nome più antico degli ucraini, i primi aratori del mondo. Sono loro che hanno impiegato per primi i cavalli in questa attività, che hanno inventato la ruota e l’aratro, sono stati loro i primi nel mondo a coltivare la segala, il grano, il miglio, loro che hanno esportato le proprie conoscenze sull’agricoltura e sui mestieri del popolo in Cina, in India, in Mesopotamia, in Palestina, in Egitto, nell’Italia settentrionale, nei Balcani, nell’Europa occidentale, in Scandinavia. Le tribù degli arii sono state alla base di tutte le culture indoeuropee”.

Se queste cose fossero state pubblicate in qualcuna di quelle edizioni speciali dove i geni non riconosciuti dànno sfogo alla propria anima, non varrebbe neanche la pena di farci caso. Ma vengono pubblicate nei giornali centrali, le case editrici le stampano con grandi tirature. Le ultime scoperte sono: Cristo sarebbe nato non in Galilea bensì in Galizia, la lingua ucraina sarebbe la “lingua di Noè prima del diluvio” e addirittura la “base viva del sanscrito”. Nessuno, né i corifei della scienza storica né il potere politico ucraino, ha mai cercato neppure di frenare questa insensata invenzione di miti. Ma quando l’autocoscienza nazionale di un popolo si nutre di miti, c’è da meravigliarsi di ciò che avviene nelle strade?

Da Rossijskaja gazeta, 24 dicembre 2004, p. 10. Traduzione di Martina Valcastelli.

1 Vserossijskaja Črezvyčajnaja Komissja po bor’be s kontrrevoljuciej [Commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione].

2 Central’naja Rada: blocco patriottico - nazionale dei partiti socialisti ucraini e delle organizzazioni democratiche, istituito nel marzo del 1917. Organo del potere statale ucraino, svolse le funzioni del Parlamento regionale nel periodo aprile 1917-gennaio 1918 e marzo-aprile 1918. Ne fu presidente M. S. Gruševski.

3 Sovety narodnogo chozjajstva: organismi economici.

4 Rossijskaja Sovetskaja Federativnaja Socialističeskaja Respublika: Repubblica federale socialista sovietica russa.

5 Ukrainskaja Sovetskaja Socialističeskaja Respublika: Repubblica socialista sovietica ucraina.

6 Accordo politico-militare stipulato tra Inghilterra, Francia e Russia nel 1904. Durante la Prima guerra mondiale, per contrastare la coalizione tedesca, si aggiungeranno all’Intesa più di venti Stati, tra cui gli USA, il Giappone e l’Italia.

7 Ukrainskaja Narodnaja Respublika: Repubblica popolare ucraina.

8 CK: CC, Comitato Centrale. VKP(b), Vsesojuznaja kommunističeskaja partija (bol’ševikov): Partito comunista pansovietico (bolscevico).

9 Kommunističeskaja partija (bol’ševikov): Partito comunista (bolscevico).

10 Organizacija Ukrainskich Nacionalistov: Organizzazione dei Nazionalisti ucraini.

11 Ukrainskaja Povstančevskaja Armija: Esercito insurrezionale ucraino.

12 Narodnyj Komissariat vnutrennich del: Commissariato del popolo agli affari interni.

13 Periodo della storia ucraina degli anni 1918-1920, caratterizzato dall’instaurazione di poteri in regioni separate dell’Ucraina.

14 Ukrainskaja Nacional’naja assambleja: Assemblea nazionale ucraina.

15 Ukrainskaja nacional’naja samooborona: Autodifesa nazionale ucraina.

16 Ukrainskaja Nacional’naja Assambleja: Assemblea Nazionale Ucraina; Ukrainskaja nacional’naja samooborona: Autodifesa nazionale ucraina.

Slavia, rivista trimestrale di cultura

Aleksandr Sabov, "Slavia" N°2 2008

venerdì 9 gennaio 2009

Scampoli di memoria 8

di Dino Bernardini

In una delle puntate precedenti di questi miei spezzoni di ricordi ho raccontato di come nel 1972 divenni vicedirettore esecutivo (di fatto, direttore responsabile) di Rassegna Sovietica (vedi Slavia, 2006, n. 3, pp. 141-144), che diressi poi fino al 1991, anno in cui – scomparsa l'Associazione Culturale Italia-URSS che ne era l'editore e dissolta l'Unione Sovietica – la rivista cessò di esistere. D'altra parte, venuto meno il paese di riferimento, appunto l'Unione Sovietica, una rivista che si chiamava Rassegna Sovietica non aveva più ragione di essere. Quantunque, a pensarci bene, è pur vero che uno dei quotidiani più diffusi nella Russia di oggi è la Komsomol'skaja pravda, già organo del Komsomol, l'"Unione comunista della gioventù", organizzazione che anch'essa non esiste più dal 1991. Ma andiamo avanti.

