mercoledì 23 dicembre 2009

Il compagno D'Alema


Ho scelto questo titolo perché così, se mai D'Alema dovesse leggerlo, s'incazza.

Sul Manifesto del 20 dicembre 2009 Alessandro Robecchi, nel suo Il Massimo del surreale, afferma:

La differenza tra un grande leader e i comuni mortali è la lungimiranza. Non si può che ammirare l'astuzia sopraffina con cui Massimo D'Alema, punta ad alti traguardi, magari addirittura il Telegatto. «Certi inciuci fanno bene», nobile concetto, corollario alla frase del giorno prima su Silvio Berlusconi e i suoi guai giudiziari. Testuale: «Se per evitare il suo processo devono liberare centinaia di imputati di gravi reati, è quasi meglio che facciano una leggina ad personam per limitare il danno all'ordinamento e alla sicurezza dei cittadini». Bravo! Nuove parole d'ordine: «Ci lasceremo intimidire!». Oppure: «Noi sì che abbiamo il coraggio di cedere ai ricatti!». O anche: «Caliamo le braghe subito, prima che gli venga in mente di chiederci anche le mutande!». Come sappiamo, ogni concessione ha un suo tornaconto: tutto dipende da cosa il Pd riuscirà ad averne in cambio. Il numero di cellulare di Noemi? L'indirizzo del sarto di Cicchitto? Un volume con le poesie di Bondi? Si tratta di superare quel concetto massimalista della legge uguale per tutti, un volgare enunciato anti-inciuci, sarà mica stato scritto dalle solite forze «a sinistra del Pci?» che infastidiscono D'Alema da sessant'anni? Bene, ma cosa chiedere come contropartita? Forse il privilegio di continuare a fare opposizione. Dopotutto, se la patente di oppositore la dà il capo del governo coadiuvato da Cicchitto, bisognerà pur meritarsela.

Non sono sospettabile di simpatie per D’Alema, oltretutto fin dai tempi della mia militanza nella FGCI; tuttavia, Robecchi ha perso l’ennesima occasione per stare zitto. Intanto, non è spiritoso dire che ciò che era a sinistra del PCI dia fastidio a D’Alema da sessant’anni: D’Alema di anni ne ha sessanta in tutto (Robecchi vorrebbe avvalorare l’idea che D’Alema è vecchio e perciò è il vecchiume, la vecchia politica, ma, come giovanotto, Alessandro Robecchi è un po’ agé: ha due anni più di me, 49 anni), ha iniziato a fare politica nel 1963, a 14 anni (come molti di noi, non ci trovo nulla di male), i gruppi sono comparsi nel ’68 (prima c’erano giusto il PCMLI, Stella Rossa ed altri sfigati simili), ed il PCI, ricordiamo tutti, è stato sciolto nel 1991. Ecco quindi che i suoi sessant’anni di antipatia diventano appena 23. Lana caprina? Questione di opinioni.

Consiglio la lettura del seguente articolo dall’Unità del 20 dicembre 2009: Mai parlato di inciucio e leggine. No, non è una smentita in stile berlusconiano, che non ha detto cacca, ha solo detto cacca: conosco molto bene questo meccanismo utilizzato con successo dai pennivendoli italiani. Quando anni fa ero, ahimé, balzato agli “orrori” della cronaca, se m’avessero chiesto se sono d’accordo che Berlusconi è uno stronzo, ed io avessi risposto che, più che stronzo, ritengo che sia un ladro, il giorno dopo sicuramente il titolo sarebbe stato “Bernardini: Berlusconi è uno stronzo e un ladro”.

lunedì 14 dicembre 2009

Le statuette di Berlusconi

Se volete farvi due risate, guardatevi il TG 4 delle sette di sera di domenica 13 dicembre 2009.

Poi, se volete farvi venire i brividi alla schiena per i sottintesi golpisti delle affermazioni di Emilio Fede, direttore del TG 4, leggetevi questa trascrizione del suo show di tre quarti d'ora:

[...] C'è stato un gruppo di contestatori, le solite frange di delinquenti, che sono soltanto dei delinquenti [...] guardate, lo hanno colpito al volto, alla bocca [...] queste immagini stanno a significare che gli istigatori della violenza, il signor Di Pietro che dice che bisogna portare la piazza contro Berlusconi, il signor Ferrero del Partito Rifondazione Comunista che ha dichiarato poco fa che Berlusconi va comunque sconfitto e non soltanto con urli, che cosa intendono questi signori? E il signor Di Pietro, il primo commento a questo gravissimo episodio, sapete cosa dice? Dice "sono contro la violenza ma Berlusconi è un istigatore". Allora, questo basterebbe a significare che siamo in un passaggio dove alcuni personaggi, metaforicamente parlando, anche a livello politico, sono la vergogna, sono inaccettabili nei loro atteggiamenti, soprattutto di quella certa politica poi accompagnata naturalmente in tutti questi mesi da una certa informazione dei giornali e anche della televisione che hanno portato a episodi come questo. Nessuno certamente delle migliaia di milioni di italiani che votano per l'aria moderata si permetterebbe mai neppure di pensare di poter aggredire un uomo politico, in questo caso è un uomo politico ma anche il capo del governo [...] Il Presidente del Consiglio è stato subito accompagnato in ospedale. Lo hanno visto, lo hanno descritto come sanguinante al labbro [...] Si vede anche il momento in cui si tenta di aggredire alle spalle, il momento in cui, sarà quella faccia da delinquente che si vede lì forse col berrettino in testa, ma l'uomo è stato fermato e portato in Questura, chissà, adesso si spera che troveremo un giudice talmente simpatico che lo manderà in vacanza magari in qualche posto al mare [...] C'è della confusione, guardate, nel momento in cui qualcuno si avvicina e c'è un momento in cui evidentemente gli uomini della scorta lo stanno proteggendo da qualcuno che comunque è riuscito ad avvicinarsi [...] Quello che è stato fermato probabilmente mentre tentano di colpire [...]

E' una vergogna, naturalmente, un atto indecoroso, ma già era accaduto ieri, le frange dell'estrema sinistra certamente, perché non è l'area moderata che sta facendo tutto questo, ieri durante la manifestazione a ricordo delle vittime della strage di Piazza Fontana, laddove il Presidente della Repubblica aveva invitato alla moderazione, al rispetto, alla ricerca di frammenti di verità, è successo di tutto, tant'è che i familiari delle vittime hanno deciso di abbandonare la manifestazione. E chi è l'istigatore di tutto questo? Quale tipo di politica, quale tipo di dichiarazione? Questo signore, chiamiamolo così, metaforicamente indichiamolo come il signor Di Pietro, la prima notizia che dice è che l'istigatore è il Presidente del Consiglio. Io mi chiedo, con tutto il rispetto, naturalmente, per la libertà e la democrazia, ma chi vota per Di Pietro? Ma cosa vuole questo Di Pietro? Cosa vuole Di Pietro, che pochi giorni fa ha detto in piazza che bisogna richiamare la piazza con la violenza per cacciare Berlusconi? Questi sono i risultati del signor Di Pietro, certamente, ma anche di quella stampa, di quel tipo di informazione, di quella politica, va beh, certamente che non è nell'area moderata, verrà dall'estremo comunismo, verrà dall'estremo dell'accidenti a loro, che stanno portando a questo clima di violenza. Nessuno mai dei leader politici dell'attuale opposizione è mai stato aggredito da nessuno, perché da questa parte c'è gente corretta, c'è gente che ha rispetto della libertà e della democrazia [...] Il governo andrà avanti, la violenza non troverà certamente complicità, la giustizia dovrà essere riformata [...]

Il Presidente del Consiglio ha ribadito che vuole un governo forte, forte anche della fedeltà degli alleati, abbiamo la fiducia della maggioranza che ci ha votato, e con questa realtà andremo avanti per un Paese migliore, che vuole anche dire una giustizia più rispettosa dei diritti di tutti [...]

L'aggressore è stato sottratto alla folla dalla polizia, ché la folla l'avrebbe linciato. Cosa c'era da augurarsi? Siamo persone garantiste, meno male che non l'abbiano linciato, però speriamo che ci sia una giustizia, perché sennò altrimenti trova il magistrato che dice "ma poveretto, ha avuto un attimo di crisi, ci mancherebbe altro". Quanto poi va ricordato, ma certo, che il signor Di Pietro, lo voglio ripetere, che si capisca, anche quelli che manifestano fiducia nei confronti di Di Pietro, per carità, sono liberi di farlo, certamente, lo eleggano anche capo dello Stato, al tempo stesso capo del governo, ministro dell'interno, diano il Paese in mano a Di Pietro, così siamo tranquilli di come possano andare le cose, ma Di Pietro dove vuole arrivare? Dove vuole arrivare lo sappiamo, e, mi spiace, Ferrero, leader di Rifondazione Comunista [...] "Berlusconi non va sconfitto soltanto nelle urne"... Speriamo che Ferrero ci chiarisca cosa intende dire. Ma ci rendiamo conto che stiamo vivendo, a causa e per colpa di una certa parte politica, di una certa informazione, quale tipo di situazione sta vivendo questo Paese, che pure resterà nonostante gli altri, un Paese libero e democratico?

Sarebbe quello? Beh, forse è meglio farlo vedere bene, così magari uno lo incontra e sa con chi ha a che fare [...] Aspettiamo gli altri commenti di Di Pietro, naturalmente. Mi assumo la responsabilità mia personale: Di Pietro in questo telegiornale non troverà mai più spazio. Dica quello che vuole, faccia quello che vuole, urli quello che vuole, chiami in piazza tutto quello che crede, aizzi alla violenza anche contro di me, ma Di Pietro nel TG 4 non avrà più ospitalità. Questo è un vecchio conto in sospeso.

...Ecco, guardate, è un'immagine che fa veramente male al cuore, non soltanto perché il capo del governo, persona alla quale sono legato da lunga ed affettuosissima amicizia, ma perché è la testimonianza di quel che certa campagna di odio sta provocando nel Paese; e la campagna di odio ha dei nomi e cognomi perfetti, per cui sono responsabili di quello che sta succedendo, se quella statuetta anziché prenderlo in faccia lo prendeva alla fronte, lo avrebbe anche ucciso [...] Quest'immagine va vista, perché il signor Rutelli, il signor Casini, il signor Va... Va... tutti quelli che sono, il signor Ferrero del Partito della Rifondazione Comunista, soprattutto il signor Di Pietro, che usare la parola "signore" nei confronti di Di Pietro è una vergogna per me che la uso [...] Riproponiamo, perché va bene vederlo, riconoscerlo, non so cosa ne farà la giustizia, il pubblico ministero di turno, la questura, quelli che lo hanno fermato, l'hanno salvato dal linciaggio, siamo contenti [...] Bersani, meno male che se ne accorge, poi bisogna vedere chi è che, va beh, lasciamo perdere [...] chi è questo? Casini... Va beh, grazie, come è generoso lui non è generoso nessuno... [...] Un atto di terrorismo, certo [...] Le parole di Di Pietro sono sempre inaccettabili...

Questo delinquente, che ha un nome e cognome, si chiama Massimo Tartaglia, secondo me andrebbe visto in faccia, per avere la possibilità, incontrandolo, perché, chissà, lo libereranno domani magari, di offrirgli un caffè, spero di no, è una battuta amara, ma mi sia consentuta [...] Ecco il Presidente del Consiglio colpito che sta cercando di trattenere il sangue [...] Ecco, quello con il piumino verde, protetto da uomini delle forze dell'ordine, è Massimo Tartaglia, protetto da quelli che, possiamo dirlo?, giustamente!, dargliene quattro, non dico linciarlo, viene trascinato via, fortunato lui, che non ha riportato certamente lesioni come le ha riportate il Presidente del Consiglio, è in Questura, lo staranno interrogando, non lo so, ho poca fiducia, non nella magistratura, ci mancherebbe altro, ma con tutto quel che sta succedendo... D'altra parte, le violenze che ci sono state ieri, non dimentichiamolo, proprio a mortificare una manifestazione che doveva essere il massimo del silenzio, rispetto delle vittime della strage di Piazza Fontana, istigati da chi? Dai centri sociali! Chi sono i centri sociali, a chi sono collegati? A Berlusconi? O piuttosto a una frangia della sinistra? Hanno radici nel Partito Comunista estremista, oppure dove hanno radici? Perché nascondersi? Questa sarebbe una volgare ipocrisia, non capire bene con chi abbiamo a che fare, soprattutto non rendersi conto dei rischi che andiamo incontro, con una campagna di odio che trova complicità, non volontà pratica, in certa informazione, che a furia di istigare, che Berlusconi è mafioso, è delinquente, e qui e là, certa stampa e certa televisione, cosa fare un signore che non voglio nominare? Farà una trasmissione per dire che questo poveretto è stato istigato da Berlusconi, che era un poveraccio, vittima del governo Berlusconi?

Sono veramente sconvolto. Cinquant'anni di giornalismo, 27 anni in RAI e venti qui nel gruppo Fininvest, quindi prima con Berlusconi e adesso con gli altri che sono al vertice dell'azienda, non mi è mai capitata una cosa del genere, dovrei riportarmi alla violenza delle Brigate Rosse, ma non siamo a quello per fortuna, ammesso... ma... ma... ma... ma... ma... ma... anche la violenza delle Brigate Rosse, anche il rapimento e l'assassinio di Moro, la strage degli uomini della scorta e tante altre violenze, ma... ma... ma... Arrivavano... Io ero nell'obiettivo delle Brigate Rosse, ero indicato in un covo delle Brigate Rosse come pennivendolo di regime. E' bastato quello per creare dell'odio. E' stata fatta esplodere qui tre-quattro anni fa una bomba in redazione, e quando si predica, chi semina vento raccoglie tempesta, lo dico a Di Pietro: ma stia zitto! Esprima solidarietà , se ha un minimo di dignità umana, a fare bella figura! Chi può seguire un uomo come Di Pietro in un momento come questo? Ma neppure... Non lo so, non riesco veramente... va beh...

Un episodio come questo non è mai accaduto, nessun capo del governo nel nostro Paese è stato, mai aggredito così, l'aggressione verbale dei dibattiti televisivi sì, l'aggressione gravissima dal punto di vista morale attraverso un mascalzone, delinquente, pezzente come Spatuzza, che si permette di insinuare che Berlusconi può essere collegato alla mafia, anche quello è una grave ferita; questa è una ferita fisica, quella di oggi, le altre lo feriscono moralmente.

Sono molto addolorato, innanzitutto come cittadino democratico, e poi certamente anche come amico di un uomo che io considero straordinario, un uomo per bene, che ha fatto molto per questo Paese. L'opposizione faccia il suo ruolo, ma adesso rifletta anche quella opposizione che continua a predicare odio, non la contrapposizione, non la strategia, dice Bersani, in mille piazze, perfetto, per porre e proporre un'alternanza a questo governo, legittimo, ci mancherebbe altro, la democrazia è questa, però non è democrazia quando i tanti interventi spingono alla violenza. Naturalmente quello di Di Pietro è particolare, ma non dimentichiamoci alcune trasmissioni televisive che non cito, sennò dovrei parlare di "Anno zero", di "Parla con me", parla con te, parla con chi gli pare, che sono naturalmente, e sono l'Infedele, l'infedeltà eccetera: non serve! Questo telegiornale non ha mai aggredito, ovviamente dal punto di vista dell'informazione, nessuno.

Ce l'avete fatta? Bene. Adesso, anche se siete provati, riflettete. Cosa ne deduciamo?

Intanto, che abbiamo il Presidente megagalattico più colpito, ferito, aggredito, lesionato da mafia, terrorismo, comunismo, falsi amici traditori degli ultimi 150 anni. Ma questo è troppo poco.

Andando a scavare, dobbiamo renderci conto che chi colpisce Berlusconi è comunista e psicolabile per definizione. Il linciaggio sarebbe una disdetta, ma certo che lo meriterebbe, al punto che linciarlo dalla folla no, ma una bella scarica di botte, magari in Questura, sarebbe la giusta punizione divina, sennò i magistrati comunisti gli offrono un caffè e lo mandano al mare in vacanza premio, magari nella Corea del Nord. E se poi, tanto per celebrare un altro anniversario quarantennale, quello di Pinelli, dovesse "essere suicidato" in quanto psicolabile schiacciato dal senso di vergogna, sarebbe la prova provata dell'esistenza di dio. E Di Pietro, che non è signore, brucerà perciò all'inferno, senza che il TG 4 ne dia notizia. D'altra parte, chi lo vota è senz'altro un affiliato del Partito Comunista, non importa se estremista o meno, quindi psicolabile anch'esso. E gli psicolabili, se sono pericolosi (quelli comunisti lo sono per antonomasia), vanno rinchiusi, se proprio non si possono giustiziare perché siamo liberi e democratici. In fondo Di Pietro e gli altri comunisti, come Casini e Rutelli, sono paragonabili ai mafiosi alla Spatuzza, non per niente Berlusconi lotta contro la mafia più di tutti i capi di governo dell'Italia unita dal 1861 ad oggi, compreso il noto comunista sovversivo Cavour.

Collusioni di Berlusconi con la mafia? Ecco che ne vengono arrestati a grappoli. Quarant'anni di impunità per le stragi fasciste? Nulla, in confronto al labbro sbreccato di Berlusconi.

La strategia della tensione era una cosa seria. Ora saremmo alla farsa, se non fosse però ancor più pericolosa per la democrazia, quella vera, quella nata dalla Resistenza, non certo quella di questi peones ed affaristi palazzinari massmediatici d'assalto.

domenica 29 novembre 2009

Lettera aperta ad Anna Zafesova

Domenica 29 novembre 2009, a proposito dell'attentato fascista ad un treno in Russia, Anna Zafesova ha scritto un articolo su "la Stampa" di Torino dal titolo Mosca-Pietroburgo erano due le bombe sotto il treno dei vip.

Cara Anna, io lo so che i titoli li fanno in redazione senza interpellare gli autori. Però dovresti come minimo sfanculeggiarli! Tu parli di "lussuoso treno che unisce le due capitali russe in sole quattro ore e mezza ed è molto usato da politici e top manager". Ecco che per questi imbecilli diventa il treno dei VIP.

In business il Nevskij (650 km) costa 85 €, in economica 40. Un Milano-Roma con Frecciarossa (632 km) in 1° costa 109 €, in 2° 89.

E se fosse un problema di reddito medio russo, non si capisce perché i posti sono tutti prenotati in entrambe le classi, da qui a fine gennaio, tutto esaurito.

Non ti fare accomunare coi pennivendoli italiani che scrivono da qui, non lo meriti.

sabato 14 novembre 2009

Il pressappochismo di Radio Popolare

Oggi ho scritto a Radio Popolare, avendo ascoltato, via satellite, la trasmissione "Onde Road". La ragione si evince dal contenuto:

Complimenti, finora un errore del genere lo hanno fatto solo quelli del TG 2: San Pietroburgo non è mai stata Stalingrado! Anche perché, tra le due città ci sono 1.692 km (come da Milano a Trapani). San Pietroburgo nel 1914 fu rinominata Pietrogrado per fare uno sgarbo ai Prussiani (Prima Guerra Mondiale), Leningrado nel 1924 (alla morte di Lenin) e di nuovo San Pietroburgo da El'cin nel 1991; Volgograd si è chiamata Caricyn (per la pronuncia: Zarizin) fino al 1925 e Stalingrado fino al 1961.

Il conduttore, Claudio Agostoni, utente di Facebook, mi ha risposto:

Grazie, maestro.

Ieri notte mentre registravo mi è scappata sta cazzata.

Spero non abbia inficiato il lavoro di una notte, visto che l'unica cosa che commenti è questo errore...

Prima di venir denunciato dal sindaco di san pietroburgo farò rettifica a mezzo stampa...

Ed ecco infine la mia replica. Se dovesse esserci un seguito, aggiornerò questa nota:

Hai poco da prendere per i fondelli: io avrei detto “ho detto una cazzata” e punto. Non è necessario essere tuttologi: per dire, io non mi occupo di India, perché non ci capisco una sega, non so quante ne siano le province, i distretti, o chissà quali altre unità amministrative. Se ci sono tirato per i capelli, magari prima consulto qualche enciclopedia, persino Wikipedia (pur se poco affidabile). Se non ho tempo, almeno evito di inerpicarmi con enunciazioni calate dall’alto che potrebbero farmi incespicare.

Nel caso in questione, tuttavia, stiamo parlando dell’assedio di Leningrado (lo chiama così persino il pseudo ereditiere al trono, non “di San Pietroburgo”), durato quasi tre anni, e soprattutto della battaglia di Stalingrado. Cristo, io e te siamo cresciuti entrambi cantando Stalingrado degli Stormy Six, dovrebbe far parte del nostro patrimonio storico, o sbaglio? E’ come se io dicessi che Ernesto Guevara sia stato ammazzato a Cuba. Però, se lo dicessi io, l’avrei detto in una cerchia ristretta di amici, o, al limite, nel mio blog. Tu invece sei un giornalista, ti ascoltano decine di migliaia di persone (persino a Mosca, come vedi). E’ una responsabilità che hai liberamente scelto, assumitela.

