lunedì 11 dicembre 2006

Scampoli di memoria 4

di Dino Bernardini

A Roma, in via Romagna, sulla bianca e nuda facciata di un elegante edificio moderno, c’è una lapide incastonata tra i blocchi di travertino che la ricoprono. C’è scritto:

«Requisita dalla banda fascista del ten. Pietro Koch, LA PENSIONE JACCARINO ubicata in un villino che qui sorgeva, divenne luogo di detenzione e torture per molti patrioti che lottavano per la libertà dal nazifascismo. Molti ne uscirono soltanto per essere avviati al plotone di esecuzione. Per non dimenticare. Roma occupata, Settembre 1943 – Giugno 1944».

Uno di quei patrioti era mio padre, Angelino (Timoteo) Bernardini.

Non dimenticherò mai quel terribile inverno del 1943. Ancora oggi, quando qualche emittente televisiva trasmette «Roma città aperta» di Roberto Rossellini, faccio fatica a resistere davanti allo schermo per tutta la durata del film. Non c’è praticamente episodio che non mi ricordi qualcosa di analogo della storia della nostra famiglia. Per esempio, quando nel film i tedeschi bloccano i due accessi di una strada e requisiscono tutti gli uomini validi che in quel momento, magari per caso, si trovano a passare di lì. Poi i nazisti passano a perquisire tutte le case che si affacciano sulla strada, arrestano tutti gli abitanti maschi e li ammassano nei camion insieme con quelli già arrestati per strada. Il loro destino è la Germania. Per fortuna, si fa per dire, non verranno avviati ai campi di sterminio ma alle fabbriche tedesche, che hanno bisogno di mano d’opera. Ebbene, fu così che mio cugino Pietro, quindicenne, si ritrovò in uno di quei camion. Lungo il viaggio verso il nord, a una ventina di chilometri da Roma, i caccia americani presero a mitragliare l’autocolonna tedesca e nel parapiglia molti di coloro che erano a bordo riuscirono a fuggire. Pietro tornò a casa a piedi, più morto che vivo.

Avevo undici anni quando, una notte di dicembre del 1943, gli aguzzini della banda Koch vennero in casa nostra e portarono via mia madre e mio fratello Ezio, diciassettenne. Mio padre era già stato arrestato per strada. Rimanemmo soli, io e mia sorella Silvana, 15 anni. Per fortuna in quel periodo era ospite in casa nostra la famiglia di una sorella di mia madre, zia Cleofe, sfollata da Genzano.

Nella allora famigerata pensione Jaccarino mio padre, mia madre e mio fratello vennero picchiati e torturati per giorni, ciascuno davanti agli altri. Lo scopo era quello di farli parlare, di costringerli a rivelare i nascondigli della resistenza romana, che in realtà soltanto mio padre conosceva. Dopo qualche giorno, mi pare di ricordare che mio fratello venne trasferito a Regina Cœli (ma non ne sono sicuro, perché per tutti gli anni trascorsi dopo la liberazione di Roma noi tutti, in famiglia, abbiamo sempre evitato di rievocare quei giorni, quasi a volerli rimuovere), mentre mia madre fu trasferita nella prigione femminile delle Mantellate. Mio fratello conservò per il resto della vita una traccia visibile di quei giorni: un dente spezzato da un calcio.

Intanto mio padre continuò ad essere torturato. Quando perdeva i sensi, lo buttavano in cantina, in un ripostiglio dove non era possibile stare distesi. Dopo qualche ora, lo riportavano di sopra e ricominciavano le torture. Finito l’ennesimo interrogatorio, riprese i sensi nel suo bugigattolo ed ebbe paura di non poter resistere ancora a lungo senza rivelare i nomi dei suoi compagni. Scorse in terra un bicchiere di latta, riuscì a spezzarne il bordo e con quello si tagliò le vene dei polsi e degli stinchi. Quando i suoi torturatori scesero di nuovo, lo trovarono in un lago di sangue e privo di sensi. Era in coma. Lo trasportarono all’ospedale e lì la prognosi fu che difficilmente sarebbe sopravvissuto. Venne comunque ricoverato in corsia. Gli uomini della banda Koch se ne andarono e non lasciarono nemmeno un piantone di sorveglianza, date le sue condizioni.