Nel 1973, o forse nel 1974, o 1975, in quanto vicedirettore di Rassegna Sovietica, venni invitato a partecipare a una riunione presso l'Associazione Italia-URSS insieme con Natale Raco, direttore dell'altra rivista dell'Associazione, Realtà Sovietica, e con Bizzoni, responsabile della diffusione delle due riviste. Premetto che Bizzoni, scomparso qualche anno fa, era un bravo compagno, intelligente e onesto, ma un po' bizzarro, forse in onore al suo cognome (successivamente, fu anche eletto al Consiglio della Provincia di Roma nella lista del PCI). All'ordine del giorno della riunione c'era appunto la diffusione delle due riviste.

Bizzoni presentò un piano che prevedeva l'invio in omaggio a ogni abbonato di un libro sovietico in lingua italiana, fornitoci gentilmente dalle case editrici in lingue estere di Mosca. Si trattava per lo più di buoni romanzi sovietici tradotti in italiano. La bizzarria del piano consisteva nel fatto che, se una persona si fosse abbonata separatamente a ciascuna delle due riviste, avrebbe ricevuto in omaggio due libri, uno per ogni abbonamento, mentre se avesse fatto un versamento cumulativo per le due riviste, pagando la somma dei due abbonamenti, avrebbe ricevuto un solo libro. Su questo argomento, prima che la riunione cominciasse, in attesa del senatore Gelasio Adamoli, segretario generale dell'Associazione, avevo cominciato a discutere animatamente con Bizzoni, che sosteneva essere la sua proposta più conveniente per l'abbonato.

Adamoli arrivò nel mezzo della discussione ed io mi affrettai a riassumergli la materia del contendere. Adamoli pensò che scherzassi o volessi mettere in cattiva luce Bizzoni, il quale però confermò quanto io avevo esposto. Bisognava vedere la faccia del senatore Adamoli nel momento in cui realizzò che non era uno scherzo, o una mia forzatura, e che le cose stavano esattamente come avevo detto io. – Senti – disse rivolto a Bizzoni – intanto decidiamo che chi paga i due abbonamenti riceve due libri. E passiamo a discutere delle altre iniziative in programma. Poi, alla fine della riunione, se tu non sei ancora convinto della decisione, vieni da me e ne parliamo con calma. Ti darò ogni possibilità e tutto il tempo per convincermi. Perché, vedete – e si rivolse a tutti i presenti – voi sapete che sono stato sindaco di Genova, ma che da tanti anni non lo sono più. E sapete anche di che fama godano i genovesi in fatto di denaro. Ebbene, Bizzoni, vorrei tanto che tu riuscissi a convincere me che per gli abbonati è più conveniente ricevere gratis un libro invece di due, perché se ci riesci, io poi vado a Genova e, se riesco a convincere anche i genovesi, quelli mi rieleggono sindaco.

Naturalmente, Adamoli non fu più rieletto sindaco di Genova.

***

Nell'estate del 1960 avevo terminato il quarto anno alla Facoltà di Filologia dell'Università Lomonosov di Mosca quando partimmo in quindici baldi giovani dalla capitale sovietica per la Cina. Eravamo tutti studenti italiani di varie facoltà, invitati dalle autorità cinesi per un soggiorno di vacanza e di studio della durata di un mese. All'interno della Cina viaggiammo con tutti gli onori e le comodità di una delegazione ufficiale, visitammo varie città, in ciascuna delle quali avemmo incontri con le autorità locali. Ma di quel soggiorno in Cina, di quel viaggio per me indimenticabile parlerò, spero, dettagliatamente in un'altra puntata, dopo che, mi auguro, avrò recuperato il mio diario di quel periodo, che sono sicuro di aver messo nella cantina di casa mia tempo fa. Adesso invece voglio raccontare del nostro viaggio sulla mitica Transiberiana, otto giorni di treno all'andata fino al confine cinese e altrettanti al ritorno fino a Mosca.