Ricordo una domenica, durante il vostro programma mattutino di musica classica, quando un pezzo russo venne spacciato per jugoslavo (o qualcosa del genere, è passato troppo tempo). Lo feci notare, e alla puntata successiva fu fatta una rettifica, dal medesimo conduttore, senza che ciò dovesse rappresentare un dramma o una “lesa maestà”.

Da ultimo, mi chiedi, implicitamente, di commentare l’insieme della trasmissione. Qui scendiamo nel campo delle opinioni, che, per definizione, sono opinabili, perdonami la tautologia. Non mi è piaciuto quel che avete detto sull’Unione Sovietica, non mi è piaciuto quel che avete detto sulla cosiddetta (in Occidente) “cortina di ferro”, e soprattutto non mi è piaciuto quel che avete detto su Tito. Ma qui, appunto, le opinioni sono come le corna: ciascuno ha le sue. Esprimere una linea editoriale (che non condivido) è una cosa, fornire false informazioni (che, ribadisco, finora sono state fornite solo dal TG 2 berlusconiano) è ben altra, ti pare? E bada che sono stato per quindici anni (fino allo scioglimento) nel PCI, e persino al suo interno – per non parlare dei gruppi extraparlamentari – venivo chiamato “socialdemocratico” (ricorderai certamente quanto fosse offensivo, all’epoca). Peccato che ora tutta quella gentaglia sia passata al PD (e, per fortuna pochi, tra i “gruppettari”, addirittura al PDL) ed ora mi dia dell’estremista: io sono rimasto sempre uguale (che palle, eh?), loro intanto hanno fatto “sguish”.

E’ vero: con Radio Popolare non vado più d’accordo, dopo averci collaborato per dieci anni gratuitamente “per la causa”, trovi tutto qui, o altrimenti basterebbe che tu chiedessi a quanti cito nella pagina che ti ho così linkato, ma cadiamo nuovamente nella personalizzazione. Basterebbe, come dicevo all’inizio, fare una rettifica: non ci sarebbe nulla di male, e ti farebbe onore.

mercoledì 11 novembre 2009

Decoder e razzismo di Stato

Ecco cosa si vede sullo schermo durante i programmi criptati per l'estero di Canale 5:


Ho chiesto lumi scrivendo a quelli di Tivusat, dicendo loro:

Noi italiani all’estero, possessori di parabola, cosa dovremmo fare per continuare a vedere i canali televisivi gratuiti italiani, tornare in Patria a nostre spese per acquistare il Vostro decoder?! Iscritti all’AIRE, siamo tre milioni e mezzo nel mondo...

Ed ecco cosa mi hanno risposto:

In merito alla sua richiesta le comunichiamo che i decoder Tivusat sono in vendita esclusivamente in Italia; La tessera va attivata al numero unico 199.309.409 o via web all'indirizzo www.tivu.tv in nome e per conto di persone domiciliate in Italia.

In pratica, noi emigranti dovremmo tornare a nostre spese in Italia e comprare un decoder per poter vedere i canali TV gratuiti italiani, sia RAI che Mediaset e La 7. Ecco perché vi invito a firmare la petizione contro il criptaggio sul sito Firmiamo.it ed anche in Facebook.

Dateci una mano, in nome di quella parola obsoleta che è la "solidarietà"...

Sul medesimo argomento, vedasi Socialismo digitale.

mercoledì 4 novembre 2009

Piccoli nazisti, non facciamoli crescere

Ho ricevuto oggi, dall'IP 209.85.221.193 di Google, un palese messaggio di spam che ha tutta l'aria di essere anche una provocazione mirata nei miei confronti. L'oggetto era: "Russia, Fiore incontra Presidente Parlamento russo". Sì, proprio quel Fiore. E notate bene il "Presidente": ci torno tra poco.

Ovviamente, l'ho mandato al servizio abuse per spam (mandare a cagare quelli di Forza Nuova è troppo poco). Tuttavia, il testo contiene una serie di falsità che meritano di essere rese note, tanto per sputtanarli un po' (è un termine che ultimamente usa molto l'attuale Presidente del Consiglio dei Ministri italiano, quindi direi che me lo posso permettere anch'io). Non penso quindi di fare loro pubblicità gratuita, a meno che non sia considerata tale l'indicazione del tipico pressappochismo italico. Veniamo al contenuto.

Il segretario nazionale di Forza Nuova Roberto Fiore si trova in questi giorni in Russia, dove ieri ha avuto un incontro ufficiale con Zhirinovski, vice presidente del Parlamento Russo. Nel corso di questo proficuo incontro sono stati raggiunti accordi di alto profilo politico che saranno a breve resi noti. Fiore ha quindi incontrato il Generale Ivasciov ,Presidente dell' Accademia geopolitica Russa, per poi rilasciare una lunga intervista alla principale radio russa,  Radio Popolare Mosca, dove il Segretario del partito italiano è intervenuto sulle vicende politiche di attualita' internazionale e sulle pressioni esercitate dai poteri forti nel tentativo di comprimere le liberta' degli europei.

Non esiste, né in Italia né in Russia, un "Presidente del Parlamento". Esiste, in Italia, il Presidente della Camera dei Deputati, come in Russia esiste il Presidente della Duma, che sarebbe la Camera bassa, e cioè il corrispettivo della Camera dei Deputati italiana. Il Senato, che in Russia è il Consiglio della Federazione, ha un suo Presidente, come in Italia.

Il Presidente della Duma non è Žirinovskij: è Boris Gryzlov, che è anche il segretario del Partito di maggioranza "Russia Unita". Siccome la Russia, a differenza dell'Italia, non è la Repubblica delle banane, i vicepresidenti sono equamente suddivisi tra i Partiti di opposizione: nove in tutto (in Italia quattro: due del PDL, come il Presidente, uno del PD e uno dell'UDC), uno è di "Russia Giusta", sei di "Russia Unita" (come Gryzlov), uno del Partito Liberal-Democratico (Žirinovskij, appunto), uno del Partito Comunista. Giusto per la precisione, Russia Unita ha il 70% (e quindi il 67% dei vice), i comunisti il 13%, Žirinovskij il 9% e Russia Giusta l'8% (e quindi l'11% a testa dei vice).

Sul sito di Žirinovskij non si fa menzione di questo incontro. Non perché non ci sia stato: è che, evidentemente, non è degno di essere menzionato. Più importante la partecipazione di Žirinovskij ad un comizio in occasione della festività odierna, quella dell'unità popolare (risale al 1612).

Il generale Ivašov, essendo un generale, giustamente è un militarista. Per il resto, è un nazionalista, ma assolutamente liberale. Il fatto che abbia accettato di incontrare Fiore non dice nulla: incontra tutti. Anni fa tradussi un'intervista che gli fece RAI News 24.

Confesso che ho faticato un po' a trovare la "principale radio russa" (secondo loro), tale Radio Popolare di Mosca: mai saputo, mai sentita, never covered. L'ho scovata in internet. E' una radio religiosa, tipo Radio Maria, solo molto più scassata. Infatti, copre Mosca (grazie, è la capitale, 10 milioni e mezzo di residenti), Abakan (150 mila), Belgorod (350 mila), Ivanovo (400 mila), Krasnodar (700 mila), Orël (300 mila), Rjazan' (500 mila) e Rybinsk (200 mila). Come dire, fatte le dovute proporzioni tra l'Italia ed il Paese più grande del mondo in assoluto, con undici fusi orari, parliamo più o meno della Lombardia da Lodi a Como, lasciando fuori Varese e Brescia, o, se preferite, del Lazio da Viterbo a Latina, lasciando fuori Frosinone e Rieti. Il tutto rispetto all'Italia. La principale radio russa? Porca vacca, siamo messi proprio male...

Dal sito di Forza Nuova si evince che, fondamentalmente, si è parlato di crocefissi nelle aule scolastiche italiane, la cui asportazione è universalmente riconosciuta come lesione delle libertà europee. Lesione peraltro stabilita dalla Corte Europea: masochista? In mano alle masse diaboliche islamiste? Ai posters l'ardua sentenza...

La mia impressione personale è che, effettivamente, sto dedicando loro eccessiva attenzione. Solo che, visti i trascorsi di famiglia e personali, sento subito puzza di gas.

martedì 20 ottobre 2009

Geopolitica, chi si schiera?

E’ almeno dall’inizio di questo Millennio che, puntualmente, i giornali “illuminati” (sedicenti tali, ma tanto nessuno osa metterlo in dubbio), quali ritengono e sono considerati “a sinistra” il Corriere della Sera, La Stampa, l’Unità e soprattutto la Repubblica, ci forniscono presunte prove provate circa la totale amicizia tra Putin e Berlusconi. Dopo lo scandalo delle escort a Palazzo Grazioli, si martella particolarmente col cosiddetto “lettone di Putin”, che quest’ultimo avrebbe regalato a Berlusconi.

L’ultima notizia, in ordine di tempo, ci presenta un Berlusconi (e perciò un’Italia) troppo dipendente da Putin (e perciò dalla Russia), quindi troppo favorevole al South Stream contro il Nabucco, nota emanazione portatrice sana di democrazia, sponsorizzata dagli USA e dalla NATO (e perciò dall’Unione Europea, dove Berlusconi è malvisto).

Almeno dall’estate scorsa, si parla molto di Murdoch contro Berlusconi. Si vocifera anche di Obama contro Berlusconi. Per il centro, il centrosinistra e la sinistra, il sillogismo è immediato: compagno Murdoch, compagno Obama.

Putin non è uso regalare letti a chicchessia. Viceversa, durante il G8, è il Paese ospitante a dover provvedere al vitto e all’alloggio dei capi di Stato che giungono alla riunione in questione. Il letto tanto citato è quello dove Putin ha dormito. A meno che, per evitare di dare materiale in pasto ai vari pennivendoli coprofaghi (mi si perdoni la crudezza, ma davvero non trovo sintesi migliore), non si pretenda che avesse dovuto dormire sulle mattonelle.

Il South Stream nasce dalla firma di un accordo tra l’ENI e la Gazprom alla fine del 2006. Prevede, una volta giunto il gas russo in Bulgaria attraverso il Mar Nero, lo sdoppiamento del gasdotto in due tronconi. Il primo segue la direttrice Serbia, Ungheria ed Austria; il secondo, attraverso la Grecia, giunge direttamente in Italia (Otranto e Brindisi).

Il Nabucco, nato nel 2002, che non prevede la fornitura di gas russo, prevede invece che il gas azero, attraverso la Georgia (altro Stato particolarmente nelle grazie degli USA, dove l’autostrada dall’aeroporto a Tbilisi è intitolata a George Bush jr.) e la Turchia, arrivi in Europa attraverso Bulgaria, Romania, Ungheria, Austria, Repubblica Ceca e Germania, e da lì all’Italia.

Ogni Paese di transito riceve le proprie royalties, facendo lievitare il prezzo del gas ad ogni passaggio. Risulta piuttosto evidente e lampante cosa convenga di più all’Italia.

E’ notizia di questi giorni che il canale televisivo statunitense Fox, appartenente a Rupert Murdoch, sia impegnato in una campagna martellante contro Obama e in favore dei repubblicani. In Italia, la notizia è passata – inspiegabilmente – in sordina. Inspiegabilmente? Mi correggo: la spiegazione è fin troppo ovvia, visto che, in Italia, Murdoch, col suo canale pay tv Sky, viene presentato come paladino della lotta antiberlusconiana per la libertà di informazione.

In politica, si sa, o si dovrebbe sapere, nulla è semplice e semplificabile. Dunque, Murdoch è buono o cattivo? A Repubblica l’ardua sentenza.

Povera Repubblica, filo yankee: se è per Obama, allora è contro Murdoch; e se è contro Berlusconi, allora è per Murdoch. Siamo alla schizofrenia, che coinvolge tutto il gruppo Telecom-Espresso di De Benedetti (e quindi Espresso, Repubblica, La 7, Kataweb, Radio Deejay, Radio Capital, All Music TV, Alto Adige, Corriere delle Alpi, le Gazzette di Mantova, Modena, Reggio, il Centro, il Mattino di Padova, il Piccolo, il Tirreno, la Città di Salerno, le Nuove Ferrara, Sardegna, Venezia, la Provincia Pavese, la Sentinella del Canavese, la Tribuna di Treviso, il Messaggero Veneto, il Trentino e una miriade di altri giornali e TV locali).

E la sinistra italiana? Perché segue Repubblica?

sabato 22 agosto 2009

Si fa per dire?

Sul venerdì di Repubblica del 21 agosto 2009, leggo un ennesimo stravolgimento della realtà, perpetrato con accanimento, incessantemente, consapevolmente. Per spiegare a cosa io mi riferisca, chiedo scusa a Piero Ottone se prendo a prestito il suo incipit dall’articolo nella medesima pubblicazione, ma su tutt’altro argomento:

Direte che mi ripeto, e avete ragione. Ma si ripetono anche gli eventi dei quali scrivo, e che vorrei che non si ripetessero.

Ebbene, nella sezione Esteri tale Alessandro Carlini racconta il restyling dell’Aeroflot. Hostess avvenenti, gonne accorciate e rinnovo, “si fa per dire” (parole sue) della flotta.

Sulle tratte europee internazionali non si ricorda aereo dell’Aeroflot che sia mai caduto, cosa che non si può dire dell’Alitalia (ricordate l’aereo caduto sulle Alpi al confine con la Svizzera?), ma è un vecchio discorso: se cade un aereo di Air France, cade un aereo della Air France, non della McDonnell Douglas statunitense. Se invece cade un Tupolev degli anni ’70 in Africa, mai revisionato da, che so io, Air Uganda, allora è caduto un aereo russo.

Come che sia, l’Aeroflot dispone di 104 aerei (l’Alitalia di 155, compresi i 57 di Air One, in un Paese grande un cinquantaseiesimo della Russia, a proposito di sprechi), di cui 11 Boeing 767 (l’Alitalia 6), 26 Tupolev 154, 6 Il'jušin 96, 15 A319 (l’Alitalia 12), 31 A320 (l’Alitalia 44), 10 A321 (l’Alitalia 23) e 3 A330 (l’Alitalia 2). Inoltre, l’Alitalia annovera 1 Avro RJ70, che non si producono dal 2003 (ne sono caduti 13), 6 Embraer 170 (72 posti, 850 km/h, analogo del Bombardier e del Super Jet Suchoj-Alenia, vedi sotto), 10 Bombardier CRJ900 (90 posti, 850 km/h), 18 Boeing 737 (ne sono caduti 147, infatti il Business Week lo ha dichiarato l’aereo più pericoloso del mondo) e 10 Boeing 777, 11 MD 80 e 12 MD 82, che non si producono dal 1999, essendone caduti 25 (e qui, al posto degli italiani, mi toccherei nelle parti basse: il Boeing 737 è il suo degno erede). Nel 2009 l’Aeroflot riceverà complessivamente 18 A320 e 6 A330. Dal 2016 (probabilmente il pennivendolo di Repubblica si riferiva a questo), l’Aeroflot riceverà 22 A350 e 22 Boeing 787. A breve dovrebbero arrivare anche 30 SSJ-100, alla cui costruzione ha partecipato anche la Finmeccanica e la Alenia, che evidentemente il pennivendolo ritiene dei fessi. Tanto fessi che è stata confermata documentalmente l’intenzione di acquistarne ulteriori 20.

ModelloAeroflotAlitaliaInizioFine
Avro RJ1700119782003
Embraer 170062002-
Bombardier CRJ9000101991-
Tupolev 15426019682007
Il'jušin 96601993-
MD 8002319801999
Boeing 7370181968-
Boeing 7671161982-
Boeing 7770101995-
Airbus A32056791987-
Airbus A330321992-

Sulla medesima pagina, a conferma (di cosa?), ci informano – questa è grossa, infatti non è firmato – che il 24 agosto è la festa dell’indipendenza dell’Ucraina e della Moldavia dalla… Russia. Stiamo parlando del 1991, appena 18 anni fa, e invece confidano già nella memoria corta degli italiani. Fu quello scellerato di El’cin, fin dalla fine del 1990, a spingere per la secessione della Russia dall’Unione Sovietica, creando non poco imbarazzo alle rimanenti 14 repubbliche, che rischiavano di diventare tante piccole enclave. Nell’agosto 1991 ci fu il tentativo di colpo di Stato, a seguito del quale il 26 dicembre l’URSS cessò di esistere. Il 1° dicembre, 25 giorni prima (non il 24 agosto, quando lo decise il Parlamento), in Ucraina si svolse un referendum per la secessione, cosa peraltro prevista dalla Costituzione sovietica (articolo 72). In quel periodo, seguirono l’esempio della Russia un po’ tutte.

Repetita juvant: secessione dall’URSS, non dalla Federazione Russa, che era solo una delle quindici, anche se la più grande. Il giorno che Bossi attuasse i suoi piani criminali, andrebbe via dall’Italia, non dal Lazio, con buona pace di “Roma ladrona”.

venerdì 21 agosto 2009

Ucrainizzazione

Trovandomi in ferie a Pescara, mi sono imbattuto casualmente nell’orario dei voli dell’aeroporto abruzzese. Ho scoperto così che le uniche due destinazioni europee extra-UE sono Kiev e Leopoli.

Breve digressione. Insisto nella corretta dizione italiana di queste due città, non Kiyv e L’viv, esattamente come, in italiano, si dice Londra, Parigi, Zurigo, Zagabria, Fiume, non siete andati a London, Paris, Zürich, Zagreb, Rijeka.

Torniamo all’aeroporto. Dunque, Ucraina, ma non Russia. Vengono più ucraini che russi? Gli abruzzesi preferiscono andare in Ucraina piuttosto che in Russia? Probabili entrambe le cose. Soprattutto, perché con l’Ucraina c’è il volo diretto. Le badanti sono soprattutto ucraine? Beh, non vedo frotte di badanti ucraine d’alto bordo solcare i cieli abruzzesi.

I giornali italiani hanno pubblicato un rapporto della svizzera UBS sul costo della vita nei vari Paesi del mondo. Tra le città citate dai giornali, per ovvie ragioni, Roma e Milano, le varie città UE, e poi un po’ di città sparate a casaccio. Gli USA, e anche questo è logico, ma anche Tokyo, Johannesburg, Bogotà, Kuala Lumpur, Manila. E, indovinate? Kiev. Niente Mosca e San Pietroburgo.

Parliamo allora di cifre. In Italia, sono residenti 130 mila ucraini. In Ucraina, risiedono 322 italiani (258 famiglie). In Russia, ne risiedono 1.441 (1.018 famiglie). In compenso, l’Italia esporta 10 ed importa 16 milioni di € dalla Russia. I dati ucraini sono talmente irrisori da non essere presi in considerazione nemmeno dall’ISTAT.

Sia ben chiaro, il mio non è un problema di lesa maestà, di simpatie russe ed antipatie ucraine. Però dalle cifre che ho riportato appare ben evidente cosa sia importante per l’Italia e cosa no. E non è questione di gas.

Ogni tanto, i soliti dilettanti che i giornali italiani inviano a Mosca con la qualifica altisonante di corrispondenti, tirano fuori la solita balla di Mosca città più cara del mondo. Quale occasione migliore, questa del rapporto UBS, per far capire qualcosa al lettore italiano? Macché.

Capita anche a me, talvolta, di sentire italiani, sia stanziali che di passaggio a Mosca, lamentarsi rispettivamente dei 6.000 € di affitto mensile o dei 200 € a testa per cenare. Poi si scopre che parliamo di 120 mq sul Nuovo Arbat, che è come dire via del Corso a Roma o via Manzoni a Milano, e che la cena era nel corrispettivo del Savini… I russi “normali” mangiano a più non posso in trattoria a 30 €, magari anche pasteggiando a vodka, e vivono prevalentemente in bilocali di epoca sovietica da 50 mq, di cui sono quasi tutti proprietari. Personalmente, vivo nelle medesime condizioni, pagando 700 € di affitto.

lunedì 17 agosto 2009

Socialismo digitale

E’ da almeno un lustro che mi occupo periodicamente delle trasmissioni televisive italiane via satellite, principalmente in chiave emigrazione. In particolare, la nota dolente riguarda i criteri con cui vengono criptate talune trasmissioni piuttosto che altre, ed il criptaggio in quanto tale. Esso viene attuato sia dalle reti pubbliche (RAI) che da quelle private nazionali (Mediaset e La 7). I criteri, appunto, restano misteriosi e contraddittori, in nome di dichiarati e non meglio identificati “diritti di trasmissione all’estero”.

Da anni, la Corte Europea di Giustizia, interpellata in merito, ha precisato che non esiste in tal senso vincolo alcuno. Infatti, in Europa, sia nell’Unione Europea che fuori da essa, non esiste alcuna televisione “in chiaro” che cripti alcunché: giusto per fare degli esempi, RTR Planeta (pubblica) e ORT (privata) russe, ma anche ZDF (tedesca), TV5 (francese), ARTE (franco-tedesca), PTP (portoghese), TVE (spagnola), BBC (inglese) e molte altre che non seguo solo perché non ne comprendo la lingua.