Quando uscì dal coma, scoprì di trovarsi in una normale corsia del Policlinico Umberto I. Era l’ora della visita dei parenti. Chiese a un visitatore del suo vicino di letto la cortesia di venire a casa nostra ed eventualmente di informarci. Ma non era sicuro che ci fosse ancora qualcuno in casa. Ormai in corsia tutti sapevano come quel paziente fosse finito lì. Quella sera stessa venne da noi un giovane che, con qualche imbarazzo e anche con il timore che la polizia lo avesse seguito, ci disse che nell’ospedale c’era qualcuno, forse un nostro parente, che avrebbe voluto vederci.

Il giorno dopo, all’ora della visita, io e mia sorella andammo all’ospedale. Mio padre stava dormendo. Da qualche giorno non veniva più picchiato e torturato, ma il suo corpo era tutto ricoperto di ecchimosi. Nelle orecchie c’era del sangue secco. Non c’era un centimetro della sua pelle che non fosse nero di lividi. Mi sentii male, provai uno strano senso di nausea, ma feci uno sforzo per non farlo capire e mi allontanai dal letto. Andai a una finestra a respirare.

Ancora qualche giorno e, mi pare, mia madre uscì di prigione. Si ricordò che un suo cugino, monsignor Caraffa, insegnava alla Pontificia Università Lateranense, vicino a casa nostra. Molti anni dopo, quando lo conobbi perché si rivolse a me per una sua ricerca bibliografica, seppi che era il prorettore di quella università. Allora mia madre andò a chiedergli se poteva far accogliere mio padre nel complesso della basilica di S. Giovanni in Laterano, che godeva dell’extraterritorialità. Non c’era posto, perché ormai tutti i vari pezzi di Roma che tuttora compongono la Città del Vaticano erano pieni di rifugiati, ebrei, resistenti, cattolici e non. Tuttavia un posto si trovò.

Così, nell’ora della visita, mio padre scese in pigiama nel cortile dell’ospedale e, confuso tra la folla di pazienti e visitatori, uscì dal Policlinico e salì su un camion che l’attendeva. Durante l’occupazione tedesca tutti gli accessi al territorio vaticano erano vigilati, da un lato dalle guardie vaticane, dall’altro dalle sentinelle tedesche. Ricordo che anche il colonnato del Bernini era chiuso da una sorta di staccionata di legno con un piccolo varco al centro, attraverso il quale la gente entrava e usciva liberamente, ma sotto lo sguardo delle guardie svizzere e dei militari tedeschi. Analoga era la situazione delle basiliche extraterritoriali di San Giovanni, San Paolo e Santa Maria Maggiore. Sul retro della basilica di San Giovanni, vicino al Battistero, c’è una cancellata che adesso è sempre aperta, ma che allora lasciava aperto soltanto un varco.

Il camion entrò senza impedimenti in territorio vaticano, come se dovesse fare un trasporto per la chiesa. Mio padre venne sistemato in un piccolo e stretto corridoio dove c’erano due lettini addossati al muro sullo stesso lato. Il suo compagno di corridoio era un ebreo, Sergio Limentani. Tra i letti e la parete opposta c’erano soltanto pochi centimetri, appena sufficienti per passare mettendosi di fianco. Così, durante tutto il giorno i due occupanti stavano in cortile, all’aperto. Per fortuna non ricordo che in quei mesi piovesse. Io andavo tutti i giorni a portare da mangiare a mio padre, passando sotto lo sguardo indifferente delle sentinelle tedesche, che naturalmente sapevano tutto, ma non mi dissero mai nulla.

Mio padre uscì da San Giovanni il 4 giugno 1944, quando i primi carri armati americani entrarono a Roma e si fermarono sul Piazzale Appio, davanti alle mura aureliane e in vista della basilica.

