giovedì 25 settembre 2008

Costituente per la sinistra

Le mie risposte non possono essere sempre puntuali, vi chiedo di tenerlo in considerazione: ad esempio, voi ieri eravate a cena, mentre il sottoscritto andava a letto; viceversa, io ho già finito la lettura dei giornali e ho iniziato a lavorare, mentre voi probabilmente state prendendo a pugni la sveglia, bestemmiate scivolando nella vasca o ustionandovi con la moka.

Veniamo alla parte politica. E cominciamo con Occhetto. Nel '68, era segretario della FGCI, che contava mezzo milione di iscritti. Ebbe la geniale idea di sciogliere la FGCI nel Movimento. Quando, durante l'autunno caldo del '69, il PCI comprese l'errore e la ricostituì, il danno era fatto, si arrivo ad appena 140.000. Occhetto, per punizione, venne mandato a fare il segretario regionale del PCI in Sicilia. Bella fesseria, anche questa: per lui, piemontese, era certo una punizione, ma perché punire i compagni siciliani?

Ricordo un bel libro (bello nel senso che si doveva capire subito dove volevano andare a parare), "A dieci anni dal '68", intervista di Walter Veltroni ad Achille Occhetto. Era tutto un parlare di socialismo.

Nel '91, eravamo in piena Tangentopoli. Finalmente crollava la Balena Bianca, insieme all'altra Banda Bassotti, quella del PSI. In pratica, era la prova provata di tutto quello che il PCI aveva detto per decenni. Ed erano crollati anche il muro di Berlino e l'URSS. In pratica, era anch'essa la prova provata di tutto quello che il PCI aveva detto dalla Primavera di Praga in poi.

E il nostro Occhetto? Immaginandosi una sorta di Gorbačëv mediterraneo, solo un po' più sfigato, che fa, pur di entrare nella storia? Scioglie il PCI. Quando ci si accorge della cazzata, anche stavolta, è troppo tardi: PDS e MRC (di cui sono stato uno dei fondatori, dal Brancaccio, per intenderci) raccolgono insieme metà dei voti ed un quarto degli iscritti del PCI.

Insomma, Occhetto non è che porti sfiga: è corrosivo, nel senso che quel che tocca, scioglie.

Veniamo a Vendola. Lo ricordo segretario della FGCI barese, all'inizio degli anni '80. Bari, per quanto importante, è pur sempre un capoluogo di regione, non tutta la nazione. Eppure, meritò sull'organo settimanale della FGCI, "La Città Futura", direttore Ferdinando Adornato (!!!), un'intervista di due pagine. Nulla del genere per il segretario di Torino, Piero Fassino, o per quello di Milano prima di diventare segretario nazionale, Marco Fumagalli, o per quanti si avvicendarono a Roma, Goffredo Bettini, Carlo Leoni, Maurizio Sandri, Nicola Zingaretti (e, in quegli anni, in segreteria a Roma c'era anche, come responsabile del servizio d'ordine, Norberto Natali, che ricorderete in galera pochi anni fa con l'accusa – falsa! – di terrorismo). La ragione? Beh, ricordate "Palombella Rossa" di Nanni Moretti? Noi siamo diversi, ma siamo uguali, ma siamo diversi, ma siamo uguali, ma siamo diversi, mamma, portami a casa! Vendola, per ingraziarsi i "gruppettari" (li chiamavamo così), portava il "chiodo", con le borchie ed una vistosa piuma color giallo canarino nell'occhiello, ma soprattutto... E' omosessuale.

Per me, finché si tratta di esseri umani, adulti, maggiorenni e consenzienti, ciascuno può farlo come gli pare e con chi gli pare. Non ne ho mai fatto e non ne faccio una bandiera. Analogamente, detesto chi, essendo donna, parla solo delle problematiche femminili e femministe, essendo negro (che in spagnolo vuol dire "nero": i colorati siamo noi "bianchi", che diventiamo blu per il freddo, verdi per avvelenamento, rossi per la vergogna) parla solo di razzismo, essendo operaio parla solo di sindacato e di contratti. E' un'auto ghettizzazione.