Intanto, qualche notizia sulle ferrovie sovietiche di allora (ignoro come si viaggi oggi sui treni della nuova Russia), sulle quali si viaggiava a buon mercato, con biglietti di due tipi: quelli per gli scompartimenti mjagkie, cioè "morbidi", con i sedili imbottiti, e quelli per gli scompartimenti žëstkie, cioè "duri", con i sedili di legno. Naturalmente noi studenti viaggiammo in scompartimenti žëstkie in territorio sovietico, con il biglietto pagato da noi, mentre in Cina viaggiammo "da signori" a spese del governo cinese. Adesso non ricordo se in ognuno dei nostri scompartimenti stessimo in quattro o in sei, più probabilmente in sei, con tre letti uno sopra l'altro a ogni lato.

Per otto giorni dovemmo rimettere avanti di un'ora i nostri orologi ogni giorno, perché i chilometri percorsi quotidianamente corrispondevano a un fuso orario. Quando attraversammo gli Urali, che pure segnano il confine tra l'Europa e l'Asia e sono segnati su tutte le carte, non ce ne accorgemmo, sebbene fosse di giorno. Evidentemente la ferrovia passava attraverso un varco enorme, perché non vedemmo montagne né a destra né a sinistra, sebbene fossimo stati attenti e vigili per "vedere gli Urali". Semplicemente, a un certo punto apprendemmo dagli altri viaggiatori che li avevamo passati.

La prima sorpresa circa il modo di viaggiare dei sovietici la avemmo già a Mosca pochi minuti prima di partire, quando la maggior parte dei viaggiatori indossò subito il pigiama – tutti a righe – e lo tenne per giorni durante tutto il viaggio fino all'arrivo. Per mangiare confesso che non ricordo nemmeno se ci fosse un vagone ristorante. Qui mi sarebbe di aiuto il mio diario, ma per ora mi devo affidare ai ricordi. Si vede che non era poi così importante per noi. Sicuramente, se non c'era il ristorante, ci sarà stato un qualche spaccio dove comprare ogni giorno da mangiare. O forse il ristorante c'era, ma noi non ce lo potevamo permettere, chissà. Ricordo comunque che a ognuna delle rare fermate nell'immensa Siberia i viaggiatori scendevano quasi tutti – rigorosamente in pigiama – a comprare qualcosa, sia cibo che oggetti di prima necessità, vestiario o souvenir, presso le bancarelle sempre presenti sui marciapiedi dei binari. Ricordo soprattutto una fermata durante il lungo aggiramento del lago Bajkal, che si stende per più di trentamila chilometri quadrati, un decimo dell'Italia. La ferrovia arriva dritta dritta fin quasi sulla riva, poi costeggia il lago fino ad arrivare alla riva opposta e riprende il cammino proseguendo in linea retta lungo la stessa direttrice precedentemente abbandonata. Durante il nostro viaggio, mentre costeggiavamo il lago, il treno si fermò ad un tratto. Non c'era nessuna stazione, né segno di vita. Improvvisamente da dietro gli alberi sbucarono delle contadine che, forse d'accordo con il macchinista, avevano aspettato il treno per vendere ai viaggiatori gli omul', i famosi pesci del Bajkal, sia cotti che essiccati. Ne comprammo anche noi ed erano squisiti.

Ogni giorno, per ammazzare il tempo, noi italiani in ogni scompartimento giocavamo a carte, interminabili partite di scopone, briscola o tressette. Un giorno nel nostro scompartimento si presentò un paio di ufficiali della Marina militare sovietica che erano diretti a Vladivostok.

Qualcuno aveva detto loro che sul treno c'erano degli italiani ed erano venuti per invitarci a bere nel loro scompartimento. Naturalmente pensammo che ci volessero offrire della vodka e accettammo di buon grado. Invece avevano una gran quantità di alcool puro e pane e guanciale, o pancetta di maiale. I nostri ospiti erano di una simpatia straordinaria, ma io cercai di rifiutare la bevuta. Tuttavia, chi ha frequentato i russi sa come sono fatti quando si tratta di bere: è praticamente impossibile convincerli che non tutti sono bevitori. Io all'epoca reggevo bene la vodka, che generalmente ha quaranta gradi, ma lì si trattava di alcool puro! Fu allora che uno dei nostri due nuovi amici mi istruì sulla preparazione necessaria per poter bere l'alcool puro e rimanere indenni.

