Leggo sull’Unità, a firma di Marina Mastroluca, che i giornalisti ammazzati dal 2000 in Russia sarebbero 35.
Sia ben chiaro, anche uno solo già sarebbe troppo.
Però, vivendoci, non mi risultava.
Allora sono andato sul sito del Committee to Protect Journalists, che non è esattamente un’organizzazione russofila, ed è anzi apertamente finanziata degli USA.
Ne risultano 34.
Senza voler togliere nulla al loro nobilissimo lavoro, depennerei i fotografi e i cameraman.
Ne restano 29.
Andiamo avanti: il Caucaso è da considerarsi quasi un territorio di guerra, non si renderebbe un buon servizio alla verità nel mettere assieme i giornalisti ammazzati durante operazioni belliche e quelli invece assassinati su commissione politica propriamente detta (o presumibile tale).
Ne restano 13.
Poco più di un terzo.
L’impressione è che ci sia una gara a chi la spari più grossa.
Un altro era un deputato della Duma, difficile considerarlo giornalista a tutti gli effetti.
Un paio di cittadini USA (Paul Chlebnikov e Anna Politkovskaja).
Insomma, è su una decina in una decina di anni che si deve ragionare.
Una cifra mostruosamente alta.
Perché parlo di casta mediatica?
Uno può essere stato ammazzato per rapina, per questioni di eredità, o per aver messo le corna alla moglie, per essere andato a letto con la moglie altrui, per un diverbio autostradale, o anche per ragioni politiche, e decine di altre casistiche.
Se però di mestiere faceva il giornalista, finisce su tutti i mass-media come combattente per la libertà d’informazione.
Un corporativismo, in questo caso, estremamente macabro.
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