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lunedì 8 febbraio 2010

Chi è filocosa

La Stampa, ore 18:24, 7 febbraio 2010: Ucraina, il filo russo Yanukovich scalza la premier Tymoshenko.

Repubblica, ore 19:07, 7 febbraio 2010: Yanukovich annuncia la vittoria. L'Ucraina all'opposizione filorussa.

Corriere della sera, ore 20:21, 7 febbraio 2010: Il leader dell'opposizione filorussa in vantaggio. Ma Iulia Timoshenko per ora non riconosce la sconfitta.

l'Unità, ore 20:36, 7 febbraio 2010: il leader filo-russo del Partito delle Regioni, Viktor Yanukovich, avrebbe vinto le elezioni presidenziali svoltesi oggi in Ucraina, sconfiggendo il premier Yulia Timoshenko.

Perché riporto questa breve rassegna di titoli ed incipit di giornali progressisti italiani? Perché voglio farvi riflettere sulle ragioni per le quali Viktor Janukovič (è così che si scrive, smettiamola anche con la traslitterazione "creativa") è sempre e comunque un uomo di Mosca e, sottinteso, di Putin ("filorusso", appunto), mentre Julija Timošenko (è così che si scrive) è solo la Presidente del Consiglio dei Ministri (la "premier", come piace dire ai giornalisti, all'opposizione e ai governanti italiani), non una parola sul fatto che sia talmente filo-occidentale da essere filo-yankee, smaniosa di entrare nella NATO.

Già che ci sono.

Gorbačëv (accento sulla "ë", non sulla "o")

El'cin (non Yeltsin et similia)

Medvedev (accento sulla seconda "e", non sulla prima)

Janukovič (accento sulla "o", non sulla "u")

Černobyl' (accento sulla "o" alla ucraina o, al limite, sulla "y" alla russa, ma comunque assolutamente non sulla "e" come si usa in Italia)

Kiev, Moldavia (in italiano, non traslitterando dall'ucraino e dal moldavo rispettivamente Kyiv e Moldova). Anche Nizza, in russo, resta Nizza, non diventa Nice, poiché il nome era noto da prima che nascesse Garibaldi.

sabato 16 gennaio 2010

Obama arancione

Con Obama cambia solo il volto, non le mire di questi mormoni figli dei peggiori delinquenti europei. Le rivoluzioni arancioni erano (sono?) come il pseudosocialismo che qualcuno pensava di esportare in tutto il mondo. Solo che, prima o poi, se si insiste troppo, qualcuno capisce il giochino e s'incazza. Dunque, dopo gli esperimenti infelici in Polonia nell'81 e in Cina nell'89, è una sequela di successi: '89 RDT, Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria, Bulgaria, Romania; '90 Jugoslavia; '91 URSS, Tadžikistan, Cecenia, Tataria; '93 Russia; '94 Kazachstan; '98 Armenia; '99 Serbia, Cecenia; '04 Georgia, Ucraina, Inguscezia; '05 Kirgizia; '09 Inguscezia. Ma più passano gli anni, più spesso il gioco s'inceppa: '94 Tataria; '95 Kazachstan; '97 Tadžikistan; '03 Armenia, Azerbajdžan; '04 Transnistria, Cecenia; '05 Uzbekistan;'06 Bielorussia; '08 Ossezia meridionale, Abchasia; '09 Moldavia. Basta prendere in mano una piantina geografica euroasiatica - meglio se correlata dei vari gasdotti esistenti ed in costruzione - per rendersi conto dell'accerchiamento perpetrato: qualcuno con una materia cerebrale estremamente semplificata, al Pentagono, evidentemente pensava e pensa di giocare a Risiko.

I tanti nostalgici ex filosovietici rimproverano a Gorbačëv di essere stato troppo blando, dimenticando che la guerra fredda l'ha persa chi per primo ha finito i piccioli, altro che politica, torti e ragioni. Obama, come Gorbačëv un quarto di secolo prima, ha ereditato la fine della festa, e deve fare buon viso a cattivo gioco: chi li paga i golpisti, il disoccupato dell'Oklahoma?

sabato 6 dicembre 2008

Alessio II

Trovo le seguenti notizie su RAI News 24:

http://www.rainews24.it/Notizia.asp?NewsId=89156

Mentre prosegue l'omaggio dei russi alla salma di Alessio II nella cattedrale del Cristo Salvatore a Mosca, continuano a rincorrersi gli interrogativi sul passato del patriarca di tutte le Russie come sospetto informatore del Kgb. Secondo alcuni esperti, il capo della chiesa ortodossa sarebbe stato un assiduo informatore della polizia politica del regime sovietico, reclutato nel 1958 con il nome di "Drozdov".

Quello di Alessio II sarebbe stato un destino comune a quasi tutti i vescovi russi nell'era sovietica, secondo quanto affermato da padre Gleb Iakunin, dissidente e difensore dei diritti dell'uomo, che ha studiato gli archivi del Kgb negli anni '90. "Erano tutti informatori. Ma Alessio si distingueva particolarmente. Era molto attivo nell'esercizio di questa professione", ha affermato. E molti di questi vescovi parteciperanno, adesso, all'elezione del successore di Alessio II, morto ieri all'età di 79 anni.

La prova più convincente della collaborazione di Alessio II con il Kgb sarebbe un documento scoperto in Estonia negli anni '90 dallo storico Indrek Jurjo, direttore delle pubblicazioni degli archivi di stato. "E' la descrizione dell'assunzione dell'agente Drozdov. Il suo vero nome non è indicato, ma tutto corrisponde alla biografia del patriarca Alessio II, tra cui l'anno della sua nascita", ha dichiarato Jurjo. "Il Kgb non ha esercitato forti pressioni su di lui. Non ci sono documenti compromettenti. Gli hanno appena offerto la possibilità di fare carriera e se avesse opposto un rifiuto sarebbe probabilmente rimasto un sacerdote ordinario", ha commentato ancora Jurjo.

Alessio non ha mai ammesso di essere stato un informatore del Kgb e la Chiesa ortodossa ha smentito tutte le accuse di infiltrazione nella polizia politica sovietica anche dopo la pubblicazione di alcuni articoli a tal proposito negli anni '90. Il patriarca ha tuttavia chiesto "perdono" per le azioni compiute dai vertici della chiesa, in un'intervista concessa al quotidiano russo Izvestia nel 1991. Spiegando come, da vescovo in Estonia, aveva ottenuto che nessuna chiesa locale venisse chiusa, aveva ammesso: "Difendendo una cosa, è necessario cedere su un'altra. Chiedo perdono, comprensione e preghiere a coloro i quali hanno ricevuto danno da compromessi, silenzio, passività forzata o espressioni di onestà tollerate dai vertici della Chiesa".

Secondo Oleg Kalouguin, ex generale del Kgb e autore di alcuni libri sui servizi segreti sovietici, Alessio II avrebbe ritenuto opportuno collaborare per salvare la chiesa ortodossa. L'ex ufficiale ha raccontato di avere chiesto nel 1991 all'allora vescovo le ragioni della sua scelta. "Che cos'altro avrei potuto fare? Dovevo scegliere tra emigrare, essere ucciso, andare in un campo di concentramento o collaborare. Ho cooperato per salvare la chiesa e me stesso", avrebbe risposto Alessio II.

D'altra parte, la direttrice dell'Istituto Keston di Oxford, Ksenia Dennen, afferma di non essere affatto stupita dalla collaborazione di Alessio II con il Kgb: non vedo "nulla di straordinario", ha confessato. "Tutto il mondo ne era a conoscenza e quello era l'unico modo che aveva la chiesa per sopravvivere come organizzazione non clandestina".

E adesso vediamo di analizzare, visto che è un sublime esempio di manipolazione dell'informazione da parte di pennivendoli italici venduti al potere – chiunque ci sia – per trenta denari, che si assurgono a coraggiosi giornalisti che rischiano la pelle.

Personalmente, non sono cristiano ortodosso. Non sono nemmeno cattolico. Non sono cristiano. Non sono religioso. E non sono nemmeno agnostico. Sono proprio ateo, e, a differenza di molti ipocriti italioti, non lo nascondo, ma anzi lo affermo con orgoglio. Non sono manco battezzato, né circonciso, né quant'altro, figuriamoci.

Francamente, mi stava molto più simpatico l'estone Alessio II, che ha combattuto, armi in pugno, ragazzino, contro i nazisti, piuttosto che il tedesco Ratzinger, che nazista lo è stato in prima persona. Una questione di stile e di etica, se vogliamo.

Ma vediamo di analizzare, dicevo.