Dopo la fine della guerra mio padre, con due condanne del Tribunale Speciale fascista, ex confinato, eroe della Resistenza, venne eletto segretario della sezione PCI del quartiere Latino-Metronio. Aveva conosciuto Gramsci ed era stato «allievo» di Terracini: al confino aveva frequentato i corsi di storia, filosofia, francese, matematica e italiano che gli intellettuali confinati tenevano per i loro compagni che non avevano studiato, come mio padre. L’Unione Sovietica era sempre stata il suo mito, il faro che gli aveva dato luce e forza per tirare avanti negli anni bui del fascismo. Così, nel 1959 (o 1958?) approfittò della mia presenza a Mosca per visitare finalmente la «patria del socialismo». Era estate, l’università Lomonosov era semivuota, le lezioni e gli esami erano finiti. Mi procurai una brandina supplementare e per una decina di giorni mio padre visse con me nella mia stanzetta (Zona G, quinto piano, stanza 503). La mattina io mi alzavo tardi, ma lui no, scendeva nel giardino della nostra zona G e con un coltellino raccoglieva la «cicorietta» (così la chiamava) che cresceva sui prati. Si meravigliava che nessuno facesse altrettanto, che quella buona insalata si sprecasse. Poi tornava in camera nostra, la lavava e la metteva da parte per la sera. Nel frattempo io mi ero lavato e vestito. A quel punto, sempre in compagnia di almeno altri due studenti italiani, tra i quali quasi sempre c’era il mio amico Gianni Parisi, si andava in centro a pranzare al ristorante georgiano Aragvi, dove immancabilmente ordinavamo il famoso pollo kabakà, che era poi il pollo alla diavola. La libagione era abbondante. Mio padre si faceva un dovere di pagare spesso il conto per tutti. Scendevamo giù per via Gor’kij tutti un po’ brilli, prendevamo l’autobus (la metropolitana non arrivava ancora a quelle che allora si chiamavano le Colline di Lenin) e tornavamo a casa, cioè all’università. La sera cenavamo nella nostra stanza a base di carne in padella con contorno di «cicorietta». Avevamo spesso qualche ospite italiano. Dopo cena venivano sempre altri studenti italiani con i quali organizzavamo tornei di scopone. Chi perdeva faceva il caffè, ma non toccava quasi mai a noi, perché mio padre e io formavamo una coppia imbattibile.

Di quel soggiorno moscovita ricordo una sua osservazione critica su una cosa da niente, alla quale, abituato com’ero alla quotidianità dell’URSS, non avevo mai fatto caso. Faceva caldo e la porta del grattacielo centrale dell’università che si affacciava sulla nostra zona G era tenuta aperta da un grosso sasso che le impediva di chiudersi. Mio padre mi chiese se c’era stato un guasto recente, se si fosse in attesa di una ripa­razione. Gli spiegai che d’estate era sempre così. Per me era normale, perché l’importante era lasciar entrare l’aria nell’ampio salone del piano terra. «Ma come», sbottò mio padre, «in un grattacielo moderno come questo, in una università prestigiosa, per tenere aperta una porta si ricorre a un sasso!». Fu l’unica critica che gli scappò allora. La sua fede nel socialismo gli impediva di fare troppe critiche davanti a noi studenti. Seppi poi da mia madre che in privato aveva espresso forti critiche nei riguardi del cosiddetto «socialismo reale».

Morì di tumore il 19 marzo 1960. Nel trigesimo della sua morte l’Unità pubblicò un lungo necrologio preceduto da questa nota: «Il 19 marzo scorso decedeva a Roma Angelino Bernardini, vecchio e popolare compagno, iscritto al Partito sin dalla fondazione, valoroso combattente della libertà, attivo dirigente comunista nel quartiere San Giovanni. Nel trigesimo della morte, i compagni di Genzano [dove egli era nato] e della sezione di Porta S. Giovanni ricordano commossi Angelino Bernardini». Seguiva il necrologio scritto da Carlo Salinari, amico fraterno, anche lui sopravvissuto alle torture, ma ad opera della Gestapo in via Tasso, che dopo la guerra fu professore alla Sapienza di Roma, diresse il prestigioso mensile di cultura Il Contemporaneo e fu autore di una Storia della Letteratura Italiana. Scriveva tra l’altro Carlo Salinari: «la semplicità e il coraggio erano un’altra caratteristica della personalità di Angelino. Con semplicità e coraggio affrontò, nel periodo fascista, il carcere e il confino, che significarono anche la sua rovina finanziaria. Preso nel 1944 [1943] dalla banda Koch, per non parlare sotto la tortura, fece con semplicità e coraggio una cosa che nessuno di noi seppe fare: si tagliò le vene dei polsi, tentando di suicidarsi [...] Vogliamo ricordarlo non solo perché ci era amico e con lui avevamo combattuto in momenti terribili, ma anche perché, ci sembra, possa servire di esempio a tutti». (l’Unità, 19 aprile 1960, p. 4).

Slavia, rivista trimestrale di cultura

Dino Bernardini, "Slavia" N°4 2006

1 commento:

  1. penso che a vedere com'è ridotta l'italia governata dal renzusconismo si stia rivoltando nella tomba

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