– Vedi – mi disse – anch'io se adesso bevessi questo bicchiere – e mi mostrò un normale bicchiere da acqua pieno di alcool – alla maniera di come voi occidentali bevete il whisky, starei male. L'alcool mi brucerebbe la bocca, il mio stomaco non lo reggerebbe e la testa mi girerebbe. Invece guarda, mangia questo buon guanciale con il pane, mangiane più che puoi, tanto da creare nello stomaco uno strato di grasso. Anche questo grasso, da solo, se non ci bevessi sopra l'alcool, ti farebbe male. Invece i due mali si neutralizzano a vicenda. E un ultimo accorgimento: devi evitare che l'alcool stazioni nella bocca, perché te la brucerebbe. Guarda come si fa – prese il bicchiere e ne trangugiò il contenuto zalpom, come dicono i russi, d'un colpo. Poi riempì di nuovo il bicchiere – sarà stato un quinto di litro – e me lo porse, dopo avermi fatto mangiare tre fette di guanciale con il pane. Feci come aveva fatto lui, buttai l'alcool in gola, senza farlo fermare nella bocca. Devo confessare che, dopo, lo stomaco era a posto, la bocca anche, solo nella testa sentii una leggerissima, piacevole ebbrezza. E per ora, in attesa del mio diario, non mi viene in mente altro. Resta comunque da raccontare della Cina, ma lo farò, come ho detto, in una prossima puntata.

Slavia, rivista trimestrale di cultura

Dino Bernardini, "Slavia" N°2 2008

martedì 6 gennaio 2009

Chi è la crisi e perché parla male di noi

Nello stupidario della fine dell'anno appena trascorso, meritano un posto di rilievo, in ordine cronologico:

Un illustre sconosciuto sull'Unità del 29 dicembre, che, sapendo di mentire, non ha manco avuto il coraggio di firmarsi: Russia, il rublo va giù. E la disoccupazione galoppa

La Stampa del 30 dicembre: Mosca non ha più contanti. E la classe media affonda

Ettore Livini sulla Repubblica del 5 gennaio: Il tramonto degli oligarchi russi. Ora chiedono aiuti allo Stato

La crisi c'è, figuriamoci. Anche qui. Gli oligarchi, in Russia, non possono più comprarsi 47.384 Bentley al mese. Gli oligarchi in Italia, stranamente, tacciono, al punto che vien da pensare che non se la passino tanto male.

La gente normale, in Russia, vive esattamente come sei mesi fa. In Italia, le persone normali non arrivano più alla terza settimana del mese.

Come mai ciò viene taciuto dalla Stampa, dai Livini e dall'Unità? Eppure, sembrerebbe che sia una freccia in più nel loro arco, se fossero, come dichiarano, contro l'attuale coalizione governativa italiana.

La risposta è scontata: sono "organici al sistema" (così si diceva nella mia generazione, trent'anni fa). Non sono affatto contro Berlusconi, erede di Craxi.

Questo però io lo dico da almeno 18 anni (la quantità così precisa non è casuale), e, a memoria, anche da molto prima, da 22.

Ciò di cui, invece, ancora non mi capacito, è che così la pensino, anche senza dichiararlo, anche senza rendersene conto, quelli che, all'epoca, mi davano del socialdemocratico ed ora dell'estremista.

Forse perché così si mettono la coscienza in pace? Le bugie, coscienti o meno, hanno le gambe corte. L'idea del mal comune mezzo gaudio riduce le colpe individuali, Italia rispetto al mondo o pseudo sinistra italiana rispetto all'Italia che sia. Così, la crisi sarebbe collettiva.

No: la crisi è di quanti, indipendentemente dalle idee politiche e/o provenienze etniche, hanno sposato il neoliberismo dell'economia di carta a scapito di quella reale produttiva.

Qui si produce, appunto, mentre in Italia ci si scambiano le azioni di borsa. Non poteva e non finirà bene. I naviganti sono avvisati.

Un tempo, qualunque valuta nazionale era un assegno pagabile al portatore in oro. Il primo Paese ad avere annichilito questa legge furono gli USA. Sorpresa! Fu Nixon, nel 1973. Dunque, è da 36 anni che è un bluff, una sòla, carta straccia. Non ce l'hanno, tutto 'sto oro. E nemmeno lire, euro, marchi, franchi, sterline. Rubli sì, invece, nel senso che l'oro c'è.

Spiego. Nella seconda metà degli anni '80 il petrolio subì una caduta verticale. I fondi dell'URSS erano in dollari, o, meglio, in petrodollari. Nessuno lo dice, ma l'URSS semplicemente fece bancarotta, collassò economicamente ancor prima che politicamente, non viceversa. Putin ha imparato la lezione, ed il fondo della Federazione Russa è parte in dollari, parte in euro, parte in rubli e parte in oro. Più altre bazzecole, tipo platino, argento, palladio, yen, yuan. Si chiama diversificazione.