Si parla di "alcuni esperti". Nomi e cognomi? Altrimenti, non sono esperti, ma semplici anonimi e vili delatori, che oltretutto non si sa se non siano in realtà inventati di sana pianta dai pennivendoli di cui sopra, che sono troppo pavidi per assumersi la responsabilità delle loro allusioni. E si pone, soprattutto, un problema di millantato credito e di vilipendio. Cioè, di calunnia gratuita. Gratuita perché manca il soggetto da denunciare in tribunale.

Chi è Gleb Jakunin? Già il fatto che sia osannato dal Partito Radicale italiano dovrebbe mettere in guardia e suscitare non pochi pruriti. Ma non è questo, il fatto più eclatante. Jakunin, ex sassofonista jazz, viene definito "dissidente". In epoca sovietica? No: adesso. Ma adesso non ci sono dissidenti! A meno che non si possa definire dissidente chiunque, nel proprio Paese, sia contrario alla maggioranza al governo. Allora, in Italia circa un terzo degli abitanti è "dissidente", nei confronti di Berlusconi. Mi pare un termine smodato. Di più: Jakunin è stato deputato. Quando? Dal 1993 al 1996, ovvero da dopo che El'cin ha massacrato con i carri armati il Parlamento russo (4 ottobre 1993). Insomma, è uno el'ciniano di ferro.

Chi è Indrek Jurio? Un illustre sconosciuto. Uno dei tanti. Ma è estone. Dunque, degno di fede in quanto russofobo per elezione etnica. Almeno, da come viene presentato in occidente. Un po' come se tale Mario Rossi parlasse di Lavrentij Beria, o tale Vladimir Ivanov parlasse di Amintore Fanfani. Per carità, ciascuno può parlare di quel che gli pare, basta che non venga recepito come "verbo".

Cosa corrisponde, nella descrizione dell'agente "Drozdov", secondo Jurio? L'anno di nascita. Una prova inoppugnabile. Io sono nato nel 1962. Chissà quanti figli di puttana sono nati anch'essi nel 1962. C'è poco da fidarsi, di noialtri del 1962. Qualcos'altro? Dice di sì. Cosa? Non ci è dato di saperlo.

Anzi: una prova sarebbe il perdono che Alessio II ha chiesto per le malefatte della chiesa ortodossa in epoca sovietica. Attendo le scuse della chiesa cattolica per le malefatte compiute in epoca nazista tedesca e fascista italiana.

Chi è Oleg Kalugin? E' una delle gole profonde del dossier Mitrokhin. Ma sì, la bufala di Paolo Guzzanti, non so se mi spiego. Ci aveva messo pure mio padre, figuriamoci. Strano che non ci sia finito pure io. Quindici anni fa il Corriere della Sera lo definiva "lo 007 di El'cin". E non finisce qui: pur di guadagnar soldi, una mattina sì e l'altra invece pure elargiva pillole di rivelazioni a pagamento, tipo quando si inventò marines yankee trasferiti dal Vietnam a Mosca. Ma vive negli Stati Uniti. Dunque, adesso diventa anch'esso il verbo.

E poi, Gorbačëv. Secondo i giornali italiani, era profondamente avvilito, addirittura sconvolto. E invece? Invece, ha detto di essere tuttora ateo, ma che è sinceramente dispiaciuto per la morte di una persona degna. Avete trovato qualche accenno a ciò nei giornali italiani?

Fondamentalmente, ho una sola domanda da porre ai pennivendoli italici di cui sopra: ma a voi che vi frega? Possibile che vi paghino persino per questo? Continuate a parlare dell'isola dei famosi, che vi riesce decisamente meglio…

giovedì 25 settembre 2008

Costituente per la sinistra

Le mie risposte non possono essere sempre puntuali, vi chiedo di tenerlo in considerazione: ad esempio, voi ieri eravate a cena, mentre il sottoscritto andava a letto; viceversa, io ho già finito la lettura dei giornali e ho iniziato a lavorare, mentre voi probabilmente state prendendo a pugni la sveglia, bestemmiate scivolando nella vasca o ustionandovi con la moka.

Veniamo alla parte politica. E cominciamo con Occhetto. Nel '68, era segretario della FGCI, che contava mezzo milione di iscritti. Ebbe la geniale idea di sciogliere la FGCI nel Movimento. Quando, durante l'autunno caldo del '69, il PCI comprese l'errore e la ricostituì, il danno era fatto, si arrivo ad appena 140.000. Occhetto, per punizione, venne mandato a fare il segretario regionale del PCI in Sicilia. Bella fesseria, anche questa: per lui, piemontese, era certo una punizione, ma perché punire i compagni siciliani?

Ricordo un bel libro (bello nel senso che si doveva capire subito dove volevano andare a parare), "A dieci anni dal '68", intervista di Walter Veltroni ad Achille Occhetto. Era tutto un parlare di socialismo.

Nel '91, eravamo in piena Tangentopoli. Finalmente crollava la Balena Bianca, insieme all'altra Banda Bassotti, quella del PSI. In pratica, era la prova provata di tutto quello che il PCI aveva detto per decenni. Ed erano crollati anche il muro di Berlino e l'URSS. In pratica, era anch'essa la prova provata di tutto quello che il PCI aveva detto dalla Primavera di Praga in poi.

E il nostro Occhetto? Immaginandosi una sorta di Gorbačëv mediterraneo, solo un po' più sfigato, che fa, pur di entrare nella storia? Scioglie il PCI. Quando ci si accorge della cazzata, anche stavolta, è troppo tardi: PDS e MRC (di cui sono stato uno dei fondatori, dal Brancaccio, per intenderci) raccolgono insieme metà dei voti ed un quarto degli iscritti del PCI.

Insomma, Occhetto non è che porti sfiga: è corrosivo, nel senso che quel che tocca, scioglie.

Veniamo a Vendola. Lo ricordo segretario della FGCI barese, all'inizio degli anni '80. Bari, per quanto importante, è pur sempre un capoluogo di regione, non tutta la nazione. Eppure, meritò sull'organo settimanale della FGCI, "La Città Futura", direttore Ferdinando Adornato (!!!), un'intervista di due pagine. Nulla del genere per il segretario di Torino, Piero Fassino, o per quello di Milano prima di diventare segretario nazionale, Marco Fumagalli, o per quanti si avvicendarono a Roma, Goffredo Bettini, Carlo Leoni, Maurizio Sandri, Nicola Zingaretti (e, in quegli anni, in segreteria a Roma c'era anche, come responsabile del servizio d'ordine, Norberto Natali, che ricorderete in galera pochi anni fa con l'accusa – falsa! – di terrorismo). La ragione? Beh, ricordate "Palombella Rossa" di Nanni Moretti? Noi siamo diversi, ma siamo uguali, ma siamo diversi, ma siamo uguali, ma siamo diversi, mamma, portami a casa! Vendola, per ingraziarsi i "gruppettari" (li chiamavamo così), portava il "chiodo", con le borchie ed una vistosa piuma color giallo canarino nell'occhiello, ma soprattutto... E' omosessuale.

Per me, finché si tratta di esseri umani, adulti, maggiorenni e consenzienti, ciascuno può farlo come gli pare e con chi gli pare. Non ne ho mai fatto e non ne faccio una bandiera. Analogamente, detesto chi, essendo donna, parla solo delle problematiche femminili e femministe, essendo negro (che in spagnolo vuol dire "nero": i colorati siamo noi "bianchi", che diventiamo blu per il freddo, verdi per avvelenamento, rossi per la vergogna) parla solo di razzismo, essendo operaio parla solo di sindacato e di contratti. E' un'auto ghettizzazione.

Qui sono già le nove del mattino, devo lavorare, anche se vorrei dire ancora molte cose. Concludo però con un paio di considerazioni. La prima è che l'assise per la costituente della sinistra, svoltasi a Roma il 20 settembre, mi è sembrata un raduno di trombati dei congressi dei rispettivi Partiti. E se a quello del PRC avesse vinto Vendola, all'assise sicuramente avrebbe partecipato Ferrero. Quel Ferrero che era segretario della FGEI, ovvero della Federazione Giovanile Evangelica Italiana. Ed io sono ateo e manco battezzato, per cui detesto anche chi porta le proprie impostazioni religiose tra le file comuniste. Sono marxista, che volete farci, l'oppio dei popoli continua ad essere quello delle credenze, le più variegate.