E poi, i criteri. Vengono criptate le partite di calcio, ma non i giri ciclistici. Le competizioni sportive, ma non le trasmissioni sportive. Lo sport, ma non la pubblicità. Capita così che, in questo mondo globalizzato, la FIAT come la “Mario Rossi” SAS o SNC, la Roberts come la mozzarella campana, la Telecom come Viacal, Wind come Barilla, Rita Dalla Chiesa con i suoi divani come le centinaia di veline berlusconiane riciclate che hanno mancato il seggio parlamentare (Guzzanti padre parlò di “mignottocrazia”) con creme, pillole, lettini, lettoni, yogurt, cabale del lotto, telefoni zozzettoni, suonerie che pensi di comprarne una e ti ritrovi abbonato, insomma la vergognosa baraonda che pretende di mostrare le aspirazioni italiche, è sufficiente che paghi un passaggio pubblicitario su un canale nazionale piuttosto che sui canali locali interconnessi (tipo Odeon, per intenderci), per finire in casa di chiunque, sul pianeta Terra, abbia settato dei canali italiani per le più svariate ragioni. Ricordate le speranze degli albanesi, all’epoca di Enver Hoxha, che guardavano RAI 1 con una semplice antenna analogica?

Ma torniamo a quel che viene criptato. “L’ultima carrozzella”, con Aldo Fabrizi, ma non “Walker Texas Ranger” col santone Chuck Norris. Il “Maresciallo Rocca” con Gigi Proietti, ma non “JAG Avvocati in divisa”. La signora in giallo, ma non il tenente Colombo. E soprattutto, il primo tempo di, che so io, “La dolce vita”, ma non il secondo, oppure il secondo tempo di “C’eravamo tanto amati”, ma non il primo.

L’impressione è che sia tutto a discrezione del tecnico di turno, a seconda delle volte che va a prendersi un caffè. Per chi, come me, ha superato almeno i quarant’anni, tutto ciò ricorda l’epoca delle prime TV non RAI, tra cui quelle estere Telemontecarlo, la Svizzera Italiana, Antenne Deux e Capodistria. Solo che all’epoca criptavano esclusivamente la pubblicità. Il contrario di quanto accade oggi. E poi, all’epoca i danneggiati erano gli italiani in Patria, mentre oggi sono gli emigranti italiani nel mondo. Solo quelli iscritti all’AIRE (Albo Italiani Residenti all’Estero, presso ogni Consolato d’Italia nel mondo) sono quasi quattro milioni, per non parlare del formidabile veicolo immediato di diffusione della lingua e della cultura italiana (di cultura, invero, ce n’è sempre meno, ma non è questo il punto) che è la televisione tout court.

Su questi temi, a suo tempo lanciai una petizione in rete, replicata successivamente in Facebook. Il risultato è deprimente: rispettivamente, 169 e 329 firme, a conferma che, finché un problema non tocca in prima persona, è inutile confidare in una parvenza di solidarietà. Ne scrissi anche a tutti i deputati e senatori eletti nei collegi esteri della presente e della precedente legislatura, e agli eurodeputati italiani, sempre delle ultime due legislature. Muro di gomma: l’unica deputata ad avere aderito è durata appena due anni (2006-2008), era di Forza Italia. Nessun altro suo compagno di Partito, né di AN, Lega Nord, UDC, PD, IDV, Verdi e sinistra ora extraparlamentare ha usato la cortesia almeno di declinare l’invito, ad eccezione di un radicale, che ha, appunto, declinato.

Nel frattempo, in Europa abbiamo anche perso del tutto La 7, che, di punto in bianco, senza preavviso né spiegazione, ha deciso di criptare le trasmissioni in chiaro per l’Eurasia, trasmettendo invece gratuitamente verso gli USA. Eppure, ci sono circa 1,5 milioni di italiani nel continente americano (la stragrande maggioranza in America Latina) e più di due milioni in Europa. Serve dirlo? Ho chiesto lumi a La 7 e ovviamente la risposta è caduta nel vento.

Torno ora a parlarne perché il problema sta per coinvolgere gli italiani in Italia: hai visto mai che ora capiranno la nostra condizione all’estero?

Ricapitoliamo. Negli ultimi anni, cinque milioni di famiglie si sono fatte tentare dal pacchetto a pagamento Sky, appartenente allo “squalo australiano” Murdoch (lo chiamano così i suoi fautori, non c’è quindi alcun intento offensivo da parte mia). Giova ricordare che, tra l’altro, sua è buona parte delle testate giornalistiche estere che, a differenza di quanto accade in Italia, non hanno taciuto in merito alle orge (nel senso letterale del termine) di Palazzo, sarde e romane, pagate dai contribuenti.

Oltre l’abbonamento, è necessario acquistare un decoder. In questo modo, era finora possibile guardare gratuitamente i tre canali RAI, i tre Mediaset e La 7, fatto non trascurabile per quelle zone italiane, e non sono poche, che hanno difficoltà ataviche di ricezione analogica, dovute a territori montuosi ed impervi. E questa era la prima fase.

Seconda fase. RAI, Mediaset, La 7 e tutte le TV locali stanno gradualmente passando al cosiddetto “digitale terrestre”. Tanto per cambiare, occorre acquistare un decoder. Diverso da quello di Sky: non sono compatibili. Finora, ciò riguarda solo RAI 2 e Rete 4, e solo in alcune regioni, ma è questione di mesi, addirittura di settimane.

Terza fase. Il 30 luglio 2009 sono spariti da Sky i canali RAI Sat: Yoyo e Smash Girls (per l’infanzia), Premium (il meglio della RAI), RAI Cinema, il Gambero Rosso (cucina), RAI Extra. Il motivo? E’ scaduto il contratto RAI – Sky. Quest’ultima offriva 370 milioni di euro spalmati su sette anni, la RAI ha rifiutato. RAI 1, 2 e 3, e i tre di Mediaset, restano visibili, senza aggravi per Sky o i suoi abbonati, perché è ancora in vigore (scadrà il 31 dicembre 2009) l’accordo tra la TV pubblica e il Ministero delle Telecomunicazioni, che impegna la RAI a trasmettere su tutte le piattaforme, compresa quella satellitare.

Fase quattro. Murdoch (che personalmente e ovviamente non mi è simpatico) ha attaccato il gestore delle reti pubbliche, capo del governo, nonché proprietario delle maggiori reti private? L’onta verrà lavata, sempre a spese del cittadino. Prima con l’aumento dell’IVA al 20%, poi ci si inventa un’altra Sky. Si chiama Tivusat. Appartiene a RAI, Mediaset e Telecom (editore, tra l’altro, de La 7 e MTV). Altro decoder, ça va sans dire, incompatibile con Sky e digitale terrestre. Quando dico “incompatibile” voglio dire, tra l’altro (ma non solo), che col decoder Sky inserito non si possono attaccare al televisore i decoder Tivusat e/o digitale terrestre, per non parlare del costo di due decoder (o di un televisore di nuova generazione e di un decoder) e di due abbonamenti. Come che sia, ecco aggirato il vincolo imposto dal Ministero delle Telecomunicazioni. Contestualmente, verranno criptati tutti i film distribuiti dalla maggiore casa italiana, la Medusa. By the way, a chi appartiene? Lo sapete: al fratello del proprietario de”Il Giornale”.

Torniamo a oggi. Senza preavviso, agosto ha segnato due autogol, nel senso di due partite di calcio criptate: Italia – Svizzera under 21 e Inter – Lazio. Personalmente, sono da sempre indifferente al pallone, ritengo che il calcio sia quello delle ossa ed il tifo sia una malattia endemica. Questo però immagino che interessi poche persone. Molte di più, invece, dovrebbero porsi la domanda del chi decida. Ecco che torniamo al trattamento finora riservato agli emigranti e, a ritroso, agli anni ’70 di Telemontecarlo, Svizzera e Capodistria. Certo, le partite sono state trasmesse su Tivusat. Come detto, altro ennesimo decoder, per altro finora introvabile,alla modica cifra di euro cento. Però così RAI e Mediaset si vedranno anche dove è impotente il digitale terrestre. Ma come? Non avevano detto che il digitale terrestre era la panacea delle zone difficoltose per l’analogico?

Qui, prima o poi, scatterà la fase cinque: anche la RAI solo a pagamento, niente più servizio pubblico. Pensa che siano miei vaneggiamenti? Considerate cosa avreste detto quattro anni fa se vi avessi detto che non avreste più visto RAI 2 e Rete 4 senza un decoder, Tivusat, Sky o terrestre che fosse.

E in Europa? Per ora, vediamo in chiaro, pur con tutti i criptaggi vessatori possibili e immaginabili, RAI 1, 2, 3 e i tre di Mediaset (della politica filo USA de La 7 e perciò di Telecom Italia abbiamo già detto). Quel che accadrà di qui alla fine dell’anno è una pagina ignominiosa di storia che dovremo ancora scrivere.

Una breve nota di colore a chiosa va spesa ricordando che Putin, capo del governo russo, a differenza del suo omologo italiano, non è preoccupato da presunti lettoni che gli vengono ascritti dai pennivendoli della penisola mediterranea. Preferisce pensare alla diffusione della televisione digitale, che è già una realtà nel 10% del territorio russo (stiamo parlando di un Paese con undici fusi orari). Diffusione, attenzione… gratuita. Forse non è chiaro: gratuita, repetita juvant. Sia via satellite che via cavo (che sarebbe il “digitale terrestre”: in Italia amano sempre complicare le cose). Il processo di digitalizzazione dovrebbe concludersi entro il 2015. Un processo “graduale, naturale, impercettibile e non oneroso per il consumatore”, ha detto Putin il 30 giugno 2009. “Finché il 95% della popolazione non avrà ricevuto i decoder e non avremo assicurato loro un segnale digitale stabile, proseguiremo anche con le trasmissioni analogiche”. Forse è sfuggito il concetto: i decoder dovranno essere “ricevuti”. Gratuitamente.

Quando leggo quel che scrivono i vari Dragosei (Corriere della Sera), Coen (Repubblica), Canciani e Cassieri (RAI) della Russia, sembra di leggere di una Russia da mondo parallelo, tipo Star Gate. Ebbene, essi ritengono di trovarsi nel Paese del socialismo reale, vedendone solo gli aspetti negativi. Socialismo reale decisamente no, i Coen e i Dragosei sono arrivati con quasi vent’anni di ritardo, ma indubbiamente questi sono elementi reali di socialismo. Che, personalmente, mi sento di condividere.

lunedì 10 agosto 2009

Furbetti della Pubblica Amministrazione

Immagino che tutti siamo soddisfatti, nell’apprendere che il sostituto procuratore di Potenza, John Woodcock, ha incriminato cinque dipendenti della Regione Basilicata di stanza a Roma per truffa e peculato.

In brevis, i carabinieri hanno pedinato e fotografato i cinque dal barbiere, mentre compravano pesce al mercato, durante lo shopping in un negozio di calzature. Tutto in orario d'ufficio, grazie alla timbratura dei cartellini magnetici «cui provvedeva il complice che a turno veniva investito dell'incombenza». E questa è la truffa: i contribuenti lucani, giova ricordarlo, sono i loro datori di lavoro, e gli pagano lo stipendio, loro malgrado, per andarsene a zonzo.

Poi c’è l'uso indebito delle utenze telefoniche dell'ufficio, che sarebbero state utilizzate «in modo assolutamente sistematico, ripetuto e continuativo, per chiamate personali e private pari ad oltre l'88% del complessivo ammontare delle bollette pagate dalla Regione Basilicata», che anche in questo caso è parte offesa. Insomma, scrivono gli investigatori, tutto «come in una sorta di phone center gratuito», aperto anche ad amici e parenti. E perfino all'addetto delle pulizie, la cui moglie avrebbe fatto «lunghe e costose» telefonate ai suoi in Sudamerica. In alcuni casi venivano fatte telefonate «mute» ai cellulari dei familiari, o al proprio, al solo scopo di ricaricare il credito telefonico. E questo è il peculato, per il quale vale quanto già espresso per la truffa.

Tutto bene, tutto sacrosanto. Ricordo però che la stessa cosa venne fatta da Andropov, ambasciatore sovietico nel 1954-1957 a Budapest e capo del KGB nel 1967-1982, quando, nel 1982-1984 (anno della sua morte), fu segretario del PCUS e perciò capo dello Stato. E qui, chissà perché, gli italiani di destra e di sinistra, e ovviamente i sovietici prima e i russi poi, non erano d’accordo.

Dunque, farlo in URSS o in Russia è antidemocratico, mentre farlo in Italia è segno di giustizia efficiente. Eppure, in Russia è ancor più giustificato, visto che è possibile fare la spesa a qualunque ora di qualunque giorno, a differenza di quanto accade in Italia, perché sono i negozi che debbono adattarsi alle esigenze dei consumatori, e non viceversa.

Va bene, mi si potrebbe obiettare, ma in URSS in quel periodo capitava di non trovare quanto occorreva, dai generi alimentari all’abbigliamento. La maggior parte delle retate in orario d’ufficio, tuttavia, venivano compiute… nei cinema. Un bene di consumo primario?

Insomma, sposo in pieno l’iniziativa di Woodcock. Vorrei solo sentire un minimo di autocritica italiana, che invece temo non sentirò mai.

mercoledì 29 luglio 2009

Saggezza, malattia senile del giovanilismo

La mia nota Giovanilismo, malattia infantile del riformismo ha sortito un insperato interesse. Mi pare tuttavia che i commenti siano permeati da un vizio di fondo: che, all'aumentare della speranza di vita media italiana ed occidentale, corrisponda una spalmatura più graduale della maturità e della saggezza. Questo giustificherebbe la maggiore immaturità dei quarantenni - quelli che Padoa Schioppa chiamava "bamboccioni" - ed il loro conseguente permanere più a lungo in famiglia. In ultima analisi, è questo il fine malcelato, legittimerebbe la canea smodata in favore dei (molto) sedicenti giovani del PD.

E' vero, la speranza di vita è aumentata: quando venne ucciso Giulio Cesare, con i suoi quaranta e qualcosa anni, egli veniva considerato un vecchio. Anche ai tempi di mio nonno, a sessant'anni si era vecchi. Oggi lo si è ad ottanta.

La vecchiaia, da sempre, è considerata sinonimo di saggezza. Saggezza, non intelligenza, non stiamo parlando di quest'ultima. Perciò, chi superava i quaranta ai tempi di Giulio Cesare, i sessanta a quelli di mio nonno, gli ottanta oggi, più che saggio, veniva e viene considerato rincoglionito.

Per spiegare quale secondo me sia l'errore di tale "dottrina", debbo ricorrere alla matematica. Facciamo che la saggezza sia 500. Secondo la logica che ho descritto, a quarant'anni Giulio Cesare era saggio al 100%, mio nonno al 67%, i quarantenni del PD al 50%. Già così, preferirei un D'Alema saggio al 75%.

Il fatto è che la saggezza, a mio modo di vedere, è un parametro incrementabile: 500 non è il massimo. Giulio Cesare a quarant'anni era arrivato a 500, ed è sempre a 500 che oggi a quarant'anni si può e si deve arrivare, per giungere tranquillamente a 1.000, raggiunti gli ottant'anni.

Secondo questo schema, i piombini dovrebbero aver raggiunto un coefficiente pari a 500, cioè al 50%. Invece no: l'ultima generazione politica, con le dovute esecrabili eccezioni, rispetta questa impostazione. I piombini, al contrario, annaspano a raggiungere le 250 unità. E' il 50% del ciclo di vita ai tempi di Giulio Cesare, ma hanno già la sua età, non vent'anni. Di questo passo, a ottant'anni sfioreranno a malapena le 500 unità. Sono fermi al 25% del potenziale.

Il 25% del potenziale ai tempi di Giulio Cesare si raggiungeva a dieci anni. Affidereste le sorti del vostro Partito a dei ragazzini delle medie?

martedì 28 luglio 2009

Lode all'ideologia

Da molti anni, ormai, e sempre più, quasi esponenzialmente, in questi ultimi quindici o vent’anni, insomma, da quando lor signori sono riusciti ad annichilire il PCI, che rappresentava più di un terzo del Paese, assistiamo ad una sorta di gara di tiro al piccione, dove il volatile, che, per definizione, tende ad eclissarsi, è, appunto, l’ideologia. Il bon ton imperante impone di infarcire qualsivoglia nostra espressione oratoria di abiura dell’ideologia e dell’ideologismo, e di palesare l’essere ideologico di chiunque non condivida una qualunque nostra posizione.

Questo perverso – e metodologicamente errato – meccanismo è trasversale, come si usa dire oggi, nel senso che coinvolge ogni pensiero, indipendentemente dal fatto se chi lo sfrutta sia di destra o di sinistra, conservatore o progressista, tradizionalista o modernista, moderato o innovatore, legittimista o rivoluzionario: se si è per la guerra, i pacifisti sono ideologici; se si è per la pace, i guerrafondai sono ideologici. Insomma, una parolaccia, una bestemmia, un’imprecazione.

L’ideologia, lo dice la parola stessa, è lo studio delle idee, cosa che come tale non solo non ha alcun carattere negativo, ma è anzi da perseguire come esercizio mentale. E’ però innegabile che l’obiettivo di chi sta diffondendo questa banalizzazione dello scontro politico, e non certo di quanti, proni ed inconsapevoli, la subiscono e contribuiscono a diffonderla, è quello di denigrare Marx, il marxismo ed i marxisti, coprendoli di vecchiume, polverosità, noia, inadeguatezza. I marxisti, in quanto tali, sarebbero inveterati, come, del resto, l’ideologia e tutto quel che vi è affine.

Indubbiamente, l’ebreo tedesco, filosofo ed economista, Karl Marx ha esso stesso attribuito un significato differente all’ideologia, legittimando, suo malgrado, l’operazione inversa di questo nostro inizio millennio. Cito la Piccola Treccani del 1995: complesso delle rappresentazioni, delle dottrine filosofiche, etiche, politiche, religiose, espressione (e giustificazione) di un determinato modo del porsi dei rapporti di produzione e quindi imposte dalla classe che questi rapporti rendono dominante. Come tale l’ideologia diviene elemento essenziale così dello studio sociologico come della polemica politica.

Se proprio si rendesse necessario usare definizioni nuove per esprimere concetti immutabili nel tempo (personalmente, non lo ritengo affatto necessario), possiamo chiamarle strati, ceti, censi, sempre classi rimangono, quella dei detentori dei mezzi di produzione e quella dei lavoratori salariati. E non avverto mutazioni rilevanti, in questo. Addirittura, stante l’involuzione oggettiva dell’Italia berlusconiana, si ritorna agli insiemi chiusi medievali predeterminati dalla nascita, ovviamente con alcune eccezioni, che però peraltro esistevano anche secoli fa. Sentiremo ancora parlare di Pier Silvio, anche dopo che Silvio sarà passato a miglior vita (per quanto, nel suo caso, difficilmente il dio in cui non credo potrà offrirgli qualcosa di meglio).

Insomma, detenere i mezzi di produzione e sfruttare coloro che producono non sarebbe ideologico; affermare l’esistenza di questo stato delle cose, invece, è ideologico e persino “ideologista” (neologismo peggiorativo che sta ad indicare un’esagerazione del valore dei principi astratti di un’ideologia).

Brevissima considerazione finale. Il correttore ortografico italiano di Word considera errato il lemma “Marx” (povero Groucho), mentre accetta il “marxismo” e i “marxisti”. Anche questo, evidentemente, è un segno dei tempi…

martedì 14 luglio 2009

Basta col pietismo piccoloborghese

Il caporalmaggiore Alessandro Di Lisio, ucciso oggi in Afghanistan, aveva un suo profilo Facebook. Sulla pagina del social network sono subito arrivati alcuni messaggi dei suoi amici. «Non sei tu, vero?????? Dimmi che c'è un altro Alessandro Di Lisio in Afghanistan!!!» scrive una ragazza ...

La Stampa, 14 luglio 2009, ore 13:50 italiane.

Chi semina vento... E' il prezzo da pagare: non ci sono mica militari di leva. Talvolta, da sbarbati, ammazzando gente innocente, donne, vecchi, bambini, si guadagnano un mucchio di soldi pagati in tasse da operai in cassa integrazione, disoccupati, precari, immigrati. Talaltra, ci si rimette la buccia. E' come alla roulette: se hai paura di perdere, non giocare...

Io di Napolitano non ne posso più fin dagli anni '70, quando gli gridavamo che fosse socialdemocratico. All'epoca era un'accusa tremenda. Non sapevamo che ora sarebbe un complimento, e francamente non me ne frega un cazzo. Sono stato troppo eufemista?

giovedì 2 luglio 2009

Giovanilismo, malattia infantile del riformismo

Cosa ne faranno, del PD e nel PD, per quanto mi riguarda personalmente, sono affari loro. Ciò non mi esime, tuttavia, dall'esprimere un'opinione, visto che da settimane è uno degli argomenti chiave d'apertura degli organi d'informazione italiani.

Io ho sempre condiviso la massima di Francesco Guccini del 1978, secondo la quale a vent'anni si sia stupidi davvero, persino quando ero io, ad avere vent'anni, figuriamoci adesso che mi avvicino al mezzo secolo.