Qui sono già le nove del mattino, devo lavorare, anche se vorrei dire ancora molte cose. Concludo però con un paio di considerazioni. La prima è che l'assise per la costituente della sinistra, svoltasi a Roma il 20 settembre, mi è sembrata un raduno di trombati dei congressi dei rispettivi Partiti. E se a quello del PRC avesse vinto Vendola, all'assise sicuramente avrebbe partecipato Ferrero. Quel Ferrero che era segretario della FGEI, ovvero della Federazione Giovanile Evangelica Italiana. Ed io sono ateo e manco battezzato, per cui detesto anche chi porta le proprie impostazioni religiose tra le file comuniste. Sono marxista, che volete farci, l'oppio dei popoli continua ad essere quello delle credenze, le più variegate.

La seconda è che, una costituente per la sinistra vera, deve essere un progetto alternativo, "Nuova sinistra", appunto, che deve ripartire da zero e mandare ramengo i tromboni e i trombati. E cosa ti trovo? Una serie di truppe cammellate che continuano a tirarsi tra loro una coperta che comunque resta troppo corta, anziché cercare di tessere la tela assieme. Sì, lo so che "truppe cammellate" è offensivo, ma una rosa è una rosa è una rosa, e quelli che si spargono in ogni dove per portare il verbo del vate di turno restano truppe cammellate, le parole hanno un senso…

venerdì 19 settembre 2008

E la borsa (russa) e la vita

In merito alla chiusura per un paio di giorni della borsa russa, qui hanno deciso di far raffreddare i cervelli ai brokers, prima di riaprire, proprio ad evitare storiacce tipo 17 agosto 1998. E tutto il Paese, da governo ad opposizione, passando per il popolino, è d’accordo. In Occidente fanno in altro modo? Chi se ne frega, anche perché spesso, nella storia, se ne sono visti i risultati.

A questo aggiungiamo che, alla riapertura, lo Stato ha fornito alle tre principali banche centrali mezzo trilione di rubli (quattordici miliardi di euro), affinché a loro volta possano garantire che nessuna delle banche minori faccia bancarotta e che possa diffondersi il panico con effetto a macchia d’olio. Qui per ora tutto bene (e speriamo meglio).

A differenza del decennio alcolico (El’cin), in Russia è gradito che esista la borsa, ma se non c’è – nessuno piange, ed il Paese va avanti lo stesso. Un po’ come per la OMC: entrarci, eviterebbe un sacco di scartoffie doganali tra Russia ed UE, tra Russia ed Occidente in genere; ma se la signora Rice non gradisce, qui nessuno si strappa i capelli, il Paese è autosufficiente anche senza OMC.

Autarchia? Beh, in un Paese che ha tutta (tutta!) la tabella di Mendeleev a disposizione, non sarebbe un dramma. Sarà per questo che, periodicamente, al Congresso USA, si trova il russofobo di turno che afferma che bisognerebbe ridiscutere l’appartenenza della Siberia (sic!) alla Russia?

Vedrete, nelle prossime settimane, che casino scoppierà sui confini territoriali russi nel circolo polare artico! E non sto scherzando: il riscaldamento globale sta portando allo scoperto risorse prima inimmaginabili...

giovedì 11 settembre 2008

Unità nuova?

La "striscia rossa" dell'Unità di oggi, 11 settembre 2008, riporta la seguente dichiarazione: "Sono presidente del Consiglio di un Paese molto solido, con alto livello di vita e di benessere. Possediamo il 72% del catalogo delle opere d’arte e di cultura d’Europa, il 50% di quelle mondiali, abbiamo 100.000 tra chiese e case storiche. Siamo il Paese che ha la squadra campione del mondo di calcio. Siamo il Paese del sorriso e della gioia di vivere". Silvio Berlusconi, Ansa 10 settembre. Bene, dico io. E l'immagine qui a sinistra che c'entra? Non saprei. Provate a chiederlo a Concita De Gregorio...

domenica 7 settembre 2008

In memoria di Enrico Berlinguer

Leonid Popov, "Slavia" N°2 2008

L'articolo che qui pubblichiamo per gentile concessione dell'autore è apparso in russo, con qualche abbreviazione, nella Nezavisimaja gazeta di Mosca l'11 giugno 1994, in occasione del decennale della morte del leader comunista italiano. Leonid Popov ha il titolo accademico di kandidat ekonomičeskich nauk, ha lavorato per moltissimi anni presso l'ambasciata dell'URSS a Roma e poi presso il Comitato Centrale del PCUS, e in varie e numerose occasioni ha tradotto gli incontri e i colloqui di Enrico Berlinguer con dirigenti e delegazioni del PCUS.

Il tempo bizzarro scorre veloce e spietato. Si allontanano nel passato personaggi che ancora poco tempo fa sembrava esercitassero un'enorme influenza sulla politica, sulla formazione della coscienza di massa e – in una certa misura – sulla cultura nazionale di questo o quel paese.

Esattamente dieci anni fa, l'11 giugno 1984, è scomparso il segretario generale del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer, un uomo le cui idee politiche hanno influito notevolmente sulle menti degli uomini in Italia e in una serie di altri paesi dell'Europa occidentale, ma che non sono state apprezzate secondo il loro giusto valore né da noi in Russia né nei paesi dell'Europa orientale. Berlinguer è morto, come avrebbero detto un tempo, «sul suo posto di combattimento»: l'emorragia cerebrale lo colpì durante un comizio elettorale. Poche settimane prima della sua fine Berlinguer aveva compiuto 62 anni. La sua azione politica come vicesegretario e poi come segretario generale ha costituito una tappa importantissima, dal 1969 al 1984, nella storia del Partito Comunista Italiano, una tappa durante la quale il PCI ha imboccato definitivamente la via di uno sviluppo completamente autonomo, tagliando il «cordone ombelicale» che lo teneva legato a un approccio da partito «postcomintern» (se poi questo sia stato del tutto un bene o del tutto un male, resta una questione in discussione) e ha scelto di essere una forza al servizio di tutta la nazione, una forza che esprimeva (e difendeva) gli interessi non soltanto delle masse lavoratrici, ma della stragrande maggioranza della popolazione. Alcuni risultati – il 34,4% dei voti alle elezioni politiche del 1976 e il 33,3 % alle elezioni del Parlamento europeo nel 1984, – ci dicono che non tutto nella linea dei compagni italiani era «sbagliato», tutt'altro.

Forse è per questo che in qualche punto, nel profondo dell'animo, probabilmente là dove nell'uomo nascono l'intuito e la coscienza, la capacità di prevedere e di essere consapevoli, sorge in noi una strana sensazione. Non si tratta di un senso di colpa e non è una spinta all'autoanalisi. Più probabilmente si tratta di rimpianto, di rammarico. Rammarico per ciò che a suo tempo non è stato fatto, riconosciuto, percepito. Rammarico perché le forze di sinistra in Europa avrebbero potuto comportarsi diversamente (ma non lo fecero), perché la storia avrebbe potuto imboccare una via diversa. Rammarico perché in nome di una linea di principio erroneamente intesa sono stati commessi troppi errori, e non soltanto da parte nostra.

Ma questo articolo non vuole essere la risposta ad emozioni nostalgiche nel campo della politica. E' una riflessione sulle posizioni politiche ed etiche di Enrico Berlinguer, sul ruolo politico da lui svolto soprattutto in Europa, senza del quale è inconcepibile la moderna politologia, è impossibile capire a fondo i problemi del movimento di sinistra nel nostro continente negli anni Sessanta-Ottanta.

L'autore di queste righe ha già avuto modo di scrivere che le forze di sinistra, socialiste europee, e anche il PCUS, hanno perduto molto a causa dell'ingiustizia storica costituita dalla prematura fine di Enrico Berlinguer, sopravvenuta nel 1984. Non ci sono più stati incontri tra Berlinguer e Gorbačëv, non c'è stato quel dibattito fecondo che avrebbe potuto influenzare le posizioni degli interlocutori e dei partiti, provocando in definitiva seri fallimenti nella politica della sinistra sul continente. Tutte cose, mi si passi l'azzardo, che avrebbero persino potuto scongiurare alcuni dei grandi errori della perestrojka, quelli che alla fine l'hanno portata al fallimento.