La seconda è che, una costituente per la sinistra vera, deve essere un progetto alternativo, "Nuova sinistra", appunto, che deve ripartire da zero e mandare ramengo i tromboni e i trombati. E cosa ti trovo? Una serie di truppe cammellate che continuano a tirarsi tra loro una coperta che comunque resta troppo corta, anziché cercare di tessere la tela assieme. Sì, lo so che "truppe cammellate" è offensivo, ma una rosa è una rosa è una rosa, e quelli che si spargono in ogni dove per portare il verbo del vate di turno restano truppe cammellate, le parole hanno un senso…

domenica 7 settembre 2008

In memoria di Enrico Berlinguer

Leonid Popov, "Slavia" N°2 2008

L'articolo che qui pubblichiamo per gentile concessione dell'autore è apparso in russo, con qualche abbreviazione, nella Nezavisimaja gazeta di Mosca l'11 giugno 1994, in occasione del decennale della morte del leader comunista italiano. Leonid Popov ha il titolo accademico di kandidat ekonomičeskich nauk, ha lavorato per moltissimi anni presso l'ambasciata dell'URSS a Roma e poi presso il Comitato Centrale del PCUS, e in varie e numerose occasioni ha tradotto gli incontri e i colloqui di Enrico Berlinguer con dirigenti e delegazioni del PCUS.

Il tempo bizzarro scorre veloce e spietato. Si allontanano nel passato personaggi che ancora poco tempo fa sembrava esercitassero un'enorme influenza sulla politica, sulla formazione della coscienza di massa e – in una certa misura – sulla cultura nazionale di questo o quel paese.

Esattamente dieci anni fa, l'11 giugno 1984, è scomparso il segretario generale del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer, un uomo le cui idee politiche hanno influito notevolmente sulle menti degli uomini in Italia e in una serie di altri paesi dell'Europa occidentale, ma che non sono state apprezzate secondo il loro giusto valore né da noi in Russia né nei paesi dell'Europa orientale. Berlinguer è morto, come avrebbero detto un tempo, «sul suo posto di combattimento»: l'emorragia cerebrale lo colpì durante un comizio elettorale. Poche settimane prima della sua fine Berlinguer aveva compiuto 62 anni. La sua azione politica come vicesegretario e poi come segretario generale ha costituito una tappa importantissima, dal 1969 al 1984, nella storia del Partito Comunista Italiano, una tappa durante la quale il PCI ha imboccato definitivamente la via di uno sviluppo completamente autonomo, tagliando il «cordone ombelicale» che lo teneva legato a un approccio da partito «postcomintern» (se poi questo sia stato del tutto un bene o del tutto un male, resta una questione in discussione) e ha scelto di essere una forza al servizio di tutta la nazione, una forza che esprimeva (e difendeva) gli interessi non soltanto delle masse lavoratrici, ma della stragrande maggioranza della popolazione. Alcuni risultati – il 34,4% dei voti alle elezioni politiche del 1976 e il 33,3 % alle elezioni del Parlamento europeo nel 1984, – ci dicono che non tutto nella linea dei compagni italiani era «sbagliato», tutt'altro.

Forse è per questo che in qualche punto, nel profondo dell'animo, probabilmente là dove nell'uomo nascono l'intuito e la coscienza, la capacità di prevedere e di essere consapevoli, sorge in noi una strana sensazione. Non si tratta di un senso di colpa e non è una spinta all'autoanalisi. Più probabilmente si tratta di rimpianto, di rammarico. Rammarico per ciò che a suo tempo non è stato fatto, riconosciuto, percepito. Rammarico perché le forze di sinistra in Europa avrebbero potuto comportarsi diversamente (ma non lo fecero), perché la storia avrebbe potuto imboccare una via diversa. Rammarico perché in nome di una linea di principio erroneamente intesa sono stati commessi troppi errori, e non soltanto da parte nostra.

Ma questo articolo non vuole essere la risposta ad emozioni nostalgiche nel campo della politica. E' una riflessione sulle posizioni politiche ed etiche di Enrico Berlinguer, sul ruolo politico da lui svolto soprattutto in Europa, senza del quale è inconcepibile la moderna politologia, è impossibile capire a fondo i problemi del movimento di sinistra nel nostro continente negli anni Sessanta-Ottanta.

L'autore di queste righe ha già avuto modo di scrivere che le forze di sinistra, socialiste europee, e anche il PCUS, hanno perduto molto a causa dell'ingiustizia storica costituita dalla prematura fine di Enrico Berlinguer, sopravvenuta nel 1984. Non ci sono più stati incontri tra Berlinguer e Gorbačëv, non c'è stato quel dibattito fecondo che avrebbe potuto influenzare le posizioni degli interlocutori e dei partiti, provocando in definitiva seri fallimenti nella politica della sinistra sul continente. Tutte cose, mi si passi l'azzardo, che avrebbero persino potuto scongiurare alcuni dei grandi errori della perestrojka, quelli che alla fine l'hanno portata al fallimento.

Naturalmente, bisogna subito premettere che le idee politiche formulate da Berlinguer negli anni 70-80 contenevano un'analisi delle situazioni storiche concrete di quegli anni e che non solo non sono trasferibili sul terreno della Russia, dell'Austria, dell'Ungheria, della Romania ecc., ma che non sono applicabili – nella loro formulazione originaria – neanche all'Italia della metà degli anni Novanta. Ciò nondimeno, esse sono attuali. Attuali perché rappresentano l'esempio di un metodo dialettico di analisi politica che ha sottoposto a critica (in senso filosofico e non giornalistico) la realtà concreta, proponendo nuove vie d'uscita dalle nuove situazioni.

Un chiaro esempio di questa metodologia è stata l'idea del «compromesso storico», elaborata e formulata da Berlinguer nel settembre 1973 in seguito ai tragici avvenimenti cileni, un concetto che, ad essere franchi, non è stato ben capito non soltanto all'estero, ma neppure nella stessa Italia. Politologi e giornalisti italiani hanno spesso sostenuto che il «compromesso storico» non era altro che un tentativo di accordo di vertice tra comunisti e democristiani alle spalle delle masse per arrivare al governo.

Il senso e il contenuto della strategia del «compromesso storico» così come formulata da Berlinguer sono molto più profondi.

Secondo la concezione di Berlinguer il «compromesso storico» voleva essere la linea strategica del PCI nelle condizioni dell'Italia, una linea di lungo periodo per il passaggio graduale al socialismo, affinché nei rapporti di produzione, nella distribuzione dei redditi e nei consumi – attraverso la trasformazione e la programmazione dei principali settori dell'economia e grazie alla crescita della democrazia anche nella natura del potere – si affermassero gradualmente nuove tendenze che avrebbero introdotto alcuni elementi propri del socialismo nelle strutture generali e nel funzionamento della società. Non si trattava dunque di considerare la costruzione di una società socialista come obiettivo immediato, giacché per questo non v'erano alcune delle principali condizioni di carattere interno e internazionale, ma di attuare provvedimenti e passi di tipo socialista. A questo proposito possiamo aggiungere che, nelle condizioni italiane, il discorso avrebbe potuto riguardare una ulteriore avanzata negli enti locali governati dalle sinistre, un ulteriore progresso di altri «elementi di socialismo».

Nel campo della politica interna avevano acquistato un valore primario i rapporti dei comunisti con le altre due maggiori forze politiche del paese, i socialisti e i cattolici, che esercitavano una notevole influenza sulle masse popolari, tra gli strati proletari e non proletari della popolazione. La strategia del «compromesso storico» significava appunto il compromesso tra comunisti, socialisti e cattolici, un'alternativa non «di sinistra», ma «democratica» al sistema di potere esistente, una prospettiva politica di collaborazione e accordi tra le masse popolari schierate su posizioni comuniste e socialiste e quelle di orientamento cattolico.

In altri termini, questa strategia significava voler introdurre «elementi di socialismo» nella società italiana, nel suo sistema democratico-borghese. Ciò si sarebbe realizzato attraverso accordi e intese tra comunisti, socialisti e cattolici allo scopo di attuare per via pacifica graduali, coerenti trasformazioni in senso socialista.

Nella seconda metà degli anni Settanta suscitò clamorose, accanite discussioni, a volte al di là delle buone regole, il termine eurocomunismo, che 17 o 18 anni fa non ottenne una definizione precisa e venne – e in parte ancora viene – inteso in modo ambiguo, anzi doppiamente ambiguo. Ricordiamo che Enrico Berlinguer non fu l'unico «padre» dell'eurocomunismo e che oltre a lui di padri ce ne furono altri due: Santiago Carrillo, segretario generale del Partito comunista spagnolo, e – parzialmente – Georges Marchais, segretario generale del Partito comunista francese.

Propriamente, l'eurocomunismo non è stato un concetto ben definito. Fu più che altro un tentativo dei tre maggiori partiti comunisti dell'Europa occidentale di compiere passi pratici (a volte congiuntamente, più spesso singolarmente) intesi a sviluppare ulteriormente il processo di trasformazioni democratiche in corso nel continente, che stava procedendo velocemente sulla via dell'integrazione.

