sabato 5 novembre 2005

Scampoli di memoria 1

Erano i primi giorni di settembre del 1956. All’università Lomonosov di Mosca, la prestigiosa MGU, i corsi erano cominciati come ogni anno puntualmente il 1° settembre. Ero l’unico e il primo studente italiano nella storia della facoltà di filologia. L’insegnamento delle varie discipline era organizzato con lezioni generali dei professori titolari di cattedra nell’Aula Magna, cui assistevano tutti i circa 300 studenti del mio corso, e con seminari di dieci–quindici studenti che formavano qualcosa di molto simile alle classi di un nostro liceo. Nelle lezioni dell’Aula Magna gli studenti ascoltavano soltanto e prendevano appunti, mentre nei seminari si discuteva, si davano i compiti per la volta successiva e si veniva interrogati. Ogni seminario aveva i suoi insegnanti fissi, quasi mai titolari di cattedra. La mia conoscenza del russo era molto limitata e faticavo a seguire ciò che gli insegnanti dicevano. Soprattutto, era umiliante quando un professore diceva qualche battuta di spirito e tutti i miei compagni ridevano mentre io rimanevo in silenzio. In quei giorni avvenne un episodio incredibilmente ridicolo, una specie di gag chapliniana.
Le lezioni erano già cominciate da due o tre settimane quando l’anziana signora che svolgeva le mansioni di tutor del nostro corso per le questioni burocratiche mi chiese perché non fossi mai stato presente alle lezioni di Voennaja podgotovka (letteralmente: “Preparazione militare”), che si svolgevano nelle ultime due ore di ogni sabato. I miei compagni sovietici erano tenuti a frequentarle durante tutti i cinque anni del corso di laurea e anche a trascorrere ogni estate un mese in un campeggio militare. Ma erano ben felici di partecipare a tutto questo perché alla fine del quinto anno ottenevano il grado di sottotenente della riserva e l’esonero dal servizio militare, che a quell’epoca in Russia durava tre anni. In realtà, oltre che alla “Preparazione militare”, non ero mai andato neanche alle lezioni di educazione fisica. Per quest’ultima ebbi con la tutor una discussione diciamo linguistica . Il fatto è che nel tabellone che riportava l’orario di tutte le materie figurava, sì, Educazione fisica, ma accanto, tra parentesi, c’era scritto fakul’tativno, una parola che evidentemente conoscevo meglio della tutor. Le dissi che se la lezione era facoltativa, preferivo non andarci. La risposta fu: fakul’tativno significa che è facoltativa, cioè qui da noi obbligatoria. Ribadii che finché ci fosse stato scritto «fakul’tativno» non ci sarei andato. E così fu per tutti i cinque anni del corso di laurea. Ma non è questa la gag chapliniana cui ho accennato sopra.
Nel rimproverarmi l’assenza alle lezioni di Preparazione militare la tutor mostrò un certo imbarazzo e persino qualcosa di più, che so, un timore che lì per lì, inesperto com’ero della vita nell’URSS, non capii. Con voce più che seria, non minacciosa ma quasi partecipe per i guai cui temeva potessi andare incontro, mi implorò di andare a parlare con l’insegnante il prossimo sabato. Cosa che feci. Insieme con tutti i miei compagni di sesso maschile entrai nell’aula e, in attesa dell’insegnante, partecipai al solito chiasso delle classi scolastiche in quelle circostanze. A un certo punto entrò un colonnello dell’Armata Rossa. Era l’insegnante, un uomo sulla cinquantina quasi calvo. Immediatamente ci fu silenzio. Alzai la mano dal mio banco e cercai di parlargli, ma venni bloccato senza poter dire nulla. Il colonnello srotolò un grafico e lo distese sulla lavagna, poi con un bacchetta cominciò a spiegarne il contenuto. Era il grafico di un aereo sovietico da caccia. Capii che dovevo fare qualcosa e chiesi nuovamente di parlare. Per tutta risposta il colonnello urlò: “Zitto!, e stai seduto!”. Non so come mi venne in mente, ma a mia volta gridai: “Io sono un soldato della NATO!”. Bisognava vedere la faccia del colonnello, che immediatamente si lanciò a coprire con il corpo e con le braccia spalancate il grafico dell’aereo. Spaventato, balbettando, mi chiese che cosa ci facessi lì. Risposi che anch’io avrei voluto saperlo. “Ma lei non può stare qui!” “Sono d’accordo, mi dica se posso uscire”. Fu così che si concluse la mia prima e unica lezione di Preparazione militare e anche la mia carriera nell’Armata Rossa.
Un altro episodio, se ricordo bene, si verificò alla prima lezione generale cui assistetti. Era Antičnaja literatura, vale a dire «Letteratura antica», che comprendeva la storia della letteratura greca e latina. Il professore era Sergej Radcig, un luminare anziano della generazione prerivoluzionaria, cultore della Grecia classica ma anche innamorato di Roma, che non aveva mai potuto visitare. Finita la lezione, scesi nel vestibolo per ritirare il mio soprabito, e qui avvenne qualcosa che mi pose al centro dell’attenzione generale e che non dimenticherò mai. Qualcuno degli studenti che dopo la lezione avevano circondato il buon professor Radcig, doveva averlo informato che nel nostro corso c’era quell’anno uno studente romano. Non l’avesse mai fatto. Sergej Ivanovič Radcig si precipitò sul pianerottolo che si affacciava sul vestibolo e cominciò a gridare: “Ehi, Rimljanin!, ehi Rimljanin!”, cioè “Ehi, Romano”. Il lettore deve sapere che a quell’epoca l’Unione Sovietica cominciava appena ad aprirsi al mondo occidentale dopo la lunga notte staliniana, e che da decenni gli unici “romani” di cui in qualche rara occasione si parlasse erano quelli dell’antica Roma. In ogni caso, fu così che l’invocazione del vecchio professore venne percepita dagli studenti che affollavano il vestibolo, come se avesse gridato: «Ehi, antico romano!». Io ero in mezzo a loro, ma non avevo capito che cosa stesse succedendo. Nessuno lì mi conosceva, tutti erano perplessi, forse pensando che il vecchio Radcig fosse impazzito. Finalmente qualcuno capì che Radcig ce l’aveva con me e mi indicarono il professore in cima alle scale. Quando fui vicino a lui, cominciò a tempestarmi di domande: ero proprio di Roma?, e quanto era lontana la mia casa dal Campidoglio e dal Colosseo? Snocciolò ancora qualche altro luogo della Roma tanto amata, di cui sapeva tutto, ma che non aveva mai visto. Mentre parlava era visibilmente commosso, i suoi occhi si inumidirono. Fu quella la prima manifestazione di affetto verso di me nella facoltà di filologia di Mosca.
Dino Bernardini

A Mosca l’ultima volta

Massimo D’Alema, A Mosca l’ultima volta (Enrico Berlinguer e il 1984). Donzelli Editore, Roma 2004, pp. 144, 12,50.

“Non è un saggio su Berlinguer, ma un racconto di sei mesi della sinistra italiana”: così D’Alema ha definito questo suo libro, presentandolo a una manifestazione al Palasport di Genova. In effetti, le pagine del libro sono equamente divise tra il racconto del viaggio a Mosca con Berlinguer e Bufalini per i funerali di Andropov – e devo dire che si tratta di pagine gustosissime, di valore letterario – e le vicende della sinistra italiana.

Parlerò poi del viaggio a Mosca, che resta la parte migliore dell’opera, ma intanto riconosco che l’autore rievoca con grande onestà il contrasto tra Craxi e Berlinguer senza omettere nulla, né le cose che ancora oggi condivide, ovviamente, né quelle che avrebbe preferito non fossero avvenute, che sono di ostacolo alla riconciliazione in atto tra una parte di ex socialisti e una parte di ex comunisti. Per esempio, l’infelice frase pronunciata da Bettino Craxi dopo i fischi della platea socialista all’ospite Berlinguer: “se sapessi fischiare l’avrei fatto anch’io”. Non c’è dubbio che questo non aiuta la riabilitazione e la quasi beatificazione del latitante Craxi da parte dei DS. Intendiamoci, nella parabola di Craxi ci sono stati atti, decisioni, scatti di dignità che nessun capo di governo italiano avrebbe avuto il coraggio di compiere, come la difesa della nostra sovranità nazionale a Sigonella contro la prepotenza dei comandi militari americani. Di questo gli va dato atto, ma senza dimenticare i tanti, illeciti episodi di corruzione addirittura rivendicati da Craxi senza vergogna.

E veniamo a Berlinguer. In tutto il libro si avverte un sentimento sincero di affetto per lo scomparso leader del PCI, del quale D’Alema sintetizza il pensiero, le idee sulla “diversità” dei comunisti italiani, sull’austerità, proclamata in anticipo sui tempi, in contrasto con l’imperante “edonismo reaganiano”. Sullo scontro tra Craxi e Berlinguer l’autore riporta una lunga citazione da Ugo Intini che almeno in parte sembra condividere: “Berlinguer cercava una terza via, non socialdemocratica e non capitalista, che non esisteva. Inseguiva un eurocomunismo che non c’era. Voleva trasformare il PCI in una forza di governo, mantenendone l’unità, la continuità e la tradizione, ma questo era impossibile. Craxi voleva trasformare il PSI (un apparato di potere senza più la spinta ideale di un tempo e senza radici sociali sufficientemente profonde) in un grande partito socialdemocratico di massa, nella guida di una grande sinistra vincente. Ma anche questo era impossibile. Berlinguer e Craxi coltivavano due sogni irrealizzabili”. Berlinguer, dice D’Alema, percepì in modo drammatico la crisi del comunismo. Si deve però sapere che “aveva maturato sull’Unione Sovietica e sul socialismo reale una posizione più netta di quella che si è delineata nella politica ufficiale”. Se non è venuta alla luce, è perché “in lui ha agito la preoccupazione che una rottura definitiva con quel mondo potesse portare una scissione nel PCI”.

Era riformabile il sistema sovietico? L’impressione che emerge dal libro è che per D’Alema non lo fosse. Tuttavia, dice, “non era scritto nel libro del destino che il mondo comunista crollasse”. “Non sono tra quelli – dice ancora D’Alema – che dicono che il comunismo per sua natura non fosse riformabile. Il problema è che quella ipotesi di rinnovamento democratico non era più concretamente in campo già nel momento in cui Berlinguer assunse la direzione del PCI”. Infatti, la speranza del rinnovamento era stata distrutta dai carri armati sovietici mandati a Praga ad abbattere un governo comunista che godeva del favore dell’intero popolo cecoslovacco.

Come ho detto, le pagine migliori del libro sono quelle dedicate al viaggio a Mosca in occasione dei funerali del segretario generale del PCUS Jurij Andropov, “l’ultima tenue speranza di riforma del comunismo sovietico”. Era il febbraio 1984. Ricordiamo che Andropov, uomo intelligente e colto, era diventato leader del PCUS nel novembre 1982. Dopo la lunga stagnazione brežneviana, il nuovo leader aveva suscitato molte speranze pubblicando un lungo saggio sul marxismo nel quale lasciava intuire la sua volontà di cambiamento. Purtroppo, formalmente rimase in carica meno di un anno e mezzo, ma in realtà quasi subito dopo la nomina fu colpito da una grave malattia che lo tenne inchiodato alla macchina della dialisi fino alla morte.

D’Alema racconta con arguzia il suo viaggio a bordo dell’aereo presidenziale italiano, dove Pertini aveva ospitato, oltre al ministro degli esteri Andreotti, anche la delegazione del Vaticano e quella del PCI. Durante il volo, ci fu una partita a scopone tra Pertini e Berlinguer, da un lato, e Andreotti e Maccanico, dall’altro. “Andreotti mi volle dietro a sé. Come disse in modo cortese e sornione, “per farsi consigliare”. In realtà giocava benissimo. Il presidente perdeva e la cosa lo seccava molto. Berlinguer era imbarazzato. Si vedeva che non aveva gran voglia. Si distraeva, ma era dispiaciuto per Pertini. Insomma una mezza tortura”. “Quando, intorno alle 18,00, l’aereo arrivò su Mosca, cominciò a girare senza poter atterrare […]. Per i sovietici non era normale che sullo stesso aereo arrivassero lo Stato, il Governo, il Vaticano e il Partito comunista. Si trattava per loro di delegazioni distinte a cui dovevano corrispondere cerimoniali, comitati d’accoglienza e destinazioni separate. Cominciò così un complesso negoziato con la torre di controllo che alla fine produsse un preciso protocollo di precedenze e tempi da rispettare. Prima doveva scendere il presidente con il suo seguito. Dopo cinque minuti il ministro degli Esteri. Poi il segretario del Partito comunista. Infine i cardinali [...]. Chiarita la procedura, finalmente giunse il permesso di atterraggio [...]. Quando l’aereo fu fermo sul piazzale, Pertini, infischiandosene di accordi, raccomandazioni e preghiere degli addetti al cerimoniale, prese sotto braccio Andreotti e Berlinguer e scese la scaletta. Fu il caos”.

Un altro episodio raccontato nei minimi dettagli, a conferma di quello che personalmente considero un difetto di D’Alema, ma che per altri può darsi venga considerato un pregio, è la cena all’ambasciata italiana di Mosca. L’autore dopo aver descritto l’ordine in cui erano seduti tutti i commensali, passa al menu: “La cena fu notevole. Salmone affumicato, caviale Molossol. Verdicchio e vodka. Prosciutto, melanzane in caponata. Tortellini in brodo. Spigola e gamberi portati freschi dall’Italia (sullo stesso aereo?). Dolce di fragole e panna. Spumante Ferrari. Confesso la mia debolezza – scrive D’Alema – per il mangiare bene e non sono stupito di ritrovare, dopo molti anni, annotati in modo così dettagliato i menu”. A mia volta, confesso il mio totale disinteresse per ciò che si è mangiato in quella e in altre cene.