Ecco perché le turbolenze di oggi di petrolio e gas creano sì un danno alla Russia, ma non possono metterla in ginocchio. Quanto meno, non quanto l'Occidente, che non ha imparato la lezione.

Miei vaneggiamenti? Appena un paio d'anni fa, quando preconizzavo crisi in Occidente e stabilità in Russia, mi davano del russofilo cieco. L'inflazione qui balla attorno al 10%, il triplo di quella euroccidentale, ma meno della metà di quella dell'Italia del '78. In compenso, il PIL cresce annualmente di almeno l'8% dall'inizio del millennio. In Italia comincia ad esserci il segno "meno".

Un conducente di metropolitana prende 1.500 euro. Quanto prende un conducente della metropolitana di Roma o di Milano? Un litro di latte costa tre quarti di euro, una stecca di sigarette costa quanto un pacchetto in Italia, un chilo di carne 6 €, un chilo di pane 40 centesimi. Che dite, com'è la capacità d'acquisto?

domenica 4 gennaio 2009

Italiani stranieri

Stasera, in Facebook, parlavo con una mia amica, una mia compagna (nel senso più politico possibile del termine). Io mi sono iscritto alla FGCI nel '76, e segretario di Roma era Veltroni, quello che dice di non essere mai stato comunista. Lei, invece, è stata la mia prima segretaria di cellula al liceo scientifico Newton di Roma. Ma non è di questo che volevo parlare.

Di palo in frasca (non abbiamo parlato di questo), mi è venuto in mente di quante volte i miei amici italiani mi hanno imputato di non essere abilitato a parlare di cose italiche, non vivendoci. E poco conta l'averci vissuto 27 anni su 47, o essere italiano per metà. Perché sono andato via che c'era ancora la lira, roba da secolo scorso, o addirittura millennio. Più o meno quanto mi dicevano i miei amici russi quando vivevo in Italia. A nessuno viene in mente che uno possa essere davvero parte integrante di due Paesi e due popoli europei contemporaneamente, persino vivendo in Uganda, per dire.

Infatti, generalmente, per dimostrarmi il contrario, gli uni e gli altri mi chiedono: che passaporto hai? Li ho entrambi: la legge italiana non ne parla e, in uno Stato di diritto, ciò che non è espressamente proibito, è implicitamente lecito; per la legge russa, non è una legge: è la Costituzione, la legge suprema di ogni Stato. L'articolo 62 principia con queste parole: ogni cittadino della Federazione Russa ha diritto di essere cittadino di un altro Stato (doppia cittadinanza).

Allora, mi chiedono: dove sei nato? Fregati! Non sono nato in nessuno di questi Paesi, sono nato a Praga, in uno Stato che non esiste più, la Cecoslovacchia, eppure non sono né ceco, né slovacco. Se pensate che io non sia né russo, né italiano, cosa sono, apolide? La domanda è retorica, ovviamente.

Insomma, tutto questo per un ragionamento. Io ho la parabola. Vedo più canali RAI di quanti non se ne vedano in Italia via etere, nel senso che vedo anche RAI News 24, RAI Edu, RAI Med (RAI Italia), RAI Nettuno, RAI Gulp (per mia figlia, sperando che diventi bilingue madrelingua come me), e poi Mediaset (La 7 no, hanno cambiato satellite, così li vedono solo negli Stati Uniti, non in Europa), e poi Camera e Senato, e tutte le TV locali dal Trentino alla Sicilia, che però ho cancellato perché trasmettono solo televendite.

Quando, scemo, accetto qualche traduzione scritta anziché limitarmi a quelle orali simultanee, mentre scrivo, ascolto la radio. Italiana. Mi tiene compagnia. Certo, anche qui, a parte RAI, Radio Popolare e il quinto canale della filodiffusione, il panorama è deprimente.

Io leggo via RSS cinque giornali italiani al giorno: Corriere, Repubblica, Sole 24 Ore, Stampa, Unità. Non leggo gli altri perché mi rompono le scatole. E persino i cinque giornali citati li trovo barbosi, ma devo, anche per professione, tenermi aggiornato. Concorderete che il processo di Cogne non è esattamente quanto si vorrebbe sapere.

Pian piano, a forza di stare "all'estero" (rispetto all'Italia), svariate volte, ma per la prima volta da sette anni nella mia vita adulta, mi sono reso conto che quanto uno può capire dell'Italia contemporanea basandosi su amici, compagni, blog, gruppi, giornali, televisione, radio, altri italiani emigrati, è decisamente diverso da quel che appena sette anni fa percepivo vivendo nello Stivale.

Sicuri che ciò dipenda dalla lontananza chilometrica? Voglio dire: non sembra anche a voi di vivere in un incubo, in Italia o all'estero, guardando canali italiani, che sia? Siete proprio certi che la percezione all'estero sia falsata rispetto a quella in Italia? Viviamo in un mondo globalizzato, nostro malgrado, se stasera Berlusconi gli spunta un foruncolo, domattina lo scrive sia il Giornale del fratello di Berlusconi, sia l'Economist di Londra, sia il New York Times, sia il Bukedde di Luganda. E anche se un terzo delle famiglie italiane non arriva alla terza settimana del mese senza aver esaurito i soldi. Anzi: il Giornale di Paolo Berlusconi non lo scrive, sono invenzioni dei comunisti.

Paradossalmente, gli italiani all'estero hanno una visione più completa dell'Italia: infatti, non si sognano nemmeno di tornare. Eppure, sono altrettanti di quanti sono in Italia: 60 milioni circa. In Argentina, ci sono più calabresi che in Calabria, giusto per fare un esempio.

giovedì 1 gennaio 2009

L'Ucraina gasa l'Italia

Gli ucraini non avevano pagato giusto un paio di miliardi di dollari, una bazzecola, un debito accumulato per il gas già consumato, nonostante che la Russia faccia loro ancora un prezzo di favore, per vecchio affetto consolidato. Come promesso, alle otto del mattino italiane, chiusi i rubinetti. Attenzione: chiusi i rubinetti del gasdotto Russia – Ucraina, non quelli del gasdotto Russia – UE, che è proprio un altro tubo.

Cos’hanno detto a ‘sto punto gli ucraini? Che siccome la provenienza di questo gas è sconosciuta, loro si sentiranno autorizzati di disporne come meglio credono. Sconosciuta, avete sentito bene. Infischiandosene del contratto firmato due anni fa – e valido per cinque anni, dunque fino al 2011 – tra la Federazione Russa come fornitore, l’Unione Europea come consumatore e l’Ucraina, la Slovacchia e la Cechia come Paesi di transito per il 60% del gas russo per Austria, Germania, Italia e Francia. Infischiandosene, in altre parole, di una delle regole basilari del tanto sbandierato capitalismo. Ma non c’era chi, in Europa ed oltreoceano, e nella cosiddetta sinistra italiana in particolare, voleva entro il 2008 l’Ucraina nell’UE e nella NATO, a monito della sempiterna minaccia dell’orso russo, minaccia che si estrinseca già nella sua esistenza in quanto tale?

La Germania sta già cercando vie alternative, attraverso Belorussia e Polonia, ma una croce definitiva sull’attività di questi filibustieri verrà posta quando verrà completato il North Stream, attraverso il Mar Baltico, verso la Germania, che a quel punto farà essa stessa da Paese di transito verso il resto dell’UE. Naturalmente, chi vi si oppone?

Altri tre rinomati Paesi russofobi e perciò democratici: quelli baltici, che, tutti e tre insieme, sono pari alla metà di tutto il Belgio, mentre il Belgio ha poco più popolazione della Lombardia, e che ogni volta che hanno la luna storta mettono in ginocchio l’Unione Europea col suo mezzo miliardo di abitanti. Quei baltici che hanno istituito la festa delle truppe SS baltiche, che pagano a queste ultime la pensione, mentre mettono in galera i loro cittadini che hanno combattuto il nazismo nelle file dell’Armata Rossa come “traditori della Patria”.

Insomma, tra ladri, fascisti ed imbecilli, l’Unione Europea continuerà ad avere problemi politici, sociali ed economici finché non si decideranno a modificare le regole e a decidere a maggioranza anziché all’unanimità: quel giorno, l’opinione e la volontà di Francia (64 milioni), Germania (82 milioni), Inghilterra (61 milioni) ed Italia (60 milioni) conterà pure più di quelle di Estonia (1,3 milioni, come Bari), Lettonia (2,3 milioni, come Torino; Roma è più grande di Estonia e Lettonia messe insieme), Lituania (3,4 milioni, come Milano), Polonia (39 milioni) e soprattutto Ucraina (46 milioni, come la Spagna), che manco ne fa parte, no?