L'eurocomunismo è stato uno dei primi, importanti tentativi delle sinistre del continente di tenere conto delle nuove, specifiche particolarità dell'evoluzione politica, economica e sociale dei paesi della regione nelle condizioni dell'integrazione, un tentativo per trovare le risposte ai problemi del tutto nuovi che si ponevano davanti alle forze di sinistra europee nella seconda metà degli anni Settanta, un tentativo per trovare una nuova via al socialismo nelle condizioni specifiche dell'Europa occidentale.

Le risposte a queste questioni furono: la rinuncia alla dittatura del proletariato, il riconoscimento del valore universale della democrazia, dei principi del pluralismo politico e dell'economia mista, una decisa critica all'indirizzo del «socialismo reale» ecc.

Partendo dalla critica al «socialismo reale», dall'analisi della situazione internazionale e della situazione nei paesi del campo socialista, gli autori dell'eurocomunismo gettarono un ponte verso una nuova idea, l'idea di una «terza via» al socialismo, una via che rifiutava il modello esistente di socialismo «dogmatico» ma neanche faceva propria l'esperienza della socialdemocrazia a causa della sua «insufficienza organica».

Nei paesi socialisti, osservò Berlinguer nel suo intervento al Comitato Centrale del PCI del marzo 1979, invece della realtà, invece di una prassi trasformatrice e creativa basata sui nuovi fatti e sulle nuove idee, si è fatta avanti un'ideologia, più esattamente una specie di «credo ideologico» nella forma del cosiddetto «marxismo-leninismo», inteso come un corpo dottrinario fossilizzato, qualcosa quasi di ordine metafisico, un insieme di formule che dovevano giustificare e garantire quel tipo di struttura politico-economica, quel modello universalmente valido a cui i diversi soggetti e le varie realtà sociali dovevano adattarsi e dove il partito, in virtù di un principio che non poteva essere messo in dubbio, doveva attuare o imporre la propria linea.

Sulla base di un'analisi della realtà politica e socioeconomica di quegli anni nei paesi socialisti, la direzione del PCI giunse a queste conclusioni:

1. La rivoluzione d'ottobre aveva esaurito la sua spinta propulsiva.

2. La via percorsa dall'Unione Sovietica dopo il 1917 non era adatta ai paesi capitalistici avanzati.

3. Non erano accettabili, «trasferibili» sul terreno dell'Europa occidentale i regimi sorti sulla base del modello sovietico.

4. In una serie di paesi dell'Europa orientale tali regimi erano in crisi.

Di qui fu tratta la conclusione della necessità di una «terza fase» nella lotta per il socialismo che avrebbe comportato «il superamento dell'esperienza socialdemocratica e al tempo stesso la non applicabilità del «modello sovietico» in Italia e in altri paesi dell'Europa occidentale.

A questo riguardo riportiamo anche il giudizio sulla socialdemocrazia:

«I partiti socialdemocratici, – disse Berlinguer, – grazie a un certo spazio di manovra creato dal funzionamento dei meccanismi del sistema capitalistico, hanno realizzato determinate riforme sociali in conseguenza delle quali è cresciuto il tenore di vita delle masse lavoratrici. Ma noi parliamo dell'insufficienza organica della soluzione socialdemocratica in quanto essa, nonostante le conquiste e i miglioramenti, non rappresenta un superamento del capitalismo. Tanto più che ci troviamo di fronte a una crisi del capitalismo che investe le basi materiali su cui nei grandi centri è cresciuta l'influenza della socialdemocrazia come espressione di quello strato delle masse lavoratrici che Lenin definì "aristocrazia operaia"». Di qui la conclusione che fosse necessario «esplorare», «ricercare» nuove vie al socialismo, di qui la necessità di una «terza via».

Guardando retrospettivamente all'eurocomunismo e in una certa misura anche all'idea della terza via non dobbiamo dimenticare che nel formulare queste proposte i leader dei tre partiti comunisti europei si basavano su una valutazione obiettiva della situazione nell'Europa occidentale della seconda metà degli anni Settanta, sull'analisi dei mutamenti avvenuti negli anni Sessanta e Settanta in campo economico, nella struttura sociale, nelle tattiche di lotta e nei rapporti di forza sull'arena internazionale.

L'analisi di un mondo che era in continuo cambiamento, delle nuove condizioni storiche concrete in Italia, in Europa e in tutta la Terra, consentì a Enrico Berlinguer di avanzare nuove idee politiche a volte assolutamente sorprendenti, di gettare uno sguardo – magari soltanto parziale, sulla base di quell'intuito che è proprio degli italiani e dei loro leader politici – sul futuro, di indovinarne i contorni, di capire quali potessero esserne le forze trainanti.

Ricordiamo tra queste l'idea del «governo globale», una previsione abbastanza chiara della grave situazione ambientale della Terra. Berlinguer colse la necessità per il PCI di trasformarsi in una forza democratica nazionale di sinistra (trasformazione compiuta sei anni dopo la morte di Berlinguer dal nuovo segretario generale Achille Occhetto). Tra le decisioni adottate da Berlinguer ci fu quella di far aderire il PCI all'Internazionale socialista, quella di ristabilire i rapporti con il Partito comunista cinese, ecc.

Commise errori Enrico Berlinguer nelle sue valutazioni, idee, proposte? Certo, ne commise. Ma furono errori di un politico di talento, che non potevano e non hanno potuto cancellare l'importanza e la profondità della partitura della sua azione politica.

Dopo tutto, errori ne hanno commessi Beethoven e Verdi, Shakespeare e Tolstoj, Croce ed Engels. Ci sono opere incompiute di Leonardo e di Raffaello, di Aristotele Fioravanti e Andrea Palladio. Ma non per questo sono stati meno grandi.

Ovviamente, questo articolo non vuole essere un panegirico a Berlinguer, un tentativo di collocarlo tra i classici. Come si suol dire, «Date a Dio quel che è di Dio, ecc.».

Su una cosa però non ci sono dubbi, ed è che Enrico Berlinguer cercò costantemente di perfezionare l'idea del socialismo, cercò una via per avanzare verso il socialismo nelle condizioni molto specifiche dell'Europa occidentale e persino, in un certo senso, una via di uscita dal vicolo cieco in cui egli avvertiva intuitivamente che il cosiddetto «modello amministrativo di comando» avrebbe potuto cacciare il socialismo.

Oggi mi si potrebbe obiettare: che senso ha rivangare il passato, tanto più che l'idea del socialismo ha perduto la sua forza di attrazione, ha cessato di essere, come si diceva un tempo, la «stella polare» di milioni di persone? Mi permetto di dissentire da tale opinione.

La riproduzione dei rapporti sociali nei paesi dell'ex campo socialista (e particolarmente in Russia) procede sulla via di un capitalismo abbastanza strano e inevitabilmente porterà a una stratificazione molto complessa della società, alla nascita di gruppi e ceti sociali di cui oggi è impossibile prevedere gli atteggiamenti. Ma è abbastanza chiaro che l'alienazione sociale e soprattutto economica dell'uomo del lavoro, del produttore diretto, quell'alienazione per la cui «abolizione» si sono attivamente (e, aggiungo, giustamente) battuti i sinceri democratici nel 1990-1991, non soltanto non scomparirà nella nuova società che oggi sta nascendo, ma sarà più acuta e profonda della «strana» alienazione dell'epoca del socialismo da caserma. Essa assumerà nuove e incomprensibili forme.

Molto probabilmente la società si dividerà in gruppi e gruppuscoli sociali, al centro dell'attenzione dei quali ci saranno valori e interessi individualistici, o, nel migliore dei casi, corporativi. Questi gruppi, a differenza delle classi, cesseranno di assumere posizioni politiche, delegheranno il potere agli «eletti», il che in definitiva porterà a una eteronomia, non all'autonomia della nazione.

In queste condizioni, per quanto possa apparire strano, le forze di orientamento socialista – non necessariamente, anzi auspicabilmente non grandi – possono esercitare un ruolo frenante, cioè il ruolo di chi vuole salvaguardare i principali istituti della società e persino dello Stato.

Il nostro «quasicapitalismo» si svilupperà, ciò è inevitabile. Ma nelle condizioni di questo quasicapitalismo è estremamente necessario che nella società ci sia un raggruppamento di forze di orientamento socialista, capaci non semplicemente di battersi per gli interessi del momento di singoli gruppi sociali, ma di pensare con categorie globali, nazionali, di porsi al di sopra degli interessi particolari, per scongiurare l'insorgere di situazioni catastrofiche.

Né il «quasicapitalismo» russo, che per ora si sviluppa su una base speculativa, né le forze politiche che esprimono gli interessi della nuova (per noi) classe dei proprietari sono in grado di trovare soluzioni adeguate nella caotica e assolutamente imprevedibile situazione odierna.