Naturalmente, bisogna subito premettere che le idee politiche formulate da Berlinguer negli anni 70-80 contenevano un'analisi delle situazioni storiche concrete di quegli anni e che non solo non sono trasferibili sul terreno della Russia, dell'Austria, dell'Ungheria, della Romania ecc., ma che non sono applicabili – nella loro formulazione originaria – neanche all'Italia della metà degli anni Novanta. Ciò nondimeno, esse sono attuali. Attuali perché rappresentano l'esempio di un metodo dialettico di analisi politica che ha sottoposto a critica (in senso filosofico e non giornalistico) la realtà concreta, proponendo nuove vie d'uscita dalle nuove situazioni.

Un chiaro esempio di questa metodologia è stata l'idea del «compromesso storico», elaborata e formulata da Berlinguer nel settembre 1973 in seguito ai tragici avvenimenti cileni, un concetto che, ad essere franchi, non è stato ben capito non soltanto all'estero, ma neppure nella stessa Italia. Politologi e giornalisti italiani hanno spesso sostenuto che il «compromesso storico» non era altro che un tentativo di accordo di vertice tra comunisti e democristiani alle spalle delle masse per arrivare al governo.

Il senso e il contenuto della strategia del «compromesso storico» così come formulata da Berlinguer sono molto più profondi.

Secondo la concezione di Berlinguer il «compromesso storico» voleva essere la linea strategica del PCI nelle condizioni dell'Italia, una linea di lungo periodo per il passaggio graduale al socialismo, affinché nei rapporti di produzione, nella distribuzione dei redditi e nei consumi – attraverso la trasformazione e la programmazione dei principali settori dell'economia e grazie alla crescita della democrazia anche nella natura del potere – si affermassero gradualmente nuove tendenze che avrebbero introdotto alcuni elementi propri del socialismo nelle strutture generali e nel funzionamento della società. Non si trattava dunque di considerare la costruzione di una società socialista come obiettivo immediato, giacché per questo non v'erano alcune delle principali condizioni di carattere interno e internazionale, ma di attuare provvedimenti e passi di tipo socialista. A questo proposito possiamo aggiungere che, nelle condizioni italiane, il discorso avrebbe potuto riguardare una ulteriore avanzata negli enti locali governati dalle sinistre, un ulteriore progresso di altri «elementi di socialismo».

Nel campo della politica interna avevano acquistato un valore primario i rapporti dei comunisti con le altre due maggiori forze politiche del paese, i socialisti e i cattolici, che esercitavano una notevole influenza sulle masse popolari, tra gli strati proletari e non proletari della popolazione. La strategia del «compromesso storico» significava appunto il compromesso tra comunisti, socialisti e cattolici, un'alternativa non «di sinistra», ma «democratica» al sistema di potere esistente, una prospettiva politica di collaborazione e accordi tra le masse popolari schierate su posizioni comuniste e socialiste e quelle di orientamento cattolico.

In altri termini, questa strategia significava voler introdurre «elementi di socialismo» nella società italiana, nel suo sistema democratico-borghese. Ciò si sarebbe realizzato attraverso accordi e intese tra comunisti, socialisti e cattolici allo scopo di attuare per via pacifica graduali, coerenti trasformazioni in senso socialista.

Nella seconda metà degli anni Settanta suscitò clamorose, accanite discussioni, a volte al di là delle buone regole, il termine eurocomunismo, che 17 o 18 anni fa non ottenne una definizione precisa e venne – e in parte ancora viene – inteso in modo ambiguo, anzi doppiamente ambiguo. Ricordiamo che Enrico Berlinguer non fu l'unico «padre» dell'eurocomunismo e che oltre a lui di padri ce ne furono altri due: Santiago Carrillo, segretario generale del Partito comunista spagnolo, e – parzialmente – Georges Marchais, segretario generale del Partito comunista francese.

Propriamente, l'eurocomunismo non è stato un concetto ben definito. Fu più che altro un tentativo dei tre maggiori partiti comunisti dell'Europa occidentale di compiere passi pratici (a volte congiuntamente, più spesso singolarmente) intesi a sviluppare ulteriormente il processo di trasformazioni democratiche in corso nel continente, che stava procedendo velocemente sulla via dell'integrazione.

L'eurocomunismo è stato uno dei primi, importanti tentativi delle sinistre del continente di tenere conto delle nuove, specifiche particolarità dell'evoluzione politica, economica e sociale dei paesi della regione nelle condizioni dell'integrazione, un tentativo per trovare le risposte ai problemi del tutto nuovi che si ponevano davanti alle forze di sinistra europee nella seconda metà degli anni Settanta, un tentativo per trovare una nuova via al socialismo nelle condizioni specifiche dell'Europa occidentale.

Le risposte a queste questioni furono: la rinuncia alla dittatura del proletariato, il riconoscimento del valore universale della democrazia, dei principi del pluralismo politico e dell'economia mista, una decisa critica all'indirizzo del «socialismo reale» ecc.

Partendo dalla critica al «socialismo reale», dall'analisi della situazione internazionale e della situazione nei paesi del campo socialista, gli autori dell'eurocomunismo gettarono un ponte verso una nuova idea, l'idea di una «terza via» al socialismo, una via che rifiutava il modello esistente di socialismo «dogmatico» ma neanche faceva propria l'esperienza della socialdemocrazia a causa della sua «insufficienza organica».

Nei paesi socialisti, osservò Berlinguer nel suo intervento al Comitato Centrale del PCI del marzo 1979, invece della realtà, invece di una prassi trasformatrice e creativa basata sui nuovi fatti e sulle nuove idee, si è fatta avanti un'ideologia, più esattamente una specie di «credo ideologico» nella forma del cosiddetto «marxismo-leninismo», inteso come un corpo dottrinario fossilizzato, qualcosa quasi di ordine metafisico, un insieme di formule che dovevano giustificare e garantire quel tipo di struttura politico-economica, quel modello universalmente valido a cui i diversi soggetti e le varie realtà sociali dovevano adattarsi e dove il partito, in virtù di un principio che non poteva essere messo in dubbio, doveva attuare o imporre la propria linea.

Sulla base di un'analisi della realtà politica e socioeconomica di quegli anni nei paesi socialisti, la direzione del PCI giunse a queste conclusioni:

1. La rivoluzione d'ottobre aveva esaurito la sua spinta propulsiva.

2. La via percorsa dall'Unione Sovietica dopo il 1917 non era adatta ai paesi capitalistici avanzati.

3. Non erano accettabili, «trasferibili» sul terreno dell'Europa occidentale i regimi sorti sulla base del modello sovietico.

4. In una serie di paesi dell'Europa orientale tali regimi erano in crisi.

Di qui fu tratta la conclusione della necessità di una «terza fase» nella lotta per il socialismo che avrebbe comportato «il superamento dell'esperienza socialdemocratica e al tempo stesso la non applicabilità del «modello sovietico» in Italia e in altri paesi dell'Europa occidentale.

A questo riguardo riportiamo anche il giudizio sulla socialdemocrazia:

«I partiti socialdemocratici, – disse Berlinguer, – grazie a un certo spazio di manovra creato dal funzionamento dei meccanismi del sistema capitalistico, hanno realizzato determinate riforme sociali in conseguenza delle quali è cresciuto il tenore di vita delle masse lavoratrici. Ma noi parliamo dell'insufficienza organica della soluzione socialdemocratica in quanto essa, nonostante le conquiste e i miglioramenti, non rappresenta un superamento del capitalismo. Tanto più che ci troviamo di fronte a una crisi del capitalismo che investe le basi materiali su cui nei grandi centri è cresciuta l'influenza della socialdemocrazia come espressione di quello strato delle masse lavoratrici che Lenin definì "aristocrazia operaia"». Di qui la conclusione che fosse necessario «esplorare», «ricercare» nuove vie al socialismo, di qui la necessità di una «terza via».

Guardando retrospettivamente all'eurocomunismo e in una certa misura anche all'idea della terza via non dobbiamo dimenticare che nel formulare queste proposte i leader dei tre partiti comunisti europei si basavano su una valutazione obiettiva della situazione nell'Europa occidentale della seconda metà degli anni Settanta, sull'analisi dei mutamenti avvenuti negli anni Sessanta e Settanta in campo economico, nella struttura sociale, nelle tattiche di lotta e nei rapporti di forza sull'arena internazionale.

L'analisi di un mondo che era in continuo cambiamento, delle nuove condizioni storiche concrete in Italia, in Europa e in tutta la Terra, consentì a Enrico Berlinguer di avanzare nuove idee politiche a volte assolutamente sorprendenti, di gettare uno sguardo – magari soltanto parziale, sulla base di quell'intuito che è proprio degli italiani e dei loro leader politici – sul futuro, di indovinarne i contorni, di capire quali potessero esserne le forze trainanti.

Ricordiamo tra queste l'idea del «governo globale», una previsione abbastanza chiara della grave situazione ambientale della Terra. Berlinguer colse la necessità per il PCI di trasformarsi in una forza democratica nazionale di sinistra (trasformazione compiuta sei anni dopo la morte di Berlinguer dal nuovo segretario generale Achille Occhetto). Tra le decisioni adottate da Berlinguer ci fu quella di far aderire il PCI all'Internazionale socialista, quella di ristabilire i rapporti con il Partito comunista cinese, ecc.

Commise errori Enrico Berlinguer nelle sue valutazioni, idee, proposte? Certo, ne commise. Ma furono errori di un politico di talento, che non potevano e non hanno potuto cancellare l'importanza e la profondità della partitura della sua azione politica.

Dopo tutto, errori ne hanno commessi Beethoven e Verdi, Shakespeare e Tolstoj, Croce ed Engels. Ci sono opere incompiute di Leonardo e di Raffaello, di Aristotele Fioravanti e Andrea Palladio. Ma non per questo sono stati meno grandi.

Ovviamente, questo articolo non vuole essere un panegirico a Berlinguer, un tentativo di collocarlo tra i classici. Come si suol dire, «Date a Dio quel che è di Dio, ecc.».

Su una cosa però non ci sono dubbi, ed è che Enrico Berlinguer cercò costantemente di perfezionare l'idea del socialismo, cercò una via per avanzare verso il socialismo nelle condizioni molto specifiche dell'Europa occidentale e persino, in un certo senso, una via di uscita dal vicolo cieco in cui egli avvertiva intuitivamente che il cosiddetto «modello amministrativo di comando» avrebbe potuto cacciare il socialismo.

Oggi mi si potrebbe obiettare: che senso ha rivangare il passato, tanto più che l'idea del socialismo ha perduto la sua forza di attrazione, ha cessato di essere, come si diceva un tempo, la «stella polare» di milioni di persone? Mi permetto di dissentire da tale opinione.

La riproduzione dei rapporti sociali nei paesi dell'ex campo socialista (e particolarmente in Russia) procede sulla via di un capitalismo abbastanza strano e inevitabilmente porterà a una stratificazione molto complessa della società, alla nascita di gruppi e ceti sociali di cui oggi è impossibile prevedere gli atteggiamenti. Ma è abbastanza chiaro che l'alienazione sociale e soprattutto economica dell'uomo del lavoro, del produttore diretto, quell'alienazione per la cui «abolizione» si sono attivamente (e, aggiungo, giustamente) battuti i sinceri democratici nel 1990-1991, non soltanto non scomparirà nella nuova società che oggi sta nascendo, ma sarà più acuta e profonda della «strana» alienazione dell'epoca del socialismo da caserma. Essa assumerà nuove e incomprensibili forme.

Molto probabilmente la società si dividerà in gruppi e gruppuscoli sociali, al centro dell'attenzione dei quali ci saranno valori e interessi individualistici, o, nel migliore dei casi, corporativi. Questi gruppi, a differenza delle classi, cesseranno di assumere posizioni politiche, delegheranno il potere agli «eletti», il che in definitiva porterà a una eteronomia, non all'autonomia della nazione.

In queste condizioni, per quanto possa apparire strano, le forze di orientamento socialista – non necessariamente, anzi auspicabilmente non grandi – possono esercitare un ruolo frenante, cioè il ruolo di chi vuole salvaguardare i principali istituti della società e persino dello Stato.

Il nostro «quasicapitalismo» si svilupperà, ciò è inevitabile. Ma nelle condizioni di questo quasicapitalismo è estremamente necessario che nella società ci sia un raggruppamento di forze di orientamento socialista, capaci non semplicemente di battersi per gli interessi del momento di singoli gruppi sociali, ma di pensare con categorie globali, nazionali, di porsi al di sopra degli interessi particolari, per scongiurare l'insorgere di situazioni catastrofiche.

Né il «quasicapitalismo» russo, che per ora si sviluppa su una base speculativa, né le forze politiche che esprimono gli interessi della nuova (per noi) classe dei proprietari sono in grado di trovare soluzioni adeguate nella caotica e assolutamente imprevedibile situazione odierna.

E' evidente che adesso il «male minore» sarebbe quello di una scelta in favore del capitalismo di Stato, cioè di un sistema che affermasse il ruolo prioritario dello Stato nei settori strategici dell'economia, che riconoscesse il principio di un'economia mista o diversificata e perseguisse tra gli obiettivi primari una politica sociale.

In Russia c'è un partito che si propone tali obiettivi e compiti democratici. E' il Partito socialista dei lavoratori (SPT, Socialisticeskaja partija trudjaščichsja), che per motivi incomprensibili (ma forse, al contrario, pienamente comprensibili) sembra essere «dimenticato» dai mezzi di informazione di massa, particolarmente da quelli elettronici.

Nella sua analisi il Partito socialista dei lavoratori (SPT) va oltre le soluzioni puramente tattiche, cerca «berlinguerianamente» di guardare al futuro. A questo riguardo vorrei ricordare soltanto i tre punti principali del Programma approvato dal suo IV congresso nel 1994.

Innanzi tutto, c'è la netta posizione dell'SPT circa l'inopportunità e l'impossibilità di ricreare nella Russia di oggi un modello di «socialismo di Stato», e neppure un modello da «società dei consumi». E' necessaria una sintesi degli aspetti positivi dei due modelli che abbiano superato la prova del tempo, è necessario creare su tale base una società nuova, naturalmente tenendo conto delle tradizioni storiche e culturali della Russia.

In secondo luogo, questo partito propone una concezione del socialismo fondata su una sintesi tra l'approccio di sistema e quello di valore.

In terzo luogo, il Partito socialista dei lavoratori è convinto che un movimento orientato al socialismo – inteso come concezione moderna dell'umanesimo del XXI secolo – sia una tendenza oggettiva.

E' così che il ricordo del passato, dell'esperienza politica e delle idee di Enrico Berlinguer, è divenuto di per sé un «ricordo del futuro» e persino ci indica che quelle idee – in parte e in nuove forme – possono attecchire in terra russa.

Per questo Berlinguer è attuale, e non soltanto nell'Europa occidentale. Ma se qualcuno si aspetta dall'autore una conclusione con frasi del tipo «l'insegnamento di Berlinguer è forte perché è vero», si sbaglia di molto.

Le idee politiche (sottolineo: esattamente e innanzi tutto politiche) di Enrico Berlinguer sono nate in un'epoca storica del tutto concreta, nelle condizioni di una regione geopolitica concreta, e riguardavano innanzi tutto i problemi relativi all'evoluzione dei paesi di una data regione. E' da pensare che lo stesso Berlinguer si sarebbe molto meravigliato se qualcuno gli avesse proposto di realizzare il «compromesso storico» in Russia. E' impossibile immergersi due volte nella stessa acqua corrente, tanto più se si tratta di fiumi diversi. Ma la vita e l'esperienza politica di Enrico Berlinguer ci insegnano che il politico deve fare politica, che la politica è impossibile senza la ricerca di nuove soluzioni, che il tenere costantemente presenti le condizioni specifiche concrete di un paese o di una regione non esclude, anzi sottintende la capacità di generalizzare, globalizzare, giungere a una sintesi.

L'insegnamento di Berlinguer si è rivelato non onnipotente. Ma era l'insegnamento giusto per l'Italia degli anni Settanta-Ottanta.

(Traduzione di Mark Bernardini)