Quello che (mi) fa arrabbiare, è che oltretutto i cosiddetti giovani del PD non sono affatto giovani: Zingaretti è stato il mio ultimo segretario della FGCI Romana, e siamo all'inizio degli anni '80, un quarto di secolo fa. La Serracchiani va per i quaranta. Scalfarotto, che quando faceva il verde accusò Pecoraro Scanio di essere vecchio (una colpa?), ha 44 anni, appena sei meno del citato Pecoraro Scanio. Eccetera. Ma dell'istrione Scalfarotto, in particolare, avevo già parlato quattro anni fa, nel mio Scalfarotto? Non scherziamo.

Nel 1917, la Rivoluzione d'Ottobre la fecero Trockij, che aveva 38 anni, Dzeržinskij (40), Stalin (38), Kamenev (34), Zinov'ev (34), Bucharin (29), Sverdlov (32), Antonov-Ovseenko (34). Il più vecchio era Lenin, che di anni ne aveva 47, la mia attuale età.

Tra gli italiani, nel 1921, a Livorno, il Partito Comunista d'Italia venne fondato da Gramsci, trentenne, Bordiga (32), Togliatti (28), Grieco (28), Di Vittorio (29), Longo (21), Secchia (18), Misiano (37), Terracini (26), Tasca (29), Pastore (34).

Quello che voglio dire è che, a dar retta ai richiami al nuovo e al giovanilismo, questi giovinotti italici sono già abbondantemente âgés, senza aver combinato alcunché degno di nota. Fra cinquant'anni, difficilmente qualcuno li ricorderà ancora.

Mi è capitato, tempo fa, di discutere, qui a Mosca, con una ex compagna di università di mia moglie, nemmeno trentenne. Parlava per frasi fatte, una di queste era "il passato non esiste, conta solo il presente". Le risposi anch'io con una massima, l'unica che potesse comprendere: chi non ha passato, non ha futuro.

mercoledì 17 giugno 2009

Che palle l'arancione

La mia prima reazione interiore ai disordini susseguitisi dopo le elezioni in Iran, è stata: ci risiamo, con le rivoluzioni arancioni finanziate dalla CIA. E, a differenza di trent'anni fa, non c'è più nel mondo (in Italia di sicuro) una sinistra pronta a contrastarlo, proni ora con Obama, prima con Clinton (vedi Jugoslavia).

Poi mi sono detto che forse no. Moussavi non è un novellino: era capo del governo proprio con Ahmadinejad (che non può starmi simpatico a prescindere, essendo io contrario ad ogni commistione tra Stato e chiesa), ed è stato quello che ha iniziato le ricerche per fare le bombe all'uranio arricchito. Dunque, checché ne dicano i pennivendoli italici proni, trattasi meramente di un regolamento di conti tra i potentati di quel Paese, e non vedo alcuna ragione (ne vedo eccome) per cui gli organi di informazione di massa della Penisola si debbano schierare.

Poi però mi sono ricordato che anche Saakašvili, sfigato avvocato del foro di Nuova York, era ministro con Ševardnadze. E mi sono anche ricordato che la moglie di Juščenko ha la cittadinanza statunitense.

Il gruppo L'Espresso-Repubblica, in Italia contro quel pagliaccio vanesio che è Berlusconi, è russofobo e filoyankee. La 7, in Italia contro quel pagliaccio vanesio che è Berlusconi, da qualche mese non trasmette più in chiaro in Europa (e in Russia), ma solo negli Stati Uniti. RAI Italia, spesso non filo Berlusconi in Italia, parla solo degli emigranti italiani in America, nonostante che iscritti all'AIRE (e dunque con diritto di voto) ci siano circa un milione e mezzo nelle Americhe e limitrofi e due milioni e mezzo in Europa ed Asia.

E' vero: l'Occidente avrebbe meno problemi a parlare con Moussavi, di quanti ne abbia a parlare con Ahmadinejad. Ma siamo nuovamente alla rivoluzione arancione.

Saakašvili ha fatto un golpe e adesso tratta gli oppositori come veniva trattato lui da golpista. Juščenko ha fatto un golpe e adesso tratta gli oppositori come veniva trattato lui da golpista. Se prevarrà Moussavi, accadrà la stessa cosa. In fondo, il golpe in URSS del 1991 e quello del 1993 di El'cin in Russia sono state le prove generali, come la pseudo rivolta contro Milošević. Perché certe regole, presentate come paradiso della democrazia, valgono solo finquando non intaccano gli amici dei nostri amici...

lunedì 8 giugno 2009

Le colpe sono sempre altrui

Il PCL, col suo 0,54% (che, se ricordo bene, è un prefisso telefonico della bassa Emilia Romagna, tipo Massalombarda, Lugo, Castel Bolognese), non avrebbe spostato nulla.

Il PCI rimproverava PdUP, DP, LC, NSU, AO di disperdere voti, ed era una gran cazzata, come è una cazzata quella del PD di lanciare queste accuse ai comunisti, e dei comunisti a SL e PCL: ciascuno deve poter votare quel che più gli è vicino, senza ricatti, e se non ti vota, evidentemente non l'hai convinto.

Persino SL, col suo 3,1%, se togliamo i Verdi, non conta un cazzo.

Parliamo di numeri: dopo che si è sciolto il PCI, i Verdi avevano il 2,8%, e Rifondazione il 5,6% (il PDS il 16,1%, meno della metà del PCI).

Rifondazione nel '96 arrivò all'8,6%, poi ci ha pensato Bertinotti a massacrarla: così, nel '99, è scesa al 4,3%, ma il PdCI ha racimolato appena il 2%.

Prima di Genova, nel 2001 il PRC era al 5%, il PdCI appena all'1,7%.

Nel 2006, dopo 5 anni berlusconiani la sinistra diede un minimo (risicatissimo) di speranza di invertire la tendenza col 5,8% al PRC e il 2,1% al PdCI.

Insomma, PRC+Verdi nel 1992 all'8,4%, PRC+PdCI+SL+PCL oggi al 7%.

E stiamo parlando, tra l'altro, di poco più di due milioni di voti.

Partiamo da qui, nel fare critiche ed autocritiche.

sabato 6 giugno 2009

Campagna non per tutti

Stamattina alle vostre cinque del mattino su RAI 1 una bella intervista con Andreotti. Dopo avergli chiesto cosa pensa della mafia (come chiedere a Pacciani cosa pensa della topa), gli hanno chiesto un'opinione sui respingimenti. In soldoni, "qualcosa bisognava pur fare". A seguire, dopo Andreotti, uno spot sull'appena 15% di donne in Parlamento in Europa, a fronte del 52% di donne nella popolazione UE. Unica eccezione, guardacaso, l'Italia, con le sue ministre e le giovani candidate del PDL. Ma la campagna elettorale non era finita ieri? Malizioso?

mercoledì 27 maggio 2009

Elettorando

Purtroppo, si vede poco. Mi è arrivata oggi. Spedita il 16 maggio. Complimenti per la tempestività di arrivo, delle Poste (di entrambi i Paesi), e soprattutto di spedizione del Comune di Milano (ai miei conterranei residenti come me a Mosca provenienti da Genova, per dire, è arrivata da settimane).

Quello che è importante, è quel che ci propongono. Per le elezioni nazionali, a noi, italiani residenti all'estero, ci fanno votare per corrispondenza. Per le Europee e Comunali (e Provinciali e Regionali), a noi, italiani residenti in Paesi extra-UE, ci chiedono di rientrare in Patria.

Guardate bene il riquadro in basso a sinistra: con agevolazioni sul prezzo del biglietto... ferroviario.

Il biglietto aereo andata e ritorno da Mosca costa circa 300 €, quello ferroviario non saprei, ma ne costerà altrettanti e ci mette tre giorni (l'aereo tre ore). Se poi vuoi partecipare all'eventuale ballottaggio, tanto vale che resti lì per le successive due settimane. Aggiungiamo due settimane di albergo (se uno è emigrato, è emigrato per fame, difficilmente ha conservato un'abitazione nel suo luogo di origine, e non parliamo di quelli che sono emigrati in altri continenti). Togliamo anche un mese di stipendio, per chi lavora fisso (ma anche per chi, come me, è lavoratore autonomo). A spanne, stiamo parlando complessivamente di almeno 5.000 (cinquemila) euro.

Non veniteci a dire che bisogna togliere il voto agli italiani all'estero, che tanto non vengono a votare ed il voto ce l'ha dato il fascista Tremaglia: avete un debito con noi, e state cercando infinite scuse per mettervi a posto la vostra sporca coscienza.

martedì 19 maggio 2009

Riflessioni politiche d'inizio millennio

Il tanto vituperato Gaber ad un certo punto (e siamo nel 1978) disse che, se fosse stato dio, si sarebbe ritirato in campagna.

La Bindi e Franceschini sono persone degnissime, probabilmente il meglio che avrebbe potuto esprimere la DC (non scherzo), e se per tempo avessero dato a loro la gestione la DC, quest'ultima non solo ci sarebbe ancora, ma sarebbe altra cosa da quel che è stata.

Lo dico da ateo e da comunista.

Con i se e i ma non si fa la storia.

Questa nuova DC che è il PD mi piace, mi piace sul serio.

Li vorrei come alleati o addirittura come avversari, anziché avere per nemici i fascisti delle libertà.

Non vorrei mai appartenere allo stesso Partito della Binetti, della Bindi e di Franceschini.

sabato 25 aprile 2009

Il mio 25 aprile

Se cliccate su questa immagine, ci trovate la storia di mio nonno. La storia della mia famiglia, la trovate qui; la mia, qui. In quegli anni, mi cucivo da solo sull'occhiello di una giacca sempre troppo grande (dismessa da qualche parente, non da mio padre, che, maniacalmente, si infilava a forza quelle dismesse da me) una coccarda rossa, sempre la stessa. Ero orgoglioso di scendere di casa e sentirmi addosso gli occhi stupiti della portiera, dei vicini, del barista. Ero orgoglioso di arrivare in Piazza San Giovanni e vedere gli sguardi stizziti dei "coccardari", quelli che vendevano le coccarde con uno spillo ("usa e getta", si direbbe oggi) a 100 lire. Soprattutto, ero orgoglioso di passare dal mio quartiere fascista di Piazza Tuscolo, attraversando le mura Aureliane, costeggiando largo Brindisi, dove prima che nascessi c'era l'osteria comunista di mio nonno, alla Piazza rossa di bandiere di San Giovanni, che vedevo già dalle finestre di casa, mentre riecheggiavano a tutto volume l'Inno dei lavoratori, l'Internazionale, Bandiera rossa e Bella ciao, e di ritornare a conclusione della manifestazione. Per un giorno, quel giorno, nessuno poteva osare di dirmi qualcosa. La sera tardi, ormai 2 maggio, tagliavo accuratamente i fili e riponevo con affetto la mia coccarda in un cassetto.

venerdì 3 aprile 2009

Un'alternativa vo' cercando...

Franceschini esclude l'ingresso nel gruppo dei socialisti europei: "Cercheremo di costruire un luogo alternativo per le forze progressiste".

E' per questo che io non sono mai stato e non potrò mai essere un buon politico, rimanendo la politica, indipendentemente dalla contingenza contemporanea, l'arte del possibile fin dai tempi della dittatura greca: non mi interessava la gente rimasta delusa da Mussolini convertitasi alla democrazia; non mi interessa che sempre più gente resti delusa da Berlusconi; non mi interesseranno gli ex PCI che resteranno delusi dal PD. Io sono sempre stato, sono e resterò sempre la loro cattiva coscienza, giacché del "l'avevo detto io" me ne sono sempre strafregato: la vita è adesso, non ho davanti il sol dell'avvenire come mio nonno. Non capirò mai piazza Venezia piena, non capirò mai trent'anni di Democrazia Cristiana, non capirò mai lo scioglimento del PCI, non capirò mai il voto degli italiani del '94 dopo Tangentopoli. E' anche per questo (non solo) che non sono più in Italia.

lunedì 16 marzo 2009

Federazione Giovanile Democratica (Cristiana?) Italiana

E così sarà, e così non poteva che essere, glielo dicevo fin dal 1991.

Ora che il PD, con Franceschini e Prodi, sarà giustamente e sacrosantamente sempre più sinistra DC illuminata e progressista, dove andranno avanti Rutelli e Parisi, che fine faranno i D’Alema, i Fassino, i Bersani, insomma tutta la dirigenza FGCI degli anni '70? Andranno a far compagnia a Veltroni in Africa? E chissenefrega.

Ma dove andranno i tanti ex militanti del PCI che hanno accettato di farsi democristianizzare dal PCI al PDS, dal PDS ai DS, dai DS al PD? Ancora in Emilia a fare le salamelle ai festival dell’Unità?

Com’è che si chiama adesso? Festa Democratica? E di qui a breve, un’idea un sacco originale: Festa Popolare! Vedrete se non ho ragione. Solo che il “Popolo”, era l’organo ufficiale della DC.

Bello, questo passaggio: da “Festa dell’Unità” a “Festa del Popolo”. All’epoca della DC, almeno, si chiamava “Festa dell’Amicizia”, ma il PD è più avanti, molto più avanti.

sabato 7 marzo 2009

Traductum aliquid in linguam russicam

Chiedo scusa ad Aulo Gellio per la parafrasi forzata.

Leggo sulla versione in rete de "La Stampa" di Torino del 6 marzo 2009 che, nel corso dell'incontro a Ginevra, Hillary Clinton ha regalato a Sergej Lavrov un simbolico bottone di «reset», come auspicio di un felice rilancio delle relazioni bilaterali, dopo le tensioni seguite alla crisi in Georgia della scorsa estate. [...] La Clinton non si è però accorta che la traduzione russa di «reset» stampata sul bottone, «peregruzka», era sbagliata. Lavrov sorridendo ha fatto notare l’errore: «Avete sbagliato», ha detto il ministro russo, spiegando che la parola scelta dagli americani in realtà significa «overloaded» o «overcharged» (sovraccarico).

La traduzione giusta sarebbe «перезагрузка» (perezagruzka).

E' nota la massima nient'affatto lusinghiera «traduttore traditore», manco fossero ancora i tempi di Felipillo. Quel che sembra non dico sconvolgente, ma comunque inspiegabile, è che, persino ai massimi livelli, gli statunitensi si permettano pericolose superficialità, confinanti, rasenti e provocanti sciatteria.

Qui non è colpa di un presunto e sedicente traduttore, ma di chi lo ha assunto, senza verificarne le referenze, magari nell'intento di risparmiare delle briciole laddove si trattava di tradurre delle enormità. Nell'epoca del dumping, è lecito infrangere qualunque regola.

Eppure, l'Accordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio (il GATT, ed ancor più il GATS, l'Accordo generale sul commercio di servizi, ai quali si estendono i principi del GATT), mette in guardia in maniera inequivocabile: «le vendite in dumping sono [...] capaci di determinare perturbazioni anche importanti sul mercato [...] e di attribuire un vantaggio di base all'impresa [...] nei confronti degli altri soggetti [...] che operano nel mercato [...] per lo stesso bene o servizio».

Insomma, negli Stati Uniti, come nella Federazione Russa, come in Italia, stiamo assistendo ad una corsa all'arrembaggio, tra interpreti disonesti (e, talvolta, come in questo caso, dilettanti allo sbaraglio) e datori furbetti intenti a risparmiare pochi euro (o dollari, o rubli, o qualunque altra valuta), salvo poi rimetterci l'osso del collo, ovvero mandare ramengo importanti affari che avrebbero fruttato ricavi con diversi zeri.

Nel caso del reset, Lavrov è una persona intelligente, spiritosa e soprattutto che conosce alla perfezione l'inglese (ed anche il francese ed il singalese). Eppure, penso sia chiaro a tutti quale significato e sfumatura neanche tanto velata si sarebbe potuto attribuire a quel «sovraccarico». Sarà bene pensarci, la prossima volta che un traduttore offrirà tariffe «che non si possono rifiutare».

giovedì 26 febbraio 2009

Una birra antirazzista

Questa la possono capire solo i bimadrelingua come me, o coloro che vivono i matrimoni misti. Per non farmi sentire da mia figlia, che io continuo a sospettare che intuisca poco l'italiano ed invece mi frega, ed in realtà ciò mi rende orgoglioso, stasera ho detto in italiano anziché in russo a Katja, mia moglie: mentre la metti a dormire, io mi faccio una birra in camera nostra. Vera, nostra figlia, tiene botta e mi chiede in russo: ты сделаешь пиво? Letteralmente: ti "fai" una birra? Già, perché in russo si dice "ti bevi una birra", nel senso che, effettivamente, la birra non me la faccio: me la bevo. Mi ricorda molto me stesso, circa 45 anni fa. Speriamo che diventi bilingue: vorrebbe dire che anch'io, qualcosa di buono, nella vita, sono riuscito a combinarla. Nessun bilingue madrelingua potrà mai essere razzista, per antonomasia, per similitudine, per raffronto, per ragionamento, per raziocinio. Vuol dire già molto, con i tempi che corrono... C'è qualche speranza, per il futuro delle nuove generazioni? O sono solo eccezioni che confermano la regola, una regola da aborrire?

martedì 17 febbraio 2009

Sardegna, un passo avanti, due indietro

Lo so che i miei affezionati ed esigui lettori oggi avranno voglia di vedere se dico qualcosa del voto regionale sardo. Non mi esimo, anche se, ovviamente, ciò non era in cima ai miei pensieri. Fino alle elezioni politiche dell’aprile 2008 mi veniva da sposare un estratto da un monologo di Giorgio Gaber:

Adesso… adesso non c’è più il 50% a destra e il 50% a sinistra. C’è il 50% al centro-destra e il 50% al centro-sinistra. Oppure un 50 virgola talmente poco… che basta che uno abbia la diarrea che salta il governo. Non c’è niente da fare. Sembra proprio che il popolo italiano non voglia essere governato. E ha ragione. Ha paura che se vincono troppo quelli di là, viene fuori una dittatura di Sinistra. Se vincono troppo quegli altri, viene fuori una dittatura di Destra. La dittatura di Centro invece... quella gli va bene. Auguri!!!

Invece, qualcosa è effettivamente cambiato. Intanto come dicevo giusto l’altro giorno, loro sono coesi, il centrosinistra no. Un dato importante che però si evince, a caldo, è che, analogamente al voto del Lazio, l’uomo fa la differenza: passa Zingaretti alla Provincia e non passa Rutelli al Comune, con una differenza di ben 50.000 voti. In Sardegna, Soru si attesta sul 43%, mentre i Partiti della sua coalizione raggiungono appena il 39%. In voti, 125 mila in meno. Viceversa, Cappellacci registra un 52%, i suoi Partiti il 57%. Ed in voti, invece, i suoi Partiti hanno preso 85 mila in meno. Cioè, per chiunque uno abbia votato, c’è una marea di gente che ha votato l’uomo, ma ha votato per tutt’altro Partito.

Vediamole, queste coalizioni. Vediamo come era andata appena un anno fa, sempre in Sardegna, alle politiche. Il centrodestra aveva il 50% (491 mila voti) ed ha il 56% (370 mila voti). Il centrosinistra aveva il 45% (440 mila voti) ed ha il 39% (255 mila voti). E vediamo i Partiti. Il PDL passa dal 42 al 31%, ma l’UDC passa dal 6 al 10%. In compenso, il PD passa dal 36 al 24%, l’IDV dal 4 al 5% e le schegge sedicenti sinistre dal 4 al 9%.

Insomma, al di là dell’inveire sul popolo ebete mediasettizzato, nel centrosinistra dovrebbero riflettere di più su chi e cosa propongono. Continuano, questi ultimi, a sbracciarsi da anni, decenni, a voler dimostrare di non essere diversi, terrorizzati dall’idea di poter essere accusati di essere comunisti, ed i comunisti dall’idea di poter essere accusati di veterostalinismo. Ma se non sono diversi, perché uno dovrebbe votare loro, dilettanti, anziché gli altri, professionisti del malcostume? Guardate che questa la dico fin da quando, a Milano, il candidato del centrosinistra era Nando Dalla Chiesa (un sindaco con i baffi…), tutto teso, al Circolo della Stampa di Corso Venezia, a dimostrare di non essere comunista. All’epoca, chiesi a Rifondazione, a cui ero allora iscritto – a Rifondazione, mica al PDS-DS – chi avesse deciso di presentare quel candidato. Mi si disse che se ne parla dopo le elezioni. Dopo la sconfitta, appunto, chiesi di riparlarne, volevo la testa di quei mirabili geni della politica. Mi si rispose di non rivangare il passato.

Negli ultimi quindici anni, nessuna lezione è stata appresa. Ecco perché non andrà diversamente né alle prossime Europee, né alle varie consultazioni successive.

sabato 14 febbraio 2009

Le ragioni di Berlusconi

Devo ammetterlo: stavolta sono d'accordo con lui. Stasera diceva che mai un governo della storia repubblicana italiana è stato coeso come il suo.

Va beh, esagera come suo solito. Però è uno dei più coesi, su questo non c'è dubbio: ve lo immaginate, con 'sta crisi, se il governo Prodi non fosse caduto su Ceppaloni? Sarebbe stata una corsa a saltare sul carro berlusconiano, a chi fa prima.

E' questa la ragione per cui non è che gli indecisi, quelli in bilico, votino Berlusconi perché gli piace più di tanto; è che nessuno propone qualcosa di credibile, di migliore. Di migliore non rispetto a una cosa buona, no, appunto, rispetto a Berlusconi, ma certo che se queste sono le alternative...

Parlo degli indecisi proprio perché quelli convinti, come me da una parte e, immagino, come molti dalla parte opposta, voteranno in un certo modo fino a crepare. Totale, 49,9% a testa, per cui, come diceva Gaber, chiunque vada al governo, basta che a un deputato gli venga un attacco di diarrea e casca il governo.

Paradossalmente, è la minoranza degli indecisi a decidere, altro che democrazia. Che poi, 49,9% si fa per dire: parliamo dei voti validi.

In Italia, ci sono 59 milioni di residenti. Togliamo i minorenni. Restano 49 milioni. Togliamo quelli che non hanno votato. Restano 36 milioni di voti validi. Togliamo quelli che non hanno superato lo sbarramento. Rimangono 32 milioni di elettori reali. Di questi ultimi, 17 milioni su 32 fanno il bello e il cattivo tempo. Mezzo secolo fa questa si chiamava "Legge truffa", ma lasciamo perdere.

Fatto sta che 17 milioni decidono su 59, ammesso che i 17 milioni si rendano conto di quel che fa una decina di migliaia di potentati. Meno di un terzo, il 29%, per la precisione. E se avesse vinto la cosiddetta opposizione, tutta preoccupata degli equilibri interni? Non tra i Partiti della singola coalizione, quello è scontato, in quei 16 milioni: ma proprio nei teocon di Veltroni e Rutelli, che sono 12 milioni, contro i 14 di Berlusconi e Fini (gli altri 3 sono di Bossi e Lombardo).

E' il risultato del maggioritario. Che è perfettamente utile ai padroni, ma masochista per chi fosse, non dico di sinistra, ma un atomo meno di destra di Berlusconi. E' questo, il nodo da sciogliere. Fino ad allora, non c'è nessun programma da discutere, nobile o ignobile che sia.

venerdì 13 febbraio 2009

Ricordi di un comunista italiano 2

di Graziano Zappi "Mirco"

1951, Berlino Est. Il Festival Mondiale della Gioventù

Seduto davanti alla scrivania, guardo il soffitto e rivedo le sequenze delle giornate del Festival Mondiale della Gioventù. «August, im August, in Berlin», cantavamo a squarciagola. Era il 1951. In Agosto.

Le immagini si susseguono. Dalla memoria al soffitto, e poi nella mente che guida la penna che scrive. Come fosse un video proiettato sullo schermo. Ma allora non c’era il televisore e non c’erano le videocassette.

Eravamo partiti dall’Italia in duemila. Almeno così si diceva. In alcune centinaia dall’Emilia Romagna, in parecchie decine da Bologna. Era un riconoscimento generale che la delegazione italiana fosse la più numerosa di tutte quelle presenti al Festival. L’Organizzazione era di competenza dell’Alleanza Giovanile, ma il «nocciolo duro» era costituito dalla FGCI, cioè dalla Gioventù Comunista.

A Bologna salimmo sulle vecchie carrozze ferroviarie del tempo e ci ammassammo alla rinfusa sopra e sotto i sedili, sui portapacchi e nei corridoi. Giovani e ragazze. E cantavamo.

Canzoni partigiane e canzoni popolari. E il treno sferragliava verso la meta col suo tarantantan.

Da Venezia a Trieste e poi… finalmente a Tarvisio, alla frontiera fra l’Italia e l’Austria.

Presentammo i passaporti. Il controllo della polizia italiana fu accuratissimo. I passaporti vennero ritirati e riconsegnati alcune ore dopo. Al Ministero degli Interni c’era allora l’onorevole Mario Scelba. Il Festival Mondiale della Gioventù era considerato un’iniziativa comunista, quindi filosovietica, quindi sovversiva. A scrivere i nomi e i cognomi e gli indirizzi di tutti noi, avranno faticato parecchio.

Poi il treno si mosse… E ci sembrò di respirare un’aria diversa, più libera. L’Austria era allora un territorio militarmente occupato e suddiviso in quattro parti. Ognuna di esse era amministrata da una delle quattro potenze della vittoriosa coalizione antinazista: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e URSS. A Vienna, la capitale, c’era una Amministrazione militare quadripartita e la città era stata suddivisa in quattro zone. Noi arrivammo di sera. Il nostro treno si arrestò nella zona sovietica. Giovani austriaci ci rifocillarono con cibo e bevande e ci accompagnarono nei luoghi di pernottamento. Scuole e caserme, pagliericci sul pavimento e coperte militari.

Ripartimmo il giorno seguente. Gli autobus s’arrestarono per un attimo in una piazza dove su un alto piedistallo stava un carro armato sovietico fuori uso. Era il monumento ai combattenti sovietici caduti per la liberazione di Vienna dall’oppressore nazifascista. Per le strade c’era molta gente in uniforme. Erano le uniformi degli eserciti vincitori. E a noi l’Organizzazione aveva dato una direttiva: Ordine e Disciplina, evitare le provocazioni!

Il treno ci attendeva in una Stazione controllata dai militari sovietici. Nell’ammirare la Stella Rossa con Falce e Martello che spiccava sui loro copricapi, il cuore ci batteva forte.

Il treno partì e si mosse in direzione della Cecoslovacchia. La frontiera l’attraversammo di notte e non ce ne accorgemmo perché non ci furono controlli. Tutte le pratiche vennero sbrigate dall’Organizzazione. Noi di Bologna eravamo affidati a Nello Adelmi, Dante Stefani e Giorgio Mingardi dirigenti della FGCI.

La Cecoslovacchia ci salutò di primo mattino: brevi soste nelle principali stazioni di transito, bandiere svolazzanti sugli edifici, orchestre che suonavano, giovani e ragazze che ci offrivano panini e sidro di mele. Poi la frontiera con la Germania.

Ecco, ora stavamo attraversando il territorio della disastrata Germania, condotta da Hitler nel baratro della guerra, causa di lutti e rovine nel mondo, sconvolta dalla sconfitta militare. Tante e tante città distrutte dai bombardamenti dell’aviazione e dalle cannonate dei carri armati. E tanti tanti morti.

A Berlino giungemmo di pomeriggio. Anche qui esisteva un’Amministrazione Militare quadripartita ma la città era suddivisa in sole due parti. Berlino Ovest era controllata dalle tre potenze occidentali mentre Berlino Est era sotto il controllo sovietico. Non c’era ancora il Muro.

Sarebbe stato costruito molto più tardi, nell’Agosto 1961, e sarebbe crollato ancora più tardi, nel 1989. Noi fummo ospitati naturalmente a Berlino Est che fungeva da capitale dell’appena nata Repubblica Democratica Tedesca. Era qui che si sarebbe svolto il Festival.

L’Organizzazione diede la direttiva di non andare assolutamente a Berlino Ovest per non incorrere in provocazioni, e di attenersi scrupolosamente alle disposizioni della Direzione della delegazione italiana facente capo alla Direzione Generale del Festival situata sulla Alexander Platz. La gestione del soggiorno era affidata alla Ef.De.Jot, la Freie Deutsche Jugend, la Libera Gioventù Tedesca. Noi bolognesi fummo sistemati nei locali di una Scuola, dove dormivamo su brande militari in una decina per aula, e dove c’erano le mense.

Siccome noi bolognesi eravamo giunti con un certo anticipo, venimmo utilizzati per le incombenze del momento, e cioè per accogliere festosamente le delegazioni in arrivo alla Ostbahnhof, la Stazione Ferroviaria di Berlino Est. Emozionante fu l’arrivo del treno della delegazione del Komsomol sovietico. Col fiato sospeso ammirammo il locomotore che aveva sul muso una Stella Rossa con Falce e Martello fra due bandiere rosse incrociate. Era un treno di tutte carrozze letto, con le tendi­ne bianche abbassate sui finestrini. Un’orchestra intonò le note dell’inno sovietico e dalla prima carrozza scesero i dirigenti.

Candidamente vestiti in bianco-pallide uniformi, vennero sommersi da mazzi di fiori offerti dalle ragazze della Ef.De.Jot. Era un omaggio ai «Fratelli Maggiori». Il treno si svuotò lentamente.

E noi bolognesi cambiammo piattaforma per accogliere un treno più modesto che recava alcune delegazioni africane: giovani negri vestiti nei loro costumi tribali, dal volto sorridente e di timidissimo approccio.

Poi cominciarono le giornate del Festival, che furono quindici, tutte ricolme e stracolme di iniziative che fecero conoscere a me e a tutti i presenti il volto nuovo dei giovani progressisti del mondo intero.

Si cominciò con un’interminabile parata nelle vie di quel che restava della città semidistrutta dalla guerra. Ogni rappresentanza nazionale sfilava con le proprie bandiere e i propri slogan. Ma c’erano parole comuni che tutti pronunciavano in tedesco: FRIEDEN e FREUND-SHAFT, cioè Pace e Amicizia. I gruppi più inquadrati erano quelli della Repubblica Democratica Tedesca, del Komsomol sovietico e delle Democrazie popolari dell’Europa Orientale. Mancava la Jugoslavia del Maresciallo Tito che era in polemica con Stalin. Applauditissima la delegazione della nuova Cina di Mao Tze Tung. Per l’Occidente le delegazioni più folte erano quelle dell’Italia e della Francia. Anche l’Africa, l’Asia, l’America del Nord e quella del Sud erano rappresentate, chi più e chi meno. La sfilata terminò in un immenso stadio dove ebbe luogo l’inaugurazione ufficiale con discorsi, lancio di palloncini colorati, voli di colombe.

E poi seguirono, giorno dopo giorno, i concerti, gli spettacoli teatrali, le proiezioni cinematografiche, le gare sportive, gli incontri. Si correva di qua e di là dal mattino alla sera per vedere, ascoltare, partecipare.

L’Organizzazione affiggeva nell’albo murale della scuola il calendario delle iniziative d’obbligo. Talvolta scoppiava qualche diverbio a proposito della disciplina. Gli emiliani criticavano i romani che non sottostavano alle prescrizioni organizzative, e i romani reagivano accusando gli emiliani di tendenze militariste.

I tedeschi della Ef.De.Jot invece accusavano indifferentemente gli italiani di «anarchismo» senza fare distinzioni regionali. «Voi italiani siete troppo indisciplinati, non farete mai il socialismo», esclamò una volta un compagno della SED, il Partito Socialista Unificato Tedesco, stizzito perché non osservavamo gli orari prestabiliti.

Io mi permisi di ribattere che il fascista Benito Mussolini l’avevamo giustiziato noi stessi mentre i tedeschi avevano avuto bisogno dell’Armata Rossa per farla finita col nazista Adolf Hitler.

È vero che qualcuno infranse la direttiva di non recarsi a Berlino Ovest e si permise di andare a vedere come si viveva dall’altra parte. C’era una metropolitana che collegava «i due mondi» e bastava salire su uno dei vagoni. I più curiosi lo fecero ma io no. Mi limitai a trasgredire le disposizioni assentandomi da qualche incontro fra le delegazioni per muovermi per conto mio in giro per la città. Mi attiravano soprattutto gli spettacoli dei giovani dell’URSS, il «Paese della Pace e del Socialismo», e mi incuriosivano le culture dei popoli africani e di quelli sudamericani. Dello sport non mi curavo. Non ne avevo la passione. Una volta sola mi recai in uno stadio perché bisognava «tifare» per l’atletica italiana, ma me la svignai quasi subito per gironzolare di qua e di là.

Accanto a un camion scorsi un tipo con addosso l’uniforme dell’Armata Rossa. Volevo conversare con lui ma non sapevo una parola di russo. Conoscevo soltanto le parole mir (pace) e družba (amicizia) e le dissi, ma quello se ne rimase amorfo squadrandomi dal basso in alto come per dire: «Ma questo qui che vuole da me?». Mi venne allora un’idea «brillante». Ero sicuro che avrebbe reagito entusiasticamente. E pronunciai con enfasi la parola: STALIN! Quello non batté ciglio. Mi volse le spalle e se ne andò senza pronunciare una sillaba.

Al Centro Stampa, sull’Alexander Platz, incontrai spesso Sandro Curzi, futuro direttore del TG3 e poi del giornale «Liberazione», Giovanni Berlinguer, futuro senatore, Gillo Pontecorvo, futuro regista cinematografico, Sandro Paternostro, futura star della TV.

Alla manifestazione principale sulla Marx-Engels Platz c’eravamo tutti. Era di domenica. Ci fecero alzare alla cinque del mattino per agghindarci e raggiungere il punto prefissato in una larghissima strada chiamata Leninallee. Per tenerci su fisicamente ci fu consegnato un sacchetto con pomodori e pastiglie di saccarina. Il corteo si mosse alle ore otto. Dalla via Leninallee ci istradarono sulla Via Stalinallee. Attraversammo la Alexander Platz, superammo il Rathaus, cioè il Municipio, e percorremmo la Unter den Linden, il Viale dei Tigli. Alla Marx-Engels Platz giungemmo alle ore undici esatte. Sul palco erano schierate le autorità della Repubblica Democratica Tedesca e i dirigenti della Federazione Mondiale della Gioventù e dell’Unione Internazionale Studenti. Si distinguevano tra loro il famoso generale sovietico Čujkov con il petto ricoperto da medaglie, che nel maggio ‘45 era giunto per primo coi suoi carri armati nella capitale del Terzo Reich; il segretario generale del Komsomol Michajlov, poi scomparso dalla scena politica sovietica nell’epoca di Chruščëv; il presidente Wilhelm Pieck; il primo ministro Otto Grotewohl; il leader della SED Walter Ulbricht, che nel 1961 decise la costruzione del Muro fra le due Berlino; e il dirigente della Libera Gioventù Tedesca Erich Honecker, che nel 1989 avrebbe assistito in veste di primo ministro alla distruzione dello stesso Muro. Naturalmente, usando un binocolo, si sarebbe potuto scorgere sul palco anche la esile figura dell’italiano Enrico Berlinguer, presidente della Federazione Mondiale della Gioventù Democratica. Attorno al palco erano ben visibili le rovine degli edifici sventrati dalle bombe, dalle cannonate e dagli incendi.

Ci furono molti discorsi di saluto e s’andò avanti parecchio tempo. Quattro ore! Di tanto in tanto un giovane o una ragazza s’afflosciavano a terra non reggendo alla stanchezza… e alla fame.

Il servizio di soccorso era perfetto. Agilissimi portantini in camice bianco intersecavano la folla sventolando le bianche bandierine con la croce rossa. Gli svenuti venivano messi sulle barelle e portati a un Pronto Soccorso situato sotto la cupola nerastra della vecchia cattedrale che s’ergeva sulla riva del fiume Sprea.

Indimenticabile fu il congedo dal Festival e da Berlino Est. L’ultima notte, sulla Alexander Platz illuminata dalle migliaia e migliaia di fiaccole strette nei nostri pugni, noi, giovani d’ogni parte del mondo, di pelle bianca, gialla, nera, o di colore frammisto, giurammo di non farci mai la guerra, di vivere tra noi in pace, in amicizia, in libertà.

Enrico Berlinguer pronunciò, frase dopo frase in lingua italiana, il «Giuramento per la Pace e l’Amicizia», ed ogni frase veniva tradotta in tedesco, russo, inglese, francese, spagnolo. Ed alla fine, ognuno nella propria lingua, tutti noi gridammo per tre volte: lo giuro! Seguirono le note dell’inno mondiale della gioventù, e lo cantammo tutti, ognuno nella propria lingua. Il Festival era terminato.

Intraprendemmo la via del ritorno, la stessa dell’andata. La sorpresa l’avemmo tra la frontiera dell’Austria e quella di casa nostra, dell’Italia. Al momento di rientrare in patria, i doganieri, quelli nostri, cioè italiani, si mostrarono zelantissimi, fiscalissimi come non mai. Su ogni binocolo, su ogni quadretto o statuetta, su ogni dono ricevuto, su ogni quisquilia, applicavano rigorosissimi, salatissimi dazi. Molti di noi abbandonarono gli oggetti non avendo di che pagare.

L’ordine era giunto da Roma. Era la penale da pagare per avere osato recarci in un paese dell’Est per prender parte ad una manifestazione internazionale di giovani che avevano giurato di voler vivere tra loro in pace ed amicizia. La cortina di ferro era stata oramai innalzata, la guerra fredda divideva il mondo, e i suoi veleni ammorbavano le relazioni umane.

1952. Al lavoro. L’Agit-Prop.

Nell’autunno del 1952 venni convocato all’Ufficio Quadri e mi fu proposto un incarico nella Commissione Stampa e Propaganda di Federazione. Accettai. Avevo trascorso quattro anni nel settore della formazione quadri, alla Scuola di partito e alla Scuola per sindacalisti e cooperatori.

Oramai bastava. Occorreva misurarsi nell’attività politica diretta. Pensai che l’Agit-Prop, com’era allora denominato, probabilmente secondo una terminologia di derivazione sovietica, il nostro lavoro nel settore della propaganda, fosse attinente alle mie inclinazioni. D’altronde, un funzionario di partito, com’ero ormai diventato, doveva andare dove il Partito lo chiamava.

Stando ai canoni leninisti, per agitazione si intendeva l’azione propagandistica che doveva far leva sul malcontento dei vari strati dei lavoratori sfruttati per indirizzarli alla lotta su determinate rivendicazioni socioeconomiche, mentre la propaganda aveva contenuti connessi alla lotta politica di più ampio respiro. Ad un gradino più elevato c’era poi l’azione ideologica, che doveva far leva sulla coscienza di classe e promuovere le alleanze politiche per la conquista del potere.

A quei tempi l’apparato Agit-Prop della Federazione di Bologna era così strutturato: il responsabile Lino Montanari, di origine contadina, proveniente dalle organizzazioni sindacali, era membro della segreteria federale, e indirizzava e coordinava i vari settori di lavoro attenendosi rigorosamente alle indicazioni del segretario federale Enrico Bonazzi, del quale era stato un fidato collaboratore quando questi dirigeva la Federterra.

Alla «propaganda scritta» c’era il sottoscritto, studente universitario, che doveva occuparsi, previa indicazione ed approvazione della segreteria federale, della stesura e della realizzazione tipografica di manifesti e volantini presso la C.T.O. di Via Solferino e di opuscoli presso la S.T.E.B.

La «propaganda orale» era di competenza di Eoliano Gnudi, di origine operaia, che annotava tutte le richieste di comizi, conferenze e dibat­titi impegnando gli oratori del caso.

Alla nostra Commissione faceva capo il CDS (Centro Diffusione Stampa) diretto da Bruno Bassi, di origine operaia, che curava la diffusio­ne di «Vie Nuove», «Rinascita», «Quaderno dell’Attivista», «Il Calendario del Popolo», «La Lotta», oltre che la distribuzione di volantini, opuscoli e manifesti.

La diffusione de «l’Unità» era invece di competenza dell’Associazione Amici de l’Unità, diretta da Bruno Drusilli, di origine operaia, la quale promuoveva lo strillonaggio domenicale, incentivava gli abbonamenti, stimolava la crescita dei diffusori volontari, teneva i rapporti con le edicole.

Tra i compiti della Commissione vi sarebbe stato anche il collegamento con le redazioni di «La Lotta» e de «l’Unità», ma era un’impresa difficile da realizzare. Il direttore di «La Lotta», Giuseppe Brini, un operaio di fabbrica che aveva imparato dalla scrittrice Renata Vigano a scrivere non solo articoli ma anche racconti e poesie, si rapportava direttamente con la segreteria federale, mentre il direttore della redazione bolognese de «l’Unità», Giosuè Ravaioli, esperto giornalista di professione, si riteneva subalterno esclusivamente al direttore de «l’Unità» di Milano. Alle riunioni della Commissione venivano naturalmente invitati anche i responsabili di «Stampa e Propaganda» delle cosiddette «cinghie di trasmissione» e cioè delle «organizzazioni di massa», come il sindacato, il movimento cooperativo, l’UDI.

Nel periodo in cui rimasi all’Agit-Prop, a tali compiti istitutivi si aggiunse la promozione di una Associazione Radioascoltatori Italiani (ARI), il cui scopo doveva essere quello di protestare contro il monopolio radiofonico democristiano e contro la faziosità anticomunista delle radiotrasmissioni. Ricordo in proposito un «fallo» da me commesso, che fece ridere chi se ne accorse.

Il conferenziere invitato all’assemblea costitutiva di tale Associazione era il noto giornalista-scrittore italiano Tommaso Smith, poi divenuto direttore di «Paese Sera». Ebbene, sul manifesto affisso nelle sezioni comuniste e nei CRAL io avevo scritto che avrebbe parlato «Adamo Smith», cioè il teorico dell’economia liberale inglese. L’economia politica studiata e insegnata alla Scuola «Anselmo Marabini» si era intrufolata nella mia testa causando il «lapsus».

Tommaso Smith si fece una bella risata e volle portarsi a Roma una copia del manifesto come ricordo.

Non era d’altronde la prima volta che sbagliavo il nome di un oratore. M’era già accaduto quand’ero segretario della sezione comunista di Bubano. A tenere un comizio doveva venire da Bologna il generale Zani. Da Imola mi avevano comunicato solo il cognome non conoscendone il nome. Ed io il nome lo inventai, cercando che fosse consono ad un generale. Scrissi perciò sul manifesto: «Parlerà il generale Sigismondo Zani». E invece si chiamava semplicemente «Francesco Zani».

Un altro settore affidato alle nostre cure, e precisamente alla «propaganda scritta», era quello della promozione e del controllo dei «giornali di fabbrica» sorti in molte delle maggiori fabbriche bolognesi. Io tenevo i necessari contatti e organizzavo le riunioni dei capiredattori per favorire lo scambio delle esperienze e concordare l’orientamento politico. Cercavo anche di stimolare il contatto fra i redattori dei giornali di fabbrica e i giornalisti de «La lotta» e de «l’Unità».

I temi della nostra propaganda erano quelli della pace, del lavoro, della libertà, della giustizia. La guerra fredda fra il campo socialista e il campo capitalista nel mondo aveva avuto conseguenze in ambito nazionale con la cacciata delle sinistre dal governo. Noi addossavamo la responsabilità della guerra fredda all’imperialismo angloamericano ed eravamo schierati a favore dell’Unione Sovietica, «baluardo della pace e del socialismo nel mondo». Condannavamo la politica estera di Churchill e di Truman ed esaltavamo la politica estera di Stalin. Fummo quindi contrari alla politica del ricatto atomico, all’intervento statunitense in Corea, alla creazione della CED, dell’UEO, della NATO. Esaltavamo le iniziative del Movimento dei partigiani della pace, quali l’Appello di Stoccolma, l’Appello di Berlino e la Conferenza di Bandung. Sul piano nazionale la nostra propaganda si muoveva sostanzialmente secondo le linee dell’elaborazione togliattiana della «democrazia progressiva», che sfociò poi nella «via italiana al socialismo» e successivamente nella «via democratica e pacifica al socialismo».

Nel sostenere le rivendicazioni degli operai e dei braccianti per il lavoro e migliori salari, nel protestare contro le violenze della «Celere» scelbiana, cui veniva ordinato di caricare e sparare contro i braccianti che occupavano le terre incolte, o contro gli operai che scioperavano opponendosi ai licenziamenti, nel difendere le libertà politiche e civili spesso colpite dai divieti imposti dalle autorità a manifestazioni di piazza o a pubbliche affissioni di manifesti, noi ci richiamavamo sempre ai diritti sanciti nella Costituzione repubblicana, frutto dell’unità delle forze antifasciste e resistenziali.

Oltre ad impegnarci su queste tematiche noi dell’Agit-Prop dovevamo occuparci pure delle campagne fissate nel calendario di ogni annata politica. Il 21 gennaio si ricordava l’importanza storica della nascita del PCI a Livorno nel 1921. Il 25 aprile si illustrava il valore del contributo dei comunisti in sacrifici e sangue all’Antifascismo e alla Resistenza. Il 7 novembre si valorizzava il significato della Rivoluzione d’ottobre, del sistema socialista mondiale e della solidarietà internazionale antimperialista.

Impegni indifferibili erano altresì le campagne annuali del tesseramento al Partito e del mese della stampa comunista, scandito dalle Feste de «l’Unità» che si protraevano da luglio a settembre.

E naturalmente l’Agit-Prop era in primo piano durante le campagne elettorali. Tali momenti mobilitavano i compagni in conferenze e dibattiti e comizi, e spesso su loro richiesta occorreva fornire gli «schemi» o le «scalette» di appunti per facilitarli nella loro preparazione.

Tali «schemi» venivano compilati secondo un ordine ben preciso: il quadro internazionale, l’attualità italiana, la polemica con gli avversari, le posizioni del PCI.

La vita dei funzionari di partito e delle organizzazioni di sinistra era a quei tempi ricolma di impegni diurni e serali senza distinzione tra giorni feriali e giorni festivi. Si correva sempre per riunioni in città e in provincia.

Di tanto in tanto c’erano riunioni a Roma. Per le trasferte vigeva la costante raccomandazione dell’amministrazione di contenere al massimo le spese di trasporto, di vitto, di alloggio. E noi si ubbidiva. «Bisogna risparmiare i soldi che provengono dai lavoratori», ci rammentava di continuo l’amministratore Giorgio Bonetti. Anche gli stipendi erano allora bassissimi, sotto i livelli dei salari operai. E noi trovavamo che fosse giusto così. C’era chi aveva consumato la propria giovinezza in carcere o aveva sacrificato la propria vita per la causa. Noi non potevamo dunque lamentarci.

Per recarmi a Roma io prendevo un treno dell’una o delle due di notte, dormivo in cuccetta, giungevo a Roma verso le sette o le otto del mattino, mi recavo alla riunione nel palazzo di Via Botteghe Oscure e alla sera ripartivo senza la cuccetta per Bologna, dove arrivavo di notte. Al mattino correvo al lavoro in Via Barberia. Eravamo giovani, eravamo entusiasti, sicuri di costruire un mondo nuovo, di libertà, di giustizia, di eguaglianza, di dignità umana. Se per caso la riunione a Roma durava due o tre giorni, allora sceglievamo una pensione a buon mercato. Ne ricordo una dalle parti del Colosseo in una stradina affollata di gatti. La vecchia padrona ci mostrava una stanzetta con tre letti appiccicati l’uno all’altro e il gabinetto in fondo a un lunghissimo corridoio. Io, il compagno di Modena e il compagno di Reggio Emilia ci coricavamo senza osare controllare se le lenzuola erano o no pulite perché temevamo il contrario. Ci addormentavamo rimuginando su quanto avremmo dovuto dire nelle riunioni alle quali prendevano parte i dirigenti: Giancarlo Pajetta e Mario Alicata.

Fu durante una di quelle riunioni a Roma che il compagno Mattioli dell’Agit-Prop di Modena mi accennò a cosiddette «discrepanze» fra Antonio Roasio, segretario regionale del PCI, e Giuseppe Dozza, sindaco di Bologna. Sembra che Roasio rimproverasse a Dozza un eccessivo «bolognesismo» e un’eccessiva autonomia dal Partito. Mattioli avrebbe appreso tali voci da Vincenzo Galletti, che a sua volta le avrebbe apprese da Giuseppe D’Alema, ambedue allora collaboratori del Comitato Regionale. A Bologna, io riferii di tali voci a Lino Montanari, mio responsabile, e la mattina seguente fui chiamato in segreteria al cospetto del segretario federale Enrico Bonazzi, che mi disse di mettere tutto per iscritto «se-du-ta-stan-te».

Mi porse un foglietto. E io non potei far altro che scrivere «quelle voci» su quel foglietto. Il segretario lo prese, lo lesse, aprì un cassetto della scrivania e ve lo depose. Nel congedarmi mi sussurrò: «Queste voci non van ripetute a nessun altro». Non aggiunse altro e io me ne uscii.

Con Bonazzi era difficile avere conversazioni a cuore aperto. Pochi compagni, che io ricordi, avevano l’ardire di sostenere pubblicamente idee diverse dalle sue. Tra questi c’erano Paolo Fortunati, docente universitario, l’economista Renato Cenerini, assessore al bilancio del Comune di Bologna, Giuseppe Gabelli, professore di filosofia, e anche Gianni Bottonelli, figura prestigiosa della Resistenza bolognese, capace con la sua oratoria di avvincere il pubblico dei suoi comizi per la durata di tre o quattro ore. Verso costoro Bonazzi mostrava una certa deferenza. Lui era un autodidatta mentre loro erano intellettuali solidamente inseriti nel mondo della cultura ufficiale. Ma verso i semplici compagni dell’apparato Bonazzi non era solitamente molto affabile. Ricordo un suo scatto d’ira nei confronti di Giancarlo Negretti, responsabile, durante una campagna elettorale, della distribuzione del materiale propagandistico alle organizzazioni di base.

Una spedizione di manifesti e volantini non era stata fatta in modo tempestivo e Bonazzi s’infuriò. «Chi commette tali manchevolezze – gridò – o è un cretino o fa il gioco dell’avversario, e a noi non servono né l’uno né l’altro». E se ne uscì dalla stanza del Centro Diffusione Stampa lasciando Giancarlo Negretti esterrefatto e sconsolato. Dopo pochi giorni le cose si aggiustarono e le relazioni tra Bonazzi e Negretti si «rinormalizzarono» con una tazzina di caffè al «Bar dell’Angolo».

Ma tali «scoppi d’ira» non potevano non lasciare un segno sul malcapitato del momento. Del resto, anche se non si può dire che fosse molto amato, Bonazzi era molto rispettato, e veniva «perdonato» per le sue spigolosità caratteriali. Era considerato un uomo tutto d’un pezzo, un incorruttibile. Proveniva da Sala Bolognese, dov’era nato nel 1912. S’era fermato alla quinta elementare e faceva il calzolaio. Arrestato nel 1935, era stato condannato dal Tribunale Speciale a vent’anni di galera «per attività comunista». Aveva trascorso dieci anni nelle carceri fasciste e non s’era mai piegato, s’era formato una cultura alla «Università del carcere», leggendo libri di giorno e di notte. Aveva acquisito, si può dire col sudore della fronte, la capacità di scrivere articoli e di parlare in pubblico. Ed era d’esempio su come coltivare «il legame con la base». Per lui esisteva unicamente il Partito, ed asseriva che al Partito necessitava sacrificare tutto: l’amore, la famiglia, il tempo libero.

A quei tempi i «rivoluzionari di professione», quali noi ci consideravamo, ragionavano come lui.

Io, per esempio, a un compagno più giovane che mi chiedeva quali fossero per me i beni più preziosi, risposi: «il Partito, la mia biblioteca, la famiglia, in questo ordine!» Per esaltare l’inossidabile tempra della personalità di Bonazzi noi citavamo il lunghissimo sciopero dei coloni della Bassa Bolognese, che lui aveva diretto come segretario della Federterra. Le mucche nelle stalle erano ridotte allo sfinimento per la mancanza di nutrizione ed era penosissimo ascoltare i loro muggiti da fame. Ma alla fine fu l’Associazione degli Agrari Bolognesi a cedere e a piegare la testa.

1953. La morte di Stalin e la «Legge truffa»

Del periodo in cui rimasi a lavorare all’Agit-Prop ricordo in particolare l’impegno profuso in occasione della morte di Stalin, avvenuta nel marzo 1953, che suscitò tanta emozione in noi comunisti e che fu motivo di cordoglio degli esponenti degli altri partiti antifascisti.

Sulle nostre sedi comparvero le bandiere rosse abbrunate e in numerose sezioni si tennero commemorazioni. Noi dell’Agit-Prop allestimmo nell’atrio dell’Università Popolare, sotto il portico di via dei Musei, nel centro di Bologna, una camera ardente simbolica con un grande ritratto di Stalin listato a lutto, contornato da drappi e fiori rossi con accanto un tavolo su cui c’era un grosso album sul quale apporre frasi di condoglianza e firme. Firmarono anche molti non comunisti poiché gli riconoscevano il merito d’aver contribuito in maniera decisiva alla sconfitta del nazifascismo. Inviammo poi il grosso album all’ambasciata dell’Unione Sovietica a Roma quale testimonianza dell’affetto del popolo bolognese per il grande Stalin. Ai piedi del catafalco si ammucchiarono molte corone e molti mazzi di garofani rossi recati da singoli cittadini e da varie organizzazioni. Della delegazione del PCI presente ai funerali di Stalin a Mosca fece parte, con Palmiro Togliatti e Giorgio Amendola, anche il sindaco Giuseppe Dozza. In rappresentanza del PSI vi era Pietro Nenni. Insieme ascoltarono sulla Piazza Rossa i discorsi di congedo da Stalin pronunciati da Malenkov, Molotov e Berija.

La commemorazione ufficiale presso il comitato federale e poi in apertura del congresso della Federazione comunista fu tenuta al ritorno da Mosca da Giuseppe Dozza. Il discorso commemorativo nel Consiglio comunale di Bologna fu pronunciato da Enrico Bonazzi, segretario della Federazione comunista, che disse tra l’altro: «Si è spenta nel mondo una grande luce. La vita di un gigante del pensiero e dell’azione umana è cessata. Il nome di quest’uomo è Giuseppe Stalin. Un’epoca storica, quella attuale della trasformazione socialista della società umana, porta il suo nome. Un uomo della statura di Stalin, prima di appartenere ad un partito, appartiene all’intera umanità». L’ho ripreso dal resoconto pubblicato su «La Lotta», il settimanale della Federazione comunista bolognese.

Per noi dell’Agit-Prop il dolore per la morte di Stalin, «discepolo e continuatore dell’opera di Lenin», fu sincero e profondo, ma non poté durare a lungo. Davanti a noi si presentava l’impegnativa, decisiva battaglia delle elezioni del 7 giugno 1953 per il rinnovo del parlamento della Repubblica italiana.

La Democrazia Cristiana, con l’appoggio di PSDI, PLI e PRI, aveva approvato una legge elettorale maggioritaria, da noi battezzata «legge truffa», mediante la quale un gruppo di liste apparentate che avesse ottenuto il 50% più uno dei voti avrebbe ricevuto i due terzi degli eletti. Era il cosiddetto premio di maggioranza che avrebbe dovuto garantire la governabilità.

La campagna elettorale fu accesissima. Gli elettori furono inondati da manifesti, opuscoli, volantini. I comizi, le conferenze, i dibattiti si tennero in numero incalcolabile. La televisione era stata inventata da poco e il possesso di un televisore era ancora una rarità. Il confronto avveniva nelle piazze, nelle sale cinematografiche e teatrali, nei cortili delle case, nei crocevia delle strade, nelle visite casa per casa. E ognuno portava le proprie argomentazioni. I democristiani amavano attaccarci denunciando l’assenza di libertà nei paesi governati dai comunisti. Un «Comitato Civico» diretto dal presidente dell’Azione Cattolica, Luigi Gedda, organizzava nelle città italiane le «Mostre dell’Aldilà», che ammonivano gli elettori a non trasferire in Italia le forche di Praga, le Chiese del Silenzio, i lavori forzati, cioè a non trasferire l’«Aldilà» comunista nell’«Aldiquà» democratico e cristiano. Il clero scese massicciamente in campagna elettorale a favore della DC, facendo perno sulla «scomunica» decretata il 15 luglio 1949 da Papa Pio XII contro i comunisti. E come era già accaduto nella precedente campagna elettorale del 18 aprile 1948, anche stavolta scesero in campo nella crociata anticomunista diversi «microfoni di Dio», come il gesuita Padre Lombardi, e qua e là ci furono Madonne che lacrimavano o muovevano gli occhi. Noi ribattevamo denunciando la mancanza di lavoro e di libertà in Italia, stigmatizzando la corruzione di certi governanti italiani da noi ridicolizzati con il nomignolo di «forchettoni». Fu così che accanto ai manifesti democristiani con le «forche» noi affiggevamo i nostri manifesti con le «forchette».

Io girai l’intera provincia, nei giorni feriali e festivi, impegnato in riunioni, comizi, contradditori, per lo più in pianura e qualche volta in città e in montagna. Nel nostro argomentare rientrava la denuncia della «legge truffa» come copia di quella «legge Acerbo» che aveva assicurato la vittoria del fascismo nelle elezioni del 1924. Se fosse scattata, il voto di un elettore vincente avrebbe pesato nel futuro Parlamento per il 75 per cento mentre il voto di un elettore perdente solo per il 25 per cento. Era anticostituzionale. E con una maggioranza dei due terzi si sarebbe potuto modificare la stessa Costituzione repubblicana fondata su valori democratici e antifascisti.

I dibattiti erano affollatissimi. Il pubblico seguiva con passione le ragioni dei sostenitori e degli avversari di quella legge. Ricordo un contraddittorio che ebbi nel teatro di Minerbio con l’onorevole Anselmo Martoni, sindaco socialdemocratico di Molinella. Il teatro era stracolmo.

C’erano delle regole da rispettare come in un incontro di pugilato. Il presidente concesse venti minuti a testa per l’introduzione, poi seguirono delle riprese di dieci minuti e quindi di cinque minuti.

Il pubblico rumoreggiava chi a favore e chi contro. Poi ci furono gli interventi della platea.

Avevamo iniziato alle ore venti. A mezzanotte il presidente-giudice di gara ci fece concludere assegnando cinque minuti a ciascuno. Alla fine i compagni si dissero soddisfatti perché erano convinti che il match l’avevamo vinto noi.

A Baricella invece le cose si svolsero diversamente. Ero stato nella frazione Boschi a tenere una riunione di giovani col solito motorino Ducati della Federazione Giovanile Comunista. Al ritorno, poco prima di mezzanotte, passai per il centro di Baricella. C’era un comizio dell’onorevole Luigi Preti, ministro socialdemocratico. Mi fermai ad ascoltare e poi salii le scale del palazzo comunale sul cui balcone stava l’oratore. Chiesi la parola, e il ministro, gentilissimo, accondiscese. Ci scambiammo alcune battute. Il pubblico era composto in maggioranza da elettori socialdemocratici. Molti applausi quindi per Preti, ma anche per me ci furono grida d’approvazione da parte dei compagni accorsi dal vicino Circolo CRAL. Alla fine, sulla piazza antistante il Comune, io e Luigi Preti ci salutammo stringendoci la mano. Lui partì in direzione di Ferrara su una grossa auto ministeriale guidata da un elegantissimo autista, mentre io inforcai il mio Ducatino per rientrare a Bologna. I compagni mi salutarono con grandi pacche sulle spalle: «La ragione l’abbiamo noi, si vede dal mezzo di trasporto. Lui, il ministro, su un macchinone di lusso, e tu su un misero motorino. Si vede da qui chi sta coi padroni e chi sta coi lavoratori. E poi quelli si dicono socialisti democratici?!».

Forse l’argomentazione dei compagni di Baricella non era molto valida ma ogni idea era buona se colpiva l’avversario.

In un contraddittorio a Pieve di Cento, ad esempio, l’oratore democristiano, l’avvocato Alberto Alberti, che era consigliere comunale a Bologna, riscosse l’ovazione del suo pubblico quando, per dimostrare che noi comunisti italiani eravamo al servizio di Mosca, pronunciò con enfasi queste parole: «Lo dimostra anche il fatto che l’oratore comunista qui presente si chiama Mirco, che è un nome russo». Non valse a nulla che io spiegassi che io mi chiamavo Graziano, che Mirco era un nome non russo ma jugoslavo, e che era il mio nome di battaglia da partigiano. Lui controbatté: «Ma Lei che mi va raccontando. Sul manifesto c’è scritto Mirco e non Graziano. Che il nome sia jugoslavo e non russo non importa. E’ sempre un nome d’oltrecortina, no?». E riscosse l’applauso dei suoi.

Man mano che ci si avvicinava al giorno delle votazioni l’atmosfera dei dibattiti si riscaldava sempre più. A Mordano mi scontrai con l’onorevole Giovanni Elkan della Direzione Nazionale della DC. Cominciammo parlando della legge elettorale e del perché votare per l’uno o per l’altro, ma poi il «nocciolo della polemica» si spostò. Elkan cominciò a parlare delle forche di Praga e della ferocia comunista, sia di quella dell’aldilà e sia di quella dell’aldiquà, e ricordò un fatto di sangue accaduto nel novembre ‘48 a San Giovanni in Persiceto: l’uccisione, da parte dei rossi, del sindacalista cattolico Giuseppe Fanin. Ed io controbattei ricordando il bracciante Loredano Bizzarri ucciso da un agrario e la mondina Maria Margotti uccisa dalla polizia di Scelba nel 1949. E proseguimmo così con gli animi accesi.

Accesi sì, ma non tanto come una sera a Portonuovo di Medicina. Il comizio l’avevo tenuto io. Alla fine si avvicinò al palco un frate e chiese la parola. Acconsentii. Si chiamava Padre Toschi. Faceva parte dei cosiddetti «Frati Volanti» che con il beneplacito del Cardinale Lercaro, trasferito da poco da Ravenna a Bologna, avevano scatenato una «sacrosanta crociata contro il comunismo» per sconfiggere « il demone bolscevico» in Bologna città e nei dintorni.

Il frate iniziò il suo irruento eloquio ricordando che noi comunisti eravamo degli scomunicati, che chi avesse votato per noi sarebbe incorso nella medesima sanzione, poi fece un excursus storico sulle malefatte dei bolscevichi: le monache violentate dai rossi in terra di Spagna, le Chiese incendiate o trasformate in granai in terra di Russia, i preti messi in carcere nell’Europa dell’Est, i crimini commessi dai partigiani comunisti nel «triangolo della morte» in Emilia Romagna. Additandomi alla folla, Padre Toschi terminò così il suo discorso: «Non votate per costoro che hanno le mani sporche di sangue!» Sembrava un Torquemada. Io ero esterrefatto, il pubblico sembrava agghiacciato da tanta violenza verbale. Io mi stavo avviando lentamente al microfono rimuginando mentalmente su come reagire, quando un secondo «frate volante» s’avvicinò al palco facendo un segno al confratello. Padre Toschi scese lestamente dal palco e lo seguì. Se ne andarono senza una parola di congedo. «Ecco – dissi allora io al microfono – guardate Padre Toschi che se ne va di soppiatto senza neppure salutare. Lui ha la coscienza sporca. Io invece ho le mani pulite». E le mostrai. Il pubblico, che era nostro, scoppiò in uno scroscio di applausi. Me l’ero dunque cavata. Proseguii parlando della legge truffa e di come votare.

La domenica successiva volli prendermi una rivincita e mi recai al Cinema Centrale di Bologna in via Rizzoli dove c’era un comizio democristiano. Dalla sala lanciai alcune interruzioni polemiche sul tipo di quelle famose lanciate dall’onorevole comunista Giancarlo Pajetta a Montecitorio contro i colleghi democristiani. Il mattino seguente, in Via Barberia, Enrico Bonazzi, che sapeva già tutto, mi apostrofò: «Tu devi controllarti maggiormente, noi non siamo dei “frati volanti”, e tu non eri a Montecitorio».

Passarono gli anni ed anche i «frati volanti» scomparvero. Sul soglio pontificio salì Papa Giovanni XXIII. Il sindaco comunista Giuseppe Dozza si recò alla stazione ferroviaria a porgere l’omaggio della città al Cardinale Giacomo Lercaro che rientrava dal Concilio Ecumenico Vaticano Secondo. Padre Toschi si dedicò alla musica d’organo, a composizione ed esecuzione. Recentemente s’è impegnato nel promuovere soggiorni estivi al mare per i bambini di Černobyl’. L’ho incontrato recentemente e non abbiamo parlato di quei «giorni di ferro e di fuoco».

Ma torniamo alla campagna elettorale del 7 giugno 1953. Molto più tranquillo fu un comizio che tenni a Granaglione, un feudo democristiano nell’Alto Appennino bolognese. I compagni del luogo mi caricarono su un’auto sormontata dall’altoparlante e mi condussero sul sagrato della Chiesa. Era domenica, l’ora della Messa. «Tu comincia a parlare quando la gente comincia ad uscire di Chiesa», mi dissero i compagni. Ed è così che feci, ma la gente che usciva di chiesa non si fermava sul sagrato e proseguiva il suo cammino. Era l’ora del pranzo. Perché perdere tempo ad ascoltare un comunista? Il parroco aveva già spiegato dall’altare «per chi, perché e come votare». Io mi limitai a lanciare alcuni slogan, alla svelta.

L’ultimo dibattito sulla «legge truffa» lo tenni in città al Cinema Vittoria del Ponte vecchio.

Avevo come contraddittore l’avvocato Pietro Crocioni, esponente del PSDI, che qualche anno dopo sarebbe passato al PSI divenendo vice sindaco di Bologna. Eravamo ormai tutti stanchi, noi di dibattere e gli elettori di ascoltare. Chi era lì c’era per «spirito di partito». Ricapitolammo i termini della campagna elettorale, con reciproco rispetto. E ci congedammo cordialmente.

Qualche giorno dopo, il 7 giugno, il popolo italiano depositò le proprie schede nelle urne. Noi oppositori della «legge truffa» ottenemmo la vittoria anche se di stretta misura. Alle liste apparentate, DC, PSDI, PLI, PRI, mancarono pochi voti per raggiungere il 50% più uno. La legge truffa non passò.

Quell’anno, il Mese della Stampa comunista si tenne all’insegna di un grande lutto e di un grande successo: la morte di Stalin e la sconfitta della legge truffa. All’ultimo momento ci accorgemmo che in quell’anno Palmiro Togliatti compiva i sessant’anni e allora decidemmo di celebrare anche quella ricorrenza: era il nostro Capo.

I tre eventi furono al centro delle migliaia e migliaia di Feste de l’Unità che si tennero nell’Italia intera. E naturalmente Bologna fu come sempre d’esempio.

Conservo «i provini» di un dettagliato servizio fotografico realizzato dal bravissimo fotoreporter Enrico Pasquali, d’origine medicinese, al festival provinciale de «l’Unità» del settembre 1953, l’ultimo che l’autorità prefettizia ci consentì di tenere ai Giardini Margherita. Sul portale d’ingresso, sotto la testata de «l’Unità», stava scritto: «L’Italia ha vinto. I truffatori respinti». La parata degli Amici de «l’Unità» fu aperta dal gruppo dirigente del PCI. Allineati in prima fila c’erano: Enrico Bonazzi segretario federale, Claudio Melloni organizzatore, Giuseppe Dozza sindaco, Antonio Roasio segretario regionale, il professore Paolo Fortunati senatore, Leonildo Tarozzi deputato, Gianni Bottonelli presidente dell’ANPI, Agostino Ottani dirigente della Federcoop, Onorato Malaguti segretario della Camera del Lavoro. Nel lunghissimo corteo che attraversò le vie del centro cittadino ci furono anche un grande cartello che riproduceva la copertina del primo volume delle «Opere Complete» di Giuseppe Stalin, portato a spalla dagli allievi della Scuola Centrale Quadri «Anselmo Marabini», due gigantografie su vetro a specchio realizzate dai compagni della Cooperativa Vetrai, una di Stalin e una di Togliatti, un enorme stemma dell’URSS e una piattaforma sorretta da sei robusti giovanotti sulla quale, accanto al frontespizio della Costituzione italiana, c’era una bellissima ragazza che sventolava il tricolore. Dalla palazzina dei Giardini Margherita presero la parola Dozza e Bonazzi.

Sui frontoni dei numerosi stand, fra le scritte inneggianti alla pace, al progresso, alla libertà, alle lotte operaie, al movimento cooperativo, campeggiavano anche le seguenti: «Il nome immortale di Stalin vivrà per sempre nel cuore dell’umanità amante della pace e del progresso», «Avanti nel nome e sotto la guida di Togliatti per la pace, l’indipendenza e l’avvenire d’Italia!».

1954-1955. Segretario delI’Italia-URSS

Fu nel 1954 che nel «percorso» della mia vita si verificò la «svolta» che mi avrebbe fatto muovere i passi nel campo delle relazioni italo – sovietiche. La Segreteria della Federazione comunista decise di assegnarmi l’incarico di Segretario dell’Associazione Italia-URSS di Bologna.

Non è che l’URSS non fosse stata nel mio cuore anche in precedenza. Come tutti i comunisti di quegli anni, anch’io tenevo lo sguardo rivolto verso la terra della rivoluzione d’ottobre, la patria di Lenin e di Stalin, dove brillava «il sole dell’avvenire».

Il nostro «mal di Russia» affondava le radici nei sentimenti di speranza nutriti dai vecchi antifascisti per la «patria del socialismo». In piena dittatura fascista avevo letto i «viva Lenin» e «viva Stalin» scritti di notte in vernice rossa da mani anonime sui muri screpolati del borgo natio.

Durante la guerra avevo colto il doloroso sospiro di chi ascoltava di nascosto le notizie di Radio Londra sull’avanzata dei nazisti verso Mosca e Leningrado.

«Il passato non può sconfiggere l’avvenire» – bisbigliava il capo dell’organizzazione comunista clandestina locale. E poi avevo scorto la gioia negli occhi di chi bisbigliava d’aver appreso che l’Armata Rossa aveva vinto a Stalingrado.

Ecco, il mio «mal di Russia» proveniva di lì. Fra le mie prime letture giovanili c’erano stati questi libri: «Guerra e Pace» di Lev Tolstoj, «Umiliati e offesi» di Fëdor Dostoevskij, «La Madre», « La Spia» e « Nelle carceri russe» di Maksim Gor’kij.

Durante la guerra partigiana, nelle formazioni dell’Appennino o della Bassa Imolese, il tema del «lontano ma vicino paese dove regnavano la libertà dal bisogno, la giustizia sociale e l’uguaglianza» era stato sempre presente nelle conversazioni che l’anziano «commissario politico» intratteneva con i giovani «garibaldini» che portavano la stella rossa sul berretto ed amavano cantare «Fischia il vento» e «Attraverso valli e monti» su motivi musicali di derivazione russa.

Nel dopoguerra infine, anch’io, come gli altri comunisti, avevo condiviso quella che molto più tardi sarebbe stata chiamata «la doppia linea togliattiana»: la democrazia progressiva come via italiana al socialismo e l’internazionalismo proletario, al cui centro era l’Unione Sovietica come baluardo di pace contro l’imperialismo e come sostegno delle lotte di liberazione dei popoli oppressi.

Alla Scuola di Partito avevo letto le principali opere di Lenin: «Che fare», «Stato e Rivoluzione», «L’imperialismo fase suprema del capitalismo», «L’estremismo malattia infantile del comunismo», contenute nei due volumi rilegati in blu di complessive pagine 1.596 pubblicati dalle Edizioni in lingue estere di Mosca nel 1947-1948. Ed avevo letto naturalmente gli articoli e i discorsi di Stalin contenuti nel volume rilegato in rosso di complessive pagine 664 pubblicato sempre dalle Edizioni in lingue estere di Mosca nel 1946. E non avevo certo omesso di studiare la «Storia del P.C.b. dell’URSS» contenuta nel volume rilegato in grigio pubblicato sempre dalle Edizioni in Lingue Estere di Mosca nel 1949, e considerato allora una specie di Vangelo per i comunisti del mondo intero.

Alla Scuola di Partito avevo anche tenuto qualche lezione sul sistema politico ed economico sovietico «che aveva liquidato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo socializzando la proprietà dei mezzi di produzione» e che dopo aver attuato il principio socialista «da ognuno secondo le sue capacità e ad ognuno secondo il suo lavoro», tendeva ad attuare il principio comunista «da ognuno secondo le sue capacità e a ognuno secondo i suoi bisogni». Era un sistema – avevo affermato – che si ispirava ai fondamenti del materialismo dialettico e storico enunciati da Karl Marx e Friedrich Engels e sviluppati e aggiornati da Lenin e Stalin.

Alla Scuola ero stato un appassionato cultore della nuova letteratura sovietica ed avevo fatto conoscere agli allievi molte pagine di libri come «Il placido Don» di Michail Šolochov, «Come fu temprato l’acciaio» di Nikolaj Ostrovskij, «La Giovane Guardia» di Aleksandr Fadeev, «I giorni e le notti» di Konstantin Simonov, «Un vero uomo» di Boris Polevoj. E sulla rivista «Rassegna Sovietica» leggevo attentamente gli articoli sulle conquiste della scienza e della tecnica sovietiche e non mi lasciavo sfuggire le novità della pedagogia (Makarenko, Krupskaja, Kalinin) e della biologia (Oparin, Mičurin, Lysenko).

Forse fu appunto per questa mia attenzione verso il mondo sovietico che venni dirottato dall’Agit-Prop all’Associazione Italia-URSS.

A Bologna l’Italia-URSS era comparsa nell’immediato dopoguerra ad opera di Paolo Betti, uno dei fondatori del PCI, perseguitato politico antifascista, impegnato nella Resistenza e poi consigliere comunale e provinciale a Bologna, sempre sulla breccia della lotta politica fino all’ultimo respiro. C’erano poi stati come segretari Leonildo Tarozzi, collaboratore del gramsciano «Ordine Nuovo», Serafino Santi, Linceo Graziosi, Giancarlo Grazia, tutti provenienti dall’esperienza resistenziale. La sede si era spostata da Via Monari in Via Lame e quindi in Piazza Malpigli, da dove io la trasferii in Via San Felice numero 2 per poter disporre di locali più spaziosi e soprattutto di una sala per conferenze e proiezioni.

Al momento del mio arrivo in Associazione, anche a Roma s’era verificato un importante mutamento di direzione. Al segretario generale Giuseppe Berti, proveniente dalle esperienze della clandestinità antifascista e dell’esilio in Russia, Francia e Stati Uniti, era subentrato Orazio Barbieri, proveniente dall’esperienza della guerra di liberazione in Toscana.

Il «cambio della guardia» era stato deciso da Botteghe Oscure agli inizi del 1953. La gestione Berti era stata criticata per eccessivo propagandismo filosovietico.

L’Associazione, nata nel 1944, aveva tenuto il suo primo Congresso nel 1949. Era il periodo dell’aspra contrapposizione fra i due blocchi del mondo, della «cortina di ferro» e della «guerra fredda», e dell’aspro scontro in Italia fra PCI e DC.

Al governo del paese c’era una coalizione formata da DC, PLI, PSDI, PRI, che perseguiva una politica orientata dall’Alleanza Atlantica capeggiata dagli USA. A un acceso anticomunismo in politica interna corrispondeva uno sfrenato antisovietismo in politica estera.

Nel 1953 cominciò però a comparire in URSS qualcosa di nuovo. Dopo la morte di Stalin era divenuto capo del governo sovietico Georgij Malenkov, mentre Nikita Chruščëv aveva avuto l’incarico di coordinatore della Segreteria del Partito. Vennero formulate le prime critiche al «culto della personalità» di Stalin, poi in luglio ci fu l’arresto di Berija, capo dei servizi di sicurezza, quindi in settembre venne la promozione di Chruščëv a segretario generale del Partito, ed infine in dicembre l’annuncio della fucilazione di Berija e del suo gruppo di potere.

Il mondo stava cambiando. Il possesso delle armi atomiche da parte dei due campi contrapposti era una minaccia per l’esistenza stessa dell’umanità e dell’intero pianeta. Stavano per iniziare tempi nuovi. Occorreva adeguarsi, operare per un clima di coesistenza pacifica tra i due sistemi, di reciproca conoscenza, di fruttuosa collaborazione. L’Italia-URSS doveva cercare di avviare rapporti culturali fra i due paesi, far conoscere l’Italia ai sovietici e l’Unione Sovietica agli italiani, superando i preconcetti ideologici dell’antisovietismo e dell’antioccidentalismo, del muro contro muro.

Al cambio della guardia nell’Italia-URSS a Roma era seguito un cambio della guardia in altre città fra cui Bologna. Occorrevano quadri idonei ad operare verso il mondo della cultura ufficiale. Alla precedente tendenza a «massificare» l’Associazione, a far cioè esclusivamente propaganda fra le masse popolari per contrastare l’antisovietismo, occorreva sostituire un’azione rivolta a coinvolgere gli intellettuali progressisti indi­pendenti o di diverso orientamento.

Compito dell’Italia-URSS diveniva principalmente quello di documentare, far conoscere, promuovere rapporti culturali, scientifici, turistici, cinematografici, teatrali, commerciali, di condurre una campagna tendente a stipulare un accordo culturale italo – sovietico, al quale si giungerà poi nel 1960 con la visita a Mosca del presidente della Repubblica Italiana Giovanni Gronchi.

Io ho diretto l’Italia-URSS di Bologna nel biennio ‘54-’55 orientandone l’attività su un triplice piano: stimolare rapporti culturali tra istituzioni bolognesi e moscovite, premere perché il governo italiano sviluppasse una politica d’amicizia verso l’URSS al fine di consolidare la pace in Europa, diffondere la conoscenza delle conquiste economiche, sociali e culturali realizzate dal sistema sovietico. Ricordo in proposito la diffusione di un opuscolo dal titolo «La leggenda del lavoro forzato», scritto da Serafino Santi e stampato dalla STEB nel 1953, poi l’affollatissima conferenza tenuta alla Sala Farnese da Paolo Robotti, autore del libro «Nell’URSS si vive così», per controbattere gli «Appunti del viaggio in Urss» di Aldo Cucchi, pubblicati sul Resto del Carlino, e la proiezione del film «Il Giuramento» del regista Sergej Gerasimov al Cinema Medica, che fece lacrimare parecchi spettatori quando Stalin giurò solennemente sulla salma di Lenin di continuarne l’opera.

Eh, sì, fu soltanto dopo il Ventesimo Congresso del PCUS nel 1956 e dopo la lettura del «rapporto segreto» di Nikita Chruščëv su Stalin, che cominciammo ad ironizzare sulla assoluta necessità di modificare il titolo dell’opuscolo di Serafino Santi in «La realtà del lavoro forzato» e di cambiare il titolo del libro di Paolo Robotti in «Nell’URSS si vive così così»!

Quanto a Stalin, i nostri sentimenti rimasero nei suoi confronti abbastanza aggrovigliati ancora per parecchio tempo. Non riuscivamo a disgiungere il suo nome dalla battaglia di Stalingrado, che aveva segnato la sconfitta del nazifascismo, e non gradimmo che quella città venisse ribattezzata Volgograd.

Diversa fu l’impostazione della nostra attività verso l’intelligencija bolognese. Bologna era sede di una delle più prestigiose università europee. Ma pur avendo costituito una Presidenza autorevole con personalità della cultura come il tisiologo Antonio Gualdi (PCI), il pedagogista Cesare Arnaud (indipendente), la giurista Piera Angeli (PSI), l’ingegnere Luigi Palloni (indipendente), l’Italia-URSS non riuscì mai a «sfondare», così si diceva in gergo partitico, nel mondo accademico.

Per interessare gli intellettuali, specie quelli orientati a sinistra, organizzammo conferenze-dibattito su temi specifici avvalendoci del forte nucleo di collaboratori dell’Ufficio Studi dell’Associazione Nazionale. Il professor Umberto Cerroni venne a parlare di diritto internazionale, Lisa Foa di economia, Pietro Zveteremich inaugurò una Mostra su Anton Čechov in Palazzo Re Enzo, presentando la sua «Storia della letteratura russa», Carla Voltolina Pertini ci aiutò a realizzare una conferenza nazionale sull’agrobiologia sovietica, che si tenne in Palazzo d’Accursio, Roberto Manetti della Sezione Cinema venne a presiedere una animata discussione che seguì alla proiezione del film «L’incrociatore Potëmkin» di Sergej Ejzenštejn, Ignazio Ambrogio introdusse un dibattito su Maksim Gor’kij di cui stava curando l’edizione delle «Opere complete» per gli Editori Riuniti.

Un tema che riuscì a suscitare un certo interesse fu quello della medicina, del quale si occuparono il professor Antonio Gualdi, medico provinciale, ed il dottor Bruno Bizzi, uno psichiatra imolese che riuscì a fare adottare nella nostra città le prime esperienze sovietiche del parto indolore.

Avemmo anche l’onore di ospitare il filosofo Antonio Banfi, docente universitario, accademico dei Lincei, presidente nazionale di Italia-URSS, che inaugurò la nuova sede di Via San Felice con una conferenza sul tema «Vecchio e nuovo umanesimo». L’avevo richiesto io ricordando che al liceo negli anni di guerra avevo studiato Hegel su un testo curato da lui.

Ecco, questa, oltre ai tradizionali corsi di lingua russa, è in sintesi l’attività che svolsi in quel periodo, aiutato da attivisti come Musiani, Poluzzi, Bassini, Mengoli, dalla segretaria Nina Simoni, e da «organizzatori» come Franco Meliconi e Athos Ginghini, distaccati dalla Federazione comunista per occuparsi della diffusione delle nostre pubblicazioni. Oltre al mensile «Realtà Sovietica» e al bimestrale «Rassegna Sovietica», l’Ufficio Studi di Roma curava alcune pubblicazioni periodiche: Bibliografia Medica Sovietica, Studi di Agrobiologia, Cinema Sovietico, Quaderni di Italia-URSS. E noi cercavamo di raccogliere gli abbonamenti con iniziative appropriate.

Il Partito non era indifferente al nostro lavoro. Anzi. Il segretario e l’organizzatore dell’Italia-URSS erano considerati funzionari di partito a tutti gli effetti e ricevevano lo stipendio dall’amministrazione della Federazione del PCI. Gli introiti provenienti dal tesseramento dei soci ordinari e dalle quote sottoscritte da diverse Cooperative quali Soci Sostenitori, i guadagni ottenuti dalla vendita delle riviste, servivano per il compenso della segretaria e per le iniziative, mentre a copertura delle spese di affitto e di gestione della sede giungeva un contributo mensile dall’amministrazione centrale.

Era però soprattutto al Partito che rispondevamo del nostro lavoro. Nel resoconto dell’attività svolta dalla federazione bolognese del PCI nel periodo dal 1951 al 1954 sta scritto:

«L’Associazione Italia-URSS – alla quale il Partito ha dato un notevole contributo per il suo sviluppo – assolvendo il suo compito di propaganda della vita e delle conquiste del popolo sovietico, è un efficace strumento di lotta contro l’antisovietismo, e con la sua attività collabora a rendere più forti i legami tra il popolo italiano ed il glorioso Paese del Socialismo».

L’Italia-URSS era dunque considerata una delle cinghie di trasmissione del Partito per collegarsi con le masse popolari.

Tra le iniziative da me realizzate, le più apprezzate dall’Agit-Prop di Federazione furono le nostre presenze ai festival provinciali de l’Unità, una conferenza tenuta in sede il 5 marzo dal prof. Ennio Villone su «Il pensiero di Stalin» nel primo anniversario della morte, la «Lettura e commento de “Il Poema di Lenin” di Majakovskij» tenuta dal traduttore Mario de Micheli al Teatro della Ribalta il 22 aprile per celebrarne la nascita.

Quando ci si riuniva all’Agit-Prop di Federazione mi si chiedeva di riferire su queste iniziative e non sul «nuovo» che cominciava a fermentare nella vita culturale sovietica.

La comparsa in URSS di romanzi come «Il disgelo» di Il’ja Erenburg, e «Non di solo pane» di Vladimir Dudincev, le appassionate discussioni sull’arte e la letteratura che precedettero il 2° Congresso degli Scrittori, le esigenze di libertà di critica manifestate dagli scienziati, l’acceso dibattito per il 2° Congresso degli Architetti, erano fenomeni che nel 1954-’55 suscitavano l’interesse soltanto degli «addetti ai lavori», cioè dei «sovietologi». Erano però le prime avvisaglie di quanto sarebbe accaduto qualche tempo dopo con il ventesimo congresso del PCUS e con il «Rapporto Segreto» di Nikita Chruščëv sul «culto della personalità « di Stalin.

1956. L’anno della svolta

Il 1956. Qualcuno l’ha definito «un anno indimenticabile», e qualcuno lo ha chiamato «l’anno della svolta».

Per me esso cominciò con due novità. Esprimendomi con il linguaggio di oggi potrei dire che nel «privato» divenni un «single», mentre nel «sociale» mutai di «ruolo». La mia compagna fu trasferita dalla FGCI di Bologna a Mosca come allieva della Scuola Centrale del PCUS ed io fui trasferito dall’Italia-URSS di Via San Felice alla Federazione comunista di Via Barberia come vice responsabile della Commissione Stampa-Propaganda. Un trasferimento di tremila chilometri per lei e di trecento metri per me.

Il 27 maggio di quell’anno ci sarebbero state le elezioni dei Consigli comunali e provinciali e occorreva rafforzare l’apparato propagandistico, elaborare il piano di lavoro e poi realizzarlo. Così disse Lino Montanari, responsabile di Stampa e Propaganda. E io, disciplinatamente, affrontai le nuove mansioni.

L’apparato fu rinforzato chiamando Luigi Arbizzani alla «Propaganda scritta», aggiungendo Modesto Beccari e Vincenzo Masi a Bruno Bassi nel «Centro Diffusione Stampa» e Osvaldo Corazza a Bruno Drusilli agli «Amici de l’Unità», mentre Eoliano Gnudi disse di bastare da solo alla «Propaganda Orale».

Elaborammo il piano riflettendo su quali manifesti, volantini, opuscoli dovevamo produrre, e su come articolare i comizi, le conferenze, i dibattiti e le riunioni. Pur concordando di doverci attenere alle linee programmatiche del PCI nelle questioni politiche, economiche, sociali, eravamo convinti che per noi bolognesi era necessario valorizzare soprattutto le realizzazioni e i progetti delle amministrazioni di sinistra, del comune di Bologna e dei comuni della provincia, denunciando le inadempienze e gli ostacoli frapposti dal governo centrale.

Ricordo che in una riunione un compagno espresse una preoccupazione: «Purché anche stavolta non giunga qualche sorpresa da qualche paese dell’Est». E noi in coro: «Speriamo proprio di no!». In elezioni precedenti c’era sempre stato qualche evento esterno che non ci aveva certo agevolato. La scomunica di Tito, l’oscuro affare dei medici in Russia, una fucilazione a Budapest o una impiccagione a Praga, avevano sempre offerto il destro all’avversario per rinfocolare la campagna anticomunista. E quasi a farlo apposta, tali accadimenti nell’Est d’Europa coincidevano sempre con la vigilia di qualche elezione in Italia.

«Beh, speriamo che stavolta non accada nulla di spiacevole, – conclusi io – a Bologna ci basta di dover affrontare un capolista democristiano come Giuseppe Dossetti».

E invece…

Il Ventesimo Congresso del PCUS

Il 14 febbraio si aprì a Mosca il 20° Congresso del PCUS. La relazione del segretario generale Nikita Chruščëv era articolata secondo i vecchi canoni. Il primo capitolo, sulla situazione internazionale, enunciava alcune tesi importanti:

La caratteristica della nostra epoca è che il socialismo ha varcato i confini di un solo paese ed è divenuto sistema mondiale;

L’era del colonialismo è tramontata per sempre indebolendo il sistema imperialistico;

Il principio leninista della coesistenza pacifica degli Stati con ordi­namenti sociali diversi è stato e rimane la linea generale della politica estera dell’URSS;

Le guerre non sono più inevitabili;

E’ assai probabile che le forme di passaggio al socialismo divengano sempre più varie e non è obbligatorio che l’attuazione di queste forme sia connessa in tutti i casi con la guerra civile.

Il secondo capitolo, il più lungo, esaminava la situazione socioeconomica del paese delineando le prospettive future e formulando critiche per le carenze della pianificazione e dei funzionari cosiddetti «scalda poltrone», per i quali furono letti questi versi di Vladimir Majakovskij:

«S’è abbarbicato

alla poltrona

e non vede più in là

del proprio naso.

Ha studiato il comunismo

nel suo libro

e ha ottenuto la promozione.

Si è sempre riempito la testa

di «ismi»

e il comunismo

l’ha messo in un cantone,

per sempre.

Perché pensare

tanto al domani?

Sto seduto e aspetto la circolare.

Io e voi

non abbiamo bisogno di pensare. Ci sono i capi che pensano».

Il terzo capitolo, dedicato al Partito, conteneva alcune novità che turbarono alquanto la coscienza dei comunisti, specie di noi italiani. E’ vero che nei tre anni seguiti alla morte di Stalin avevamo iniziato ad avvertire la necessità di non accettare a scatola chiusa tutto ciò che proveniva dal Cremlino. L’arresto e la fucilazione di Lavrentij Berija, la riabilitazione di dirigenti bolscevichi fucilati, la liberazione di intellettuali internati nei lager, le critiche rivolte da scrittori e artisti ai dettami dello ždanovismo, l’ammissione dell’errore commesso nei confronti di Tito, ci avevano stimolato a «ragionare con la nostra testa».

Eppure ci caddero come tegole sulla testa le frasi di Chruščëv su Berija fucilato come «vecchio agente degli imperialisti» assieme alla sua «spregevole banda di traditori», e sul «culto della personalità» di chi veniva denominato semplicemente «Stalin» senza i soliti appellativi di «generalissimo», «capo geniale», «condottiero invincibile».

E ancor più pesante fu la tegola che ci cadde in testa quando sulla stampa comparve la notizia che Chruščëv aveva tenuto «un rapporto segreto» in una seduta notturna riservata ai soli delegati. I giornali italiani riportavano tutte le voci, le illazioni, le ipotesi, le rivelazioni che comparivano sui giornali stranieri, ed erano voci di arresti, repressioni, deportazioni, arbitrii, fucilazioni, censure, falsificazioni, errori che si erano verificati in passato.

Noi reagivamo mettendo in dubbio l’autenticità di un tale rapporto, valorizzando quanto di positivo era uscito dal 20° Congresso del PCUS, e sottolineando quanto aveva ribadito Togliatti nel suo «saluto» pronunciato in russo a Mosca ma pubblicato in italiano su l’Unità: «la via che voi avete seguito per giungere al potere e costruire una società socialista non è in tutti i suoi aspetti obbligatoria per gli altri paesi, ma essa potrà e dovrà avere in ogni paese le sue particolarità. Noi vogliamo che in Italia la lotta per la trasformazione socialista della società si svolga sul terreno della democrazia.

Il «Rapporto Segreto» di Nikita Chruščëv

Il 4 giugno il Dipartimento di Stato americano pubblicò il testo integrale del «rapporto segreto» di Nikita Chruščëv sugli errori e i crimini commessi in Unione Sovietica negli anni del «culto della personalità» di Iosif Vissarionovič Džugašvili detto Stalin. Il 5 giugno il testo comparve sul «New York Times» e la stampa italiana ne riportò ampi stralci. Il 9 giugno il testo veniva pubblicato per intero sulla rivista italiana «Il Punto».

Amarezza e sconforto sconvolsero gli animi dei militanti comunisti. Dubbi e ripensamenti agitarono le coscienze dei simpatizzanti e degli alleati, in specie dei militanti socialisti. Il popolo comunista fu scosso da un terremoto politico e morale. Togliatti non poteva più limitarsi a dire che si trattava di «illazioni dei gazzettieri», pur ammettendo che in URSS s’erano commessi errori, e che le correzioni erano in atto.

Sul numero 20 del maggio-giugno ‘56 della rivista «Nuovi Argomenti» diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci comparvero allora, assieme a quelle di Lelio Basso, Ignazio Silone, Valdo Magnani, anche le risposte di Togliatti a «Nove domande sullo stalinismo». E quelle risposte io le lessi e le rilessi.

Era la prima volta che Togliatti analizzava criticamente il processo di formazione dell’URSS e formulava apertamente critiche sostanziali al regime sovietico e ai suoi dirigenti sia del passato che del presente. Constatando che «la democrazia socialista era stata limitata ed in parte sopraffatta da metodi di direzione burocratica ed autoritaria e da violazioni della legalità», Togliatti sosteneva che bisognava innanzitutto porsi il problema di come e del perché ciò era potuto accadere. Non si poteva addossare la responsabilità di tutti gli errori e illegalità verificatisi prima, durante e dopo la guerra esclusivamente al «culto della personalità di un solo uomo», del quale ora soltanto si denunciavano i gravi difetti mentre prima se ne esaltavano le eccelse qualità. Vi era indubbiamente una corresponsabilità dell’intero gruppo dirigente sovietico sia del passato che del presente. Non era forse lo stesso Partito il responsabile delle limitazioni della democrazia e della burocratizzazione dello Stato? Spettava quindi agli stessi dirigenti dare le dovute risposte a tali quesiti se si voleva democratizzare veramente la società sovietica.

Così ragionava Togliatti in quelle sue nove risposte. Ma così non ragionavano né Nikita Chruščëv né Michail Suslov né gli altri capi sovietici, i quali né diedero le risposte né democratizzarono la società sovietica. Così non ragionavano molti nostri compagni per i quali Stalin rimaneva «l’amato geniale condottiero» che aveva continuato l’opera di Lenin e aveva sbaragliato le armate hitleriane. Questo io feci presente nel mio intervento alla riunione del comitato federale che si tenne ai primi di luglio con all’odg «La preparazione dell’8° Congresso del Partito e la lotta per la via italiana al socialismo», su cui fu relatore il segretario Enrico Bonazzi. Su «La Lotta» del 5 luglio c’è un resoconto del mio intervento. Feci presente che le prime reazioni di molti compagni erano state di natura sentimentale, di difesa di Stalin e di critica a Chruščëv.

Citando una frase del «rapporto segreto», dissi che esso non si proponeva una valutazione esauriente e definitiva della vita e dell’attività di Stalin, ma voleva essere un’informazione sulle conseguenze nefaste del suo culto. Fu a questo punto che Dozza mi interruppe. «Si comincia già col trarne delle citazioni? Ma se non si sa nemmeno se è vero o falso!». Io ammutolii. Devo confessare che mentre nei comizi pubblici mi trovavo a mio agio, nelle riunioni degli organi direttivi federali ero assalito dalla timidezza e tacevo.

Quella volta avevo osato intervenire e venivo interrotto da un dirigente autorevole come il sindaco Giuseppe Dozza. Ebbi un momento di confusione mentale, poi mi ripresi e proseguii: «Nel sistema policentrico delle relazioni fra i partiti comunisti del mondo intero, ogni Partito, pur nella sua autonomia, dovrà ispirarsi ai principi dell’internazionalismo. Il PCUS è alla testa di uno Stato che era e sarà un elemento determinante dei mutamenti che si verificano nel mondo e che si riflettono pure nel nostro paese. Guai se nascesse il dubbio che in URSS non s’è realizzato il socialismo. Guai se nascesse uno stato d’animo di sfiducia verso i dirigenti del PCUS. Noi dobbiamo stimolare il dibattito ma anche orientarlo!».

La riunione del Comitato Federale si concluse con la sottolineatura di Bonazzi che «non tutte le critiche dei compagni sono giuste ma tutte pongono problemi che vanno affrontati, dibattuti e risolti» e con l’invito di Dozza a valorizzare «la costante connessione della politica del PCI con la realtà storica italiana e la ricerca permanente del PCI di una via italiana al socialismo».

Poi giunse l’estate e la gente cominciò a recarsi al mare e ai monti. Ma la «febbre politica» dentro di noi non diminuì. L’apparato federale decise d’organizzare una gita domenicale al mare e scelse come meta Ravenna. Riempimmo tre autobus. Visitammo la città coi suoi tesori d’arte, poi ci spostammo in una trattoria a Porto Corsini a mangiar pesce, e quindi passeggiammo sulla spiaggia. Fu qui che Arvedo Forni e Rinaldo Scheda affrontarono Memo Gottardi. «Insomma, Memo, perché non ci hai mai raccontato nulla?». E cominciò il botta e risposta.

– Che volete vi dicessi?

– Insomma, tu in Russia eri un antifascista in esilio, un comunista italiano, eppure ti misero in galera. Perché?

– Il perché non lo so. Io ero caporeparto in una fabbrica d’auto sul fiume Volga. Cercavo di migliorare la produzione, per il trionfo del socialismo, e non facevo nulla contro il Paese dei Soviet.

– E allora perché nel 1937 la polizia t’arrestò?

– Non lo so. Io volevo solo che gli operai lavorassero meglio e di più.

– Fu forse per quello?

– Non lo so. Mi tennero dentro parecchio. Fu dura. Poi mi rilasciarono.

– Sappiamo che durante la guerra sei stato nei campi di prigionia dei militari italiani per aiutarli ed orientarli all’antifascismo. Ma perché al ritorno dalla Russia non hai detto nulla del tuo arresto?

– Che volete vi dicessi. Ora posso dire che non sono stato l’unico comunista italiano messo in galera in Unione Sovietica. Ma se un dirigente come Togliatti, che ne sapeva molto più di me, non ha mai detto nulla, perché avrei dovuto dire qualcosa io?

Durante il viaggio di ritorno da Ravenna a Bologna non feci che meditare sul tragico destino di quei comunisti italiani che erano espatriati per evitare il carcere mussoliniano e che dovettero sperimentare il carcere staliniano.

Il giorno dopo mi recai a Roma ad una riunione in via Botteghe Oscure per il «Lancio del Mese della Stampa Comunista». Il relatore era Giancarlo Pajetta.

Nell’intervallo mi recai nel solito bar per il solito caffè e incontrai Paolo Robotti.

Gli parlai di Memo Gottardi e del suo «caso».

«Ah Gottardi! Ha lavorato con me nei campi dei prigionieri dell’ARMIR in URSS. Conosco bene la sua vicenda».

«Che tragedia!» – soggiunsi io – «Pensa che non ha mai detto nulla!»

«C’è anche chi ha sopportato di peggio e non ha detto nulla. La lotta di classe ha le sue regole. Il nemico era riuscito ad entrare in organi decisivi del potere sovietico. E quanti danni ha fatto! Eh sì, occorreva più vigilanza. Ne occorre anche adesso. Ne occorrerà sempre. E se un comunista subisce un’ingiustizia da parte dei suoi compagni, deve sopportare. Il Partito viene prima del singolo».

In quell’incontro Robotti non raccontò nulla della sua vicenda personale. Solo molto più tardi, in una riunione del Comitato Centrale del PCI, egli accennò al suo arresto a Mosca nel 1938 e ai due anni trascorsi nelle celle della Lubjanka e della Taganka perché considerato «nemico del popolo», senz’altra spiegazione, senza una accusa specifica, senza un processo. Robotti era il cognato di Togliatti. Ed egli, convinto che la Gestapo tedesca fosse l’artefice delle provocatorie manipolazioni che portarono agli arresti, alla deportazione, alla fucilazione di comunisti innocenti, riteneva che tramite suo si volesse colpire lo stesso Togliatti, membro della Segreteria del Komintern. Gli estenuanti interrogatori, il duro regime carcerario, le percosse che gli avevano leso la spina dorsale, non riuscirono a fargli confessare d’essere un «controrivoluzionario» come avrebbero voluto quelli che lo interrogavano. E alla vigilia della guerra lo rilasciarono.

«Pensai di dovere il mio rilascio ad un intervento di Togliatti su Giorgio Dimitrov e di Dimitrov su Stalin» – mi confidò lo stesso Robotti nel 1964, il giorno dopo i funerali di Togliatti. Mi disse d’avere scritto le memorie della propria vita nell’Unione Sovietica, compresa la vicenda dell’arresto. E prima di pubblicarle avrebbe voluto sentire il parere di Togliatti, ma purtroppo ora non era più possibile. Il libro uscì poi nel 1965 col titolo «La prova» a cura delle Edizioni Leonardo da Vinci di Bari.

Ma torniamo al 1956. I mesi estivi furono segnati dalle Feste de l’Unità. Ricordo quella di Massumatico, dove i compagni mi fecero tenere il comizio sopra un palco sul quale campeggiava un gigantesco ritratto di Stalin. «Quello non si tocca» – mi avvertì il segretario di sezione. E io parlai solo dell’Italia, de l’Unità, del significato dell’imminente 8° Congresso del PCI. Non mi intrattenni neppure un attimo sul «rapporto segreto» di Nikita Chruščëv.

I fatti d’Ungheria

Mentre noi eravamo impegnati nel «dibattito teorico» sull’internazionalismo, sul policentrismo e sulla via italiana al socialismo, la realtà s’incaricava di darci un’altra sconvolgente lezione di storia politica: la tragedia dell’Ungheria.

Con la liberazione dal carcere di Gomulka, rinominato il 20 ottobre segretario del Partito, sembrava essersi avviato in Polonia il superamento della crisi iniziata in giugno con gli scioperi antigovernativi degli operai di Poznan, quando il 23 ottobre giunse la notizia di una insurrezione popolare a Budapest. La sostituzione del comunista «stalinista» Rakosi con il comunista «democratico» Nagy, fautore di una «via nazionale», non riuscì a raddrizzare la situazione in Ungheria. L’insurrezione assunse un carattere apertamente anticomunista.

A complicare le cose sul piano internazionale, il 31 ottobre ebbe inizio l’intervento militare anglo-francese contro l’Egitto che aveva nazionalizzato il Canale di Suez. L’URSS dichiarò il suo sostegno all’Egitto. E quando il Governo Nagy annunciò l’intenzione di uscire dal «Patto di Varsavia» la situazione precipitò. Il 4 novembre i carri armati sovietici entrarono in Budapest e nel giro di pochi giorni soffocarono la rivolta. Alla testa del Governo subentrò Kadar, un comunista incarcerato nel periodo rakosiano, che s’era dapprima associato a Nagy e poi se n’era distaccato.

Gli avvenimenti d’Ungheria misero in subbuglio gli ambienti intellettuali del PCI. Elio Vittorini, Fabrizio Onofri, Antonio Giolitti e molti altri, già profondamente scossi dalle rivelazioni del «rapporto segreto» di Chruščëv sullo stalinismo, abbandonarono il Partito disperdendosi su diverse strade. Io invece rimasi convinto dall’editoriale de «l’Unità» firmato «Palmiro Togliatti» nel quale si affermava che l’intervento militare sovietico in Ungheria era stato «una dolorosa necessità» imposta dalla «guerra fredda» tra i due sistemi.

L’Ottavo Congresso del PCI

Il giovedì 15 novembre 1956 ebbe inizio il congresso della Federazione comunista bolognese in preparazione dell’ottavo Congresso Nazionale del PCI. Era presente ai lavori Palmiro Togliatti.

Nel grande Salone del Palazzo del Podestà campeggiavano dietro al palco della presidenza i ritratti di Marx, Engels, Lenin e Stalin. Sì, c’era ancora Stalin. Dietro il podio dell’oratore compariva il ritratto di Antonio Gramsci.

Ho conservato una foto scattata in un intervallo dei lavori di quel Congresso. Attorno a Togliatti ci sono molti dirigenti bolognesi del tempo. E ci sono anch’io.

Togliatti stava commentando le notizie giunte dall’Ungheria. «E’ strano – egli diceva – che a muoversi siano stati gli operai delle grandi fabbriche di Budapest. Nelle campagne i contadini che hanno ricevuto le terre dei latifondisti non si sono mossi. Servono ulteriori informazioni. Dovremo riflettere, dovremo capire.

Dietro al palco della presidenza dell’ottavo Congresso Nazionale del PCI che si tenne a Roma dall’8 al 14 dicembre ‘56 non c’era alcun ritratto. Sul fondale c’erano bandiere rosse e bandiere tricolori e sopra di esse spiccava la scritta: «PER UNA VIA ITALIANA AL SOCIALISMO».

* La puntata precedente è stata pubblicata in Slavia, 2008, n.2.

Slavia, rivista trimestrale di cultura

Graziano Zappi "Mirco", "Slavia" N°4 2008