E' evidente che adesso il «male minore» sarebbe quello di una scelta in favore del capitalismo di Stato, cioè di un sistema che affermasse il ruolo prioritario dello Stato nei settori strategici dell'economia, che riconoscesse il principio di un'economia mista o diversificata e perseguisse tra gli obiettivi primari una politica sociale.

In Russia c'è un partito che si propone tali obiettivi e compiti democratici. E' il Partito socialista dei lavoratori (SPT, Socialisticeskaja partija trudjaščichsja), che per motivi incomprensibili (ma forse, al contrario, pienamente comprensibili) sembra essere «dimenticato» dai mezzi di informazione di massa, particolarmente da quelli elettronici.

Nella sua analisi il Partito socialista dei lavoratori (SPT) va oltre le soluzioni puramente tattiche, cerca «berlinguerianamente» di guardare al futuro. A questo riguardo vorrei ricordare soltanto i tre punti principali del Programma approvato dal suo IV congresso nel 1994.

Innanzi tutto, c'è la netta posizione dell'SPT circa l'inopportunità e l'impossibilità di ricreare nella Russia di oggi un modello di «socialismo di Stato», e neppure un modello da «società dei consumi». E' necessaria una sintesi degli aspetti positivi dei due modelli che abbiano superato la prova del tempo, è necessario creare su tale base una società nuova, naturalmente tenendo conto delle tradizioni storiche e culturali della Russia.

In secondo luogo, questo partito propone una concezione del socialismo fondata su una sintesi tra l'approccio di sistema e quello di valore.

In terzo luogo, il Partito socialista dei lavoratori è convinto che un movimento orientato al socialismo – inteso come concezione moderna dell'umanesimo del XXI secolo – sia una tendenza oggettiva.

E' così che il ricordo del passato, dell'esperienza politica e delle idee di Enrico Berlinguer, è divenuto di per sé un «ricordo del futuro» e persino ci indica che quelle idee – in parte e in nuove forme – possono attecchire in terra russa.

Per questo Berlinguer è attuale, e non soltanto nell'Europa occidentale. Ma se qualcuno si aspetta dall'autore una conclusione con frasi del tipo «l'insegnamento di Berlinguer è forte perché è vero», si sbaglia di molto.

Le idee politiche (sottolineo: esattamente e innanzi tutto politiche) di Enrico Berlinguer sono nate in un'epoca storica del tutto concreta, nelle condizioni di una regione geopolitica concreta, e riguardavano innanzi tutto i problemi relativi all'evoluzione dei paesi di una data regione. E' da pensare che lo stesso Berlinguer si sarebbe molto meravigliato se qualcuno gli avesse proposto di realizzare il «compromesso storico» in Russia. E' impossibile immergersi due volte nella stessa acqua corrente, tanto più se si tratta di fiumi diversi. Ma la vita e l'esperienza politica di Enrico Berlinguer ci insegnano che il politico deve fare politica, che la politica è impossibile senza la ricerca di nuove soluzioni, che il tenere costantemente presenti le condizioni specifiche concrete di un paese o di una regione non esclude, anzi sottintende la capacità di generalizzare, globalizzare, giungere a una sintesi.

L'insegnamento di Berlinguer si è rivelato non onnipotente. Ma era l'insegnamento giusto per l'Italia degli anni Settanta-Ottanta.

(Traduzione di Mark Bernardini)

mercoledì 27 giugno 2007

Prospettive sinistre

di Mark Bernardini

Su un articolo di Milena Gabanelli nel forum della RAI nel gruppo di discussione No Berluska si è sviluppato un dibattito dal quale vi propongo un mio intervento.

...Rita diceva che a votare con i tampax nel naso ci siamo già andati e il risultato l'abbiamo davanti agli occhi.

La Gabanelli, ex intrattenitrice di Telelombardia, dice che sono almeno vent'anni che vota contro, anziché "per". Io, la prima volta che ho votato contro, è stato l'anno scorso. Non è una differenza da poco: denota due mentalità, due percorsi e, in ultima analisi, due obiettivi sideralmente opposti.

Sempre più sconsolata, Rita rifletteva che ora è giunto il momento del PD e dell'ascesa al trono di Veltroni, quello che non è mai stato comunista, ma stava iscritto al PCI per combattere dall'interno. Il futuro è immaginabile, l'impoverimento morale della politica è diventata scienza. L'azzeramento degli ultimi sospiri di sinistra è pressoché inevitabile... E allora, che si fa?.

Si può pensare quel che si vuole della nuova Sinistra di Mussi (e personalmente non ne penso granché bene), però è un tentativo, quello di coordinarsi con parte del PRC, parte del PdCI e parte dei Verdi, che tenta di rispondere alla domanda di Rita. Non è il grande Partito Comunista di Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer? Grazie, lo so. Ma è sempre meglio sia del PD, sia delle posizioni alla Gabanelli. Voglio citare ancora la mia frase preferita sul Partito da "Novecento" di Bertolucci, perché i fatti restano fatti: Depardieu porta in officina un volantino, è l'Unità clandestina.

- Quale Lenin? Guarda come siamo ridotti: non c'è più la casa del popolo, non c'è più la tessera, non c'è più il giornale...

- Toh il giornale, guarda! E' la prova che ci sono dei compagni, che l'hanno scritto e stampato, rischiando la prigione. Toh, guarda per quante mani è già passato. Imparalo. Imparalo a memoria, perché quando si sarà consumato, toccherà a te raccontare agli altri quello che c'era scritto.

- Ma come si fa ad andare avanti, senza nemmeno più la Lega, senza nessuno che ti dice niente? Dì la verità, Olmo, siamo tutti isolati, se protesti ti sbattono in galera, come si fa andare avanti senza il Partito?

- Già: il Partito... Ma che scusa. Il Partito sei tu, e lo sai. E' Eugenia, è Enzo, è Armando, e poi di là dal fiume, c'è tutta la famiglia Azzali, e giù in fondo alla carraia la famiglia del Guercio, lì è il Partito, dappertutto! Se c'è uno che lavora, lì è il Partito! Dietro le sbarre delle prigioni, dove ci sono migliaia di compagni, lì c'è il Partito!

E il fatto è che si continua (e Rossano non perde occasione) a dire: "largo ai giovani!", "largo al nuovo!". Quali giovani, questi lobotomizzati da un quindicennio di berlusconismo?! Quale nuovo, quello che veniva proposto da Ivan Scalfarotto (ricordate, vero?), che dava del vecchio a Pecoraro Scanio (salvo poi tacere sul fatto che Pecoraro Scanio è del '59 e Scalfarotto è del '66) e diceva di non avere mai fatto politica, mentre quindici anni fa era consigliere circoscrizionale del "Sole che ride"?

A me i dilettanti allo sbaraglio incutono timore, rischiano di rappresentare i maiali della fattoria degli animali: bravi, avete cacciato via i padroni umani, e poi? Ma poi è davvero un problema di forma mentis: Rita, il sottoscritto, Franco, Pietro, Mario e molti altri facciamo politica da almeno trent'anni. Embeh? Io ero segretario di zona della FGCI e membro della segreteria del PCI in una circoscrizione romana di 200.000 abitanti, praticamente una città. Franco, se la memoria non mi falla, era segretario della Federazione PCI di Latina, Pietro è stato segretario del nostro circolo FGCI, sempre a Roma. Mario faceva altre cose, ma certo era un punto di riferimento, a Milano. No, non sto candidando nessuno, anche perché, per quanto mi riguarda, temo che, mentre ero seduto sulla riva del fiume ad attendere cadaveri eccellenti, troppa acqua sia scorsa sotto il ponte della solidarietà. Ma certo mi fido molto più di un Carlo Leoni (ex segretario della FGCI romana), di un Marco Fumagalli (ex Movimento Lavoratori per il Socialismo ed ex segretario nazionale della FGCI, con me a pigliare botte a Comiso nel 1983 e 1984), di un Luciano Pettinari (ex Movimento Lavoratori per il Socialismo, Manifesto e Partito di Unità Proletaria), di un Claudio Fava (non solo per il sacrificio del padre: l'ho visto personalmente all'opera al Parlamento Europeo), di un Giovanni Berlinguer (che ad un congresso della FGCI Romana ci disse che la Democrazia Cristiana è un cancro al cui solo pensiero gli prudono i metacarpi), di un Giulietto Chiesa (che non tradì Gorbačëv e lottò contro El'cin), piuttosto che non degli Scalfarotto di turno, simulacri e contraltari proprio dei vari D'Alema, Fassino, Veltroni.

Dunque, io sono seduto al davanzale. Però vedo panorami più speranzosi e più credibili di appena un anno fa.

lunedì 2 aprile 2007

Ucraina: l'Italia deve per forza schierarsi?

di Mark Bernardini

Leggo su Repubblica che in Ucraina il Presidente Juščenko ha sciolto il Parlamento "contro il premier filo russo Janukovič". Siamo alle solite.

Dopo il golpe filo-occidentale e filo-NATO di Juščenko, nel marzo del 2006 si sono tenute le elezioni parlamentari. Il Partito di Janukovič ha ottenuto il 32%, quello della Timošenko (vicina a Juščenko, ma in rotta con quest'ultimo) il 22%, quello di Juščenko il 13%, i socialisti il 5%, i comunisti il 3%. Con i premi di maggioranza, Janukovič con socialisti e comunisti ha costituito un governo ben saldo.

Due settimane fa, undici deputati dell'opposizione filo-Juščenko sono passati con la maggioranza, maggioranza che, come già detto, era comunque tale anche senza di loro.

Juščenko ha masticato amaro ed ha minacciato lo scioglimento del Parlamento. La maggioranza ha risposto minacciando l'impeachment del Presidente.

La Costituzione prevede un solo caso in cui il Presidente abbia tale diritto: qualora non vi sia maggioranza ed il Parlamento sia in stallo. Non è questa la situazione.

Insomma, in questi giorni ne parleremo ancora molto, ma una domanda mi sovviene, ovviamente retorica: Juščenko, pur se con un golpe occidentale, è il Presidente; Janukovič è il capo del governo, invece eletto a furor di popolo. Per Repubblica, al contrario, Juščenko è il Presidente democratico, Janukovič è l'usurpatore filorusso. La domanda: da dove nasce la russofobia di Repubblica?

di Mario Ferrandi

Dalla guerra in Jugoslavia in poi, Repubblica si distinse anche rispetto al Corriere nel fare da megafono alla slavofobia; ma le sue radici sono purtroppo generalizzate e hanno tratto dal '91 alimento originale e feroce proprio dalla sinistra, TUTTA la sinistra eccetto frammenti esigui, come ricorderai in quegli anni. A recitare "La Lista" con Milošević a capo degli assassini era Paolo Rossi a "Su la testa".

Sarebbe interessante interpellare qualche esperto di psicologia del profondo sul perché, ma è il nucleo, la slavofobia intendo, del transito dell'ex PCI, dell'ex sinistra extraparlamentare, perfino della sinistra cattolica, come l'Agesci, schierata a inviare volontari a Sarajevo a difendere i musulmani e a diffamare i serbi cristiani. E' un cesaricidio, una ipostasi di Bruto: pugnalare alle spalle Gorbačëv che aveva fatto quello che la sinistra italiana gli aveva sempre chiesto, disarmare, trasparenza, fidarsi dell'occidente, aprire le gabbie del Patto di Varsavia, migrare verso una socialdemocrazia antiautoritaria per poi, quando lo fece, sposare a tradimento Reagan, l'Impero americano, e l'avventura neocolonialista all'est, abbattere qualsiasi bandierina rossa, provocare e finanziare sollevazioni di piccola borghesia anticomunista, e infine inviare i bombardieri a Belgrado Vorrei anch'io tanto saperti rispondere, ma non lo so fare. Non l'ho mai capito, anche se l'ho seguito e memorizzato nei suoi vari passaggi, questo processo. Gente che si scandalizzava per una molotov, finanziare e armare stragisti e narcotrafficanti come l'UCK con un piacere sublime e decidere liste di fabbriche jugoslave da bombardare col Consiglio di Fabbrica a presidio dentro. Una spiegazione che mi sono dato è che pugnalare alle spalle l'intero mondo slavo fosse una sorta di vendetta a lungo covata in segreto per qualche torto che mi sfugge.

Un sacco di questi rinnegati si è costruito belle carriere con Paese Sera, l'Ora di Palermo e le tesi dell'oro di Mosca. Ciò che ho chiaro è che partecipano, TUTTI, e apparentemente all'unisono, con rarissime differenziazioni marginali, come golem andati in loop, a un disegno di disgregazione imperialista a guida angloamericana dell'Eurasia, che appare a qualsiasi osservatore razionale ampiamente fallito e in fase di reversione rapida, e a una vulgata neoliberista volgare e improbabile, altrettanto vacillante ovunque. Forse è un ceto politico che non ha mai neanche immaginato di esercitare o poter esercitare una sovranità nazionale e un pensiero politico indipendente, né sentimenti di pietas elementare, professionisti del servilismo verso una grande potenza straniera.

Caduta l'URSS, rimanevano gli USA, co' Franza o co' Spagna purché se magna. Prima o poi non dispero che qualcuno si penta e ci racconti la cospirazione imperialista e la sussunzione della sinistra italiana da dentro come è avvenuta. Succederà, il tempo è galantuomo e quello storico è anche non privo di ironia...

sabato 13 gennaio 2007

Cappaggibbì

di Mark Bernardini

Ogni Stato degno di tal nome ha i propri servizi di sicurezza, e ovviamente ogni Stato contrario all'ordinamento statale altrui, ne dice di tutti i colori sui servizi segreti degli altri, per cui l'FSB, forse l'unica struttura non corrotta, diventa l'impersonificazione del male e della corruzione. Del resto, in America, sono abituati, financo con l'attore pazzo Ronald Reagan e il suo "impero del male"... Roba da fumetto, o da cartone animato.

Venendo alla sostanza, il fondatore dei servizi sovietici Dzeržinskij, polacco ed ebreo (come me. No, io non sono polacco), che s'è fatto svariati anni di carcere duro e confino in Siberia con la polizia zarista russa, ha avuto l'intelligenza di fondare i servizi sovietici senza mandare al rogo i funzionari zaristi: aveva capito perfettamente che quelli erano come i carabineri italiani di un tempo (non di adesso), nei secoli fedeli allo Stato, non al governo.

Successivamente e tuttora, gli si affibbiano tutte le colpe del KGB. Peccato che lui abbia fondato la ČK e sia stato ammazzato da Stalin (ufficialmente, appendicite, ed aveva meno anni di me attualmente) nel 1926.

In dicembre del 2005, scrivevo proprio qui:

Stalin col Partito fu ben più che severo. Negli anni '20 ha tolto di mezzo tutti - fisicamente - i compagni di Lenin, la classe dirigente della Rivoluzione: Dzeržinskij, Frunze, Kamenev, Zinov'ev, giusto per fare qualche nome. Poi arriviamo agli anni '30. Togliere Kirov di mezzo non fu facile: era il beniamino del Comitato Regionale di Leningrado. Fu una battaglia memorabile, degna dei migliori western, con Kirov e i suoi che si difendevano armi in pugno dai killer staliniani lungo i corridoi dello Smol'nyj, che meno di vent'anni prima aveva visto i bol'scevichi espropriare, in modo decisamente meno cruento, il potere al governo provvisorio del "socialista rivoluzionario" (eser) Kerenskij, con la sua rivoluzione di febbraio. Beffa: Stalin accusa la "cricca trozkista-buchariniana" dell'omicidio di Kirov. Bucharin, ottimo economista e beniamino del Partito a Mosca, morirà fucilato nel 1938; Trockij, fondatore dell'Armata Rossa, con una picconata in testa di un sicario in Messico nel 1939. Un po' come il socialista Rossetti in Francia negli anni '30 ad opera dei sicari mussoliniani.

In questo contesto, bisogna ripensare anche all'operazione delle purghe, nel quale l'omicidio dei dirigenti amici di Lenin è solo la punta dell'iceberg. Una riflessione che, negli anni, ho riportato qui più volte. Repetita juvant. Le rivoluzioni, da che mondo è mondo, le fanno i giovani. Lenin, il più anziano, nel 1917 aveva 47 anni, Bucharin aveva 29 anni, Trockij 38, Dzeržinskij 40, Frunze 32, Zinov'ev 34, Stalin 38, Čapaev 30, Antonov-Ovseenko 34... Cosa era rimasto del Partito di Lenin dopo le purghe staliniane di metà degli anni '30? All'inizio del 1939 il Partito aveva 1.589.000 membri e 889.000 candidati. Tra i membri, coloro che avevano un'anzianità di tessera antecedente al 1917 erano lo 0,3% (circa 500 compagni); quelli iscritti nel 1917, l'1% (1.600 compagni); iscritti nel 1918-1920, il 7% (12.500 compagni). Nel 1941 nel Partito rimaneva solo un 6% di comunisti entrati nel Partito durante la vita di Lenin.

Un altro dato significativo riguarda i delegati del XVII e XVIII congresso (rispettivamente, 1934 e 1939). L'80% dei delegati del XVII congresso con diritto di voto si era iscritto al Partito negli anni della clandestinità e della guerra civile, cioè prima del 1921. Al XVIII congresso questi delegati erano appena il 19,4%. Quelli della clandestinità erano nel 1934 il 22,6% ed i membri del Partito dal 1917 il 17,7% dei delegati. Nel 1939 la loro percentuale tra i delegati al congresso era rispettivamente del 2,4% e del 2,6%.

Cambiò repentinamente anche la componente anagrafica dei delegati. Metà di questi ultimi al XVIII congresso con diritto di voto era sotto i 35 anni. I delegati dai 36 ai 40 anni rappresentavano il 32%, tra i 40 e i 50 il 15,5%, sopra i 50 il 3%. Altrettanto sostanziali furono i cambiamenti nella composizione sociale del Partito, provocati non solo dalle repressioni di massa, ma anche dalle nuove condizioni di ammissione al Partito (soppressione dei privilegi riservati agli operai), stabilite dallo Statuto del PCP(b) (Partito Comunista Pansovietico bolščeviko), ratificato dal XVIII congresso. Il 28 maggio 1941 la sezione organizzazione ed istruzione del Comitato Centrale ha inviato ai segretari del CC una nota, in cui si comunicava che nel 1939-1940 sono stati ammessi al Partito 1.321.500 persone, tra le quali gli operai erano il 20%, i contadini il 20%, gli "impiegati e gli altri" il 60%. Tra i 3.222.600 membri e candidati del Partito al 1 gennaio 1941 gli operai erano il 18,2%, i contadini il 13%, gli impiegati il 62,4%, gli studenti e gli altri il 6,4%. Tra gli operai, i membri e i candidati del Partito tra il 1933 e il 1940 sono scesi dall'8 al 2,9%, mentre tra gli impiegati sono saliti dal 16,7% al 19,2%. Nonostante la quantità di operai nel Paese fosse cresciuta nello stesso periodo del 25,8%, la quantità di operai comunisti si era ridotta da 1.312.000 a 584.800 persone (questo indirettamente sta a testimoniare che gli operai furono uno degli obiettivi principali delle purghe di Partito del 1933-1936 e delle repressioni di massa del 1937-1938). Nel 1941 c'era un comunista per ogni 35 operai ed ogni 5 impiegati. Tra gli impiegati comunisti era particolarmente alto il peso specifico dei funzionari, dei militari e degli addetti degli organi di repressione.

1)La VČK, Commissione Straordinaria Panrussa, è stata fondata nella Russia sovietica da Dzeržinskij il 20 dicembre 1917. E' rimasta tale fino alla creazione dell'URSS, dopo la guerra civile, il 6 febbraio 1922.

2)La GPU (Direzione Politica di Stato) è rimasta tale fino al 2 novembre 1923.

3)Trasformata in OGPU (nessuna differenza: Direzione Politica di Stato Unificata), è rimasta tale fino al 10 luglio 1934. Il capo è stato comunque Dzeržinskij, dal 20 dicembre 1917, a quando l'hanno ammazzato, il 20 luglio 1926.

4)Molto più nota l'NKVD (Commissariato Popolare per gli Affari Interni), dal '34 appunto, al 3 febbraio 1941. Come è noto a chi legge un minimo, in qualunque lingua, in Europa occidentale i nazisti già imperversavano.

5)E' importante perché in realtà l'NKVD, prima dell'invasione nazista (22 giugno 1941), nel febbraio 1941 fu suddivisa in NKVD vera e propria ed NKGB (Commissariato Popolare per la Sicurezza dello Stato), per poi essere riuniti nuovamente un mese dopo iniziata l'invasione nazista ed essere stata proclamata conseguentemente la "Grande Guerra Patriottica"; trasformato nuovamente, unificato, in NKGB nell'aprile 1943. La battaglia di Stalingrado (grazie alla quale tutti voi e tutti noi non abbiamo i ritratti di Adolf come fondatore della Patria nei nostri uffici, altro che yankees, poche palle: chi è che è arrivato ad Oświęcim, alias Auschwitz - non è in Germania, do you remember? -, contrariamente a quanto in Italia insegnano a scuola e persino in film com "La vita è bella" di Roberto Benigni?), iniziata, a differenza di come ve la raccontano, il 23 agosto 1942 e terminata il 2 febbraio 1943. La macchina da guerra della Wermacht si è arenata sulle rive del Volga. E' così, e non altrimenti, che è finita la "peste bruna".

6)Torniamo a noi. Il 15 marzo 1946 l'NKVD viene trasformato in MGB (Ministero per la Sicurezza di Stato), per dare un segnale di discontinuità, come in Italia.

7)Il 7 marzo 1953 (due giorni dopo la morte di Stalin e tre anni prima dello storico XX Congresso del PCUS, con la relazione destalinizzante di Chruščëv), l'MGB viene inglobato nel Ministero degli Interni.

8)Il 13 marzo 1954 viene fondato il famoso KGB (Comitato per la Sicurezza dello Stato). Andropov, che ne viene spacciato per capo vita natural durante, nel 1956 era ambasciatore a Budapest e cercò a tutti i costi di evitare i carri armati, nonostante essere stato vittima di un attentato in cui morì sul colpo il suo autista e rimase semiparalizzata per sempre sua moglie), fu capo del KGB "appena" (si fa per dire) dal 1967 al 1982. Come che sia, fu lui a sponsorizzare il segretario del PCUS di Stavropol' Gorbačëv.

9)Va beh, poi sono iniziate le pagliacciate el'ciniane: il 26 novembre 1991 (il 18 agosto c'era stato il tentativo di golpe, il 26 dicembre Gorbačëv scioglie l'URSS in diretta televisiva), El'cin fonda l'AFB (Agenzia per la Sicurezza Federale).

10)Il 24 gennaio 1992 sempre l'ubriacone El'cin, tanto amico degli Stati Uniti, fonda l'MB (Ministero per la Sicurezza).

11)Il 21 dicembre 1993 (nell'ottobre del medesimo anno El'cin fece bombardare il Parlamento, peggio della Moneda a Santiago del Cile dell'11 settembre 1973), El'cin istituisce l'FSK (Servizio Federale di Controspionaggio).

12)Il 3 febbraio 1995 sempre lui fonda l'FSB, che ridendo e scherzando esiste da 12 anni.

giovedì 9 novembre 2006

Anna Politkovskaja 2

di Mark Bernardini
Come è noto, sono stato ai funerali della Politkovskaja.
Cosa ne pensi personalmente, l'ho già scritto tempo addietro.
Ho saputo che in Italia c'è chi, come sempre "a sinistra", propone di intitolare alla Politkovskaja tutte le vie d'Italia dove siano presenti Ambasciata, Consolati e Rappresentanze Commerciali della Federazione Russa. Nella pratica del "re-intitolamento" di vie preesistenti finora hanno eccelso Stalin, Mussolini e El'cin. Se non si ritene imbarazzante siffatta congrega, ci si accomodi. Voglio ora riportare alcune voci "fuori dal coro", giuntemi in queste settimane.
Anna Politkovskaja, pur esaltata come martire della verità a destra e sinistra, non era che una spia al servizio dell'imperialismo. Intima di Eltsin e della sua banda di criminali mafiosi, non ha mai denunciato il minimo malaffare di quei distruttori dell'URSS e della Russia, nè dell'ubriacone venduto a Washington, nè dei suoi oligarchi che si sono mangiati i russi vivi e si sono venduti perfino i cimiteri. Regolare collaboratrice del circuito radio "Liberty" (ricordate Radio B-92 e Otpor???) gestito dalla Cia fin dal 1948 per destabilizzare i paesi socialisti, è stata il megafono dei terroristi ceceni finanziati e armati dalla Cia e dal Mossad per sottrarre il petrolio caucasico alle rotte e al controllo dei russi. Pessima scrittrice, non è accettabile che una sinistra non corrotta come quella di Bertinotti o di parte del manifesto si allinei passiva e acritica agli sterotipi falsi della propaganda imperialista gestita dai gangster di Washington, Tel Aviv e UE. La Politkovskaja era la Fallaci o il Magdi Allam russo. Niente di più. Una vera schifezza.
Fulvio Grimaldi
A me personalmente, Grimaldi non è mai piaciuto: inutilmente maleducato e violento verbalmente, ottiene lo scopo opposto a quello che si prefigge. Tuttavia, "deflorato" delle intemperie lessicali, ha ragione da vendere: i morti non hanno sempre ragione per il solo fatto di essere morti. E radio Svoboda (Liberty), che in URSS era ascoltata da tutti sulle onde corte, di nascosto in cucina, analogamente alla radio "Voice of America", era finanziata apertamente ed ufficialmente dal Congresso statunitense e trasmetteva da Berlino Ovest, per poi spostarsi a Praga dagli anni '90 e fino ai nostri giorni.
A proposito dell’assassinio di Politkovskaja di Movisol.org L’assassinio della giornalista russa dissidente Anna Politkobvskaya va inquadrato nel contesto della serie di assassinii avvenuti nelle ultime settimane, evidentemente miranti a ledere la stabilità politica del presidente Vladimir Putin. Tutti gli assassini in questione sono stati condotti da “professionisti”. E’ noto che il crimine organizzato russo è collegato con i vari oligarchi latitanti dalla giustizia russa. Il più famoso degli oligarchi è Boris Berezovsky che ha ottenuto “asilo politico” in Inghilterra. * Il 14 settembre è stato assassinato Andrei Kozlov, vice presidente della banca centrale russa. Deciso sostenitore della politica del governo, Kozlov era impegnato contro il riciclaggio del denaro ed aveva ordinato il ritiro di alcune licenze bancarie. * Il 30 settembre è stato assassinato Enver Zighashin, ingegnere capo della TKN BP, la sussidiaria russa della British Petroleum. Si tratta di un assassinio che certamente non ha risolto gli attriti tra Russia e imprese petrolifere occidentali ma li ha piuttosto aggravati. * Il 7 ottobre è stata assassinata Anna Politkovskaya. * Il 10 ottobre è stato assassinato Alexander Plokhin, direttore della branca moscovita della Vneshtorgbank, banca di stato che riveste un ruolo importante nei rapporti economici che la Russia intrattiene con Africa, Asia, America Latina ed Europa, in particolare quelli promossi dallo stesso Putin. La Vneshtorgbank ha recentemente acquistato il 5% del gigante aerospaziale europeo EADS, proprietario di Airbus. L’acquisto ha suscitato una notevole controversia, sia a motivo delle implicazioni economiche che quelle di sicurezza. * Il 16 ottobre è stato assassinato Anatoly Voronin, esperto immobiliare della Itar-Tass. Alexander Lebedev che è comproprietario, con Michail Gorbaciov di Novaya Gazeta, il giornale su cui scriveva la Politkovskaya, ha pubblicato un commento intitolato: “Chiunque abbia sparato alla Politkovskaya mirava ai suoi avversari” — in altre parole mirava al regime di Putin. La Politkovskaya era così nota come oppositrice del regime, scrive Lebedev che è fin troppo facile sospettare coloro che lei criticava. “Ma non dobbiamo considerare attentamente la possibilità che chi ha ordinato l’assassinio voleva che noi facessimo proprio questo? Forse un’ondata di rabbia contro coloro che la giornalista criticava è proprio l’effetto su cui contavano i killer? Così sparando alla giornalista miravano ai suoi avversari”. Nel corso della sua visita in Germania, tra il 10 e l’11 ottobre, il presidente Putin ha fatto due volte riferimento al grave episodio. A Dresda il presidente ha detto, secondo quanto riferito dalla Pravda: “Non molto tempo fa fu ucciso un altro giornalista, Paul Khlebnikov. Dopo la pubblicazione del libro intitolato «Conversazioni con un barbaro», in cui i personaggi principali sono posti in cattiva luce, lui è stato ucciso. Non so chi l’abbia uccisa [Anna Politkovskaya], ma è chiaro che chi si sta sottraendo alla giustizia ha valutato l’opportunità di sacrificare qualcuno per incoraggiare i sentimenti anti russi nel mondo”. Nell’intervista concessa l’11 ottobre al Sueddeutsche Zeitung, pubblicata integralmente solo sul sito Kremlin.ru, Putin ha detto: “Saprete che diversi anni fa un giornalista americano di origini russe, Paul Khlebnikov è stato ucciso in Russia. Si era occupato dei problemi della Repubblica di Cecenia ed aveva scritto un libro intitolato «Conversazioni con un barbaro». Stando alle indagini, i protagonisti del libro non erano contenti di come Khlebnikov li ha presentati e lo hanno distrutto”. Il “barbaro” in questione è Khodj-Akhmed Nukhayev, il finanziatore del separatismo del Caucaso Settentrionale: Oggi Nukhayev vive in Israele, fa affari con il lord inglese McAlpine ed è sospettato di collegamenti con Boris Berezovsky. Khlebnikov era il genero di John Train, personaggio di Wall Street impegnato nelle operazioni contro Lyndon LaRouche. Nel 2005 Anna Politkovskaya ha ricevuto il “Premio per il coraggio civile” del Northcote Parkinson Fund di John Train.
Ecco un guizzo di genio dall'impareggiabile Michele Serra, a proposito delle dichiarazioni stizzite di Putin sulla mafia:
L'amico Putin, seppure coi suoi modi da steppa, per una volta ha detto una cosa ahimé giusta: quanto a mafia, l'Italia non ha le carte in regola per dare lezioni agli altri. Ma la politica dev'essere davvero una specie di droga se è vero, come è vero, che le reazioni italiane sono state perfino più stonate del prevedibile. La sinistra, che di mafia parla da quando è nata come di un cancro che corrode il paese, e da Portella della Ginestra fino a noi conta tra i suoi uomini la grande maggioranza delle vittime di mafia, si è inalberata come se Putin avesse detto chissà quale enormità. Viceversa Berlusconi e molti dei suoi soci, che in cinque anni di governo hanno stabilito un vero e proprio record di omertà politica rispetto alla questione mafiosa (e stendiamo un velo pietoso su Mangano e Dell'Utri), ha difeso a spada tratta l'amico Putin. Cioè: se a dire "mafia" è un pm italiano, che magari rischia la pelle, nel centrodestra si grida al giustizialismo. Se lo dice Putin, allora è una verità da applaudire. Non saprei proprio, in questo quadro insieme penoso e stravagante, quali delle due parti politiche si sia maggiormente distinta per incoerenza. Diciamo solo che, come spesso accade, la sinistra immalinconisce, la destra fa morire dal ridere. Michele Serra, Repubblica, 25 ottobre 2006
Ma proprio l'Unità, unico giornale italiano ad avere indicato in Putin il mandante dell'omicidio della Politkovskaja fin dal primo giorno, riporta pochi giorni fa, inconsapevole delle proprie contraddizioni interne:
Rispetto al 2005, siamo scesi di altre cinque posizioni nella classifica della corruttibilità, passando dal 40° posto al 45°, dopo il Botswana, la Giordania, la Corea del Sud. A fotografare l´amara situazione, il Rapporto 2006 di Transparency International (Ti), l´organizzazione non governativa che è impegnata nella lotta alla corruzione e che ogni anno stila una classifica che registra la percezione della corruzione in 163 paesi del mondo. Nella scala di voti, da 1 a 10, l´Italia non sfiora nemmeno la sufficienza, fermandosi al 4.9. Al primo posto, con un 9.6, la Finlandia, seguita dagli altri paesi scandinavi (Danimarca, Svezia, Norvegia) ma anche da Nuova Zelanda, Singapore e Australia. Il resto dei paesi europei ci distacca di molto: il Regno Unito si posiziona all´11° posto, la Germania al 16°, la Francia due postazioni più in basso. I cittadini statunitensi percepiscono un grado di corruzione che fa classificare gli Usa al 20° posto, ancora lontanissimo dall´aria corrotta che si respira in Italia. L'Unità, 7 novembre 2006
Insomma, pongo retoricamente per la terza volta una domanda. In certi esercizi ginnici eccelle in particolare l’Unità, probabilmente per un malcelato (e male interpretato) senso di peccato originale, protesa spasmodicamente a dover dimostrare di essere più antisovietica dei sovietici. Legittimo. Purtroppo, finisce regolarmente col trascendere in russofobia. [...] Quali sono gli obiettivi della sinistra italiana e dell’Unità?

giovedì 26 maggio 2005

Mitrochin

Il 7 gennaio scorso è deceduto a Mosca Lev Mitrochin (nessuna parentela con il Mitrochin della famosa Commissione voluta da Berlusconi). Era nato il 16 febbraio 1930. Il suo curriculum era ricco di titoli accademici, di decine di libri pubblicati e tradotti, di collaborazioni con importanti riviste. I vecchi lettori di Rassegna Sovietica forse ricorderanno qualche recensione a qualcuno dei suoi libri dedicati agli Stati Uniti o ai "problemi dell'ateismo". Già, perché il suo interesse preminente di studioso era, sì, rivolto da sempre alla religione, al rapporto tra marxisti e credenti, particolarmente alle tematiche della teologia della liberazione. Ma fino all'avvento della perestrojka di Gorbačëv chi in URSS voleva occuparsi di questi argomenti doveva per forza farlo sotto la copertura dell'ateismo. Ricordo la stima che lo circondava tra gli esponenti della filosofia sovietica. Una volta, negli anni Settanta, durante una cena a Roma con importanti filosofi russi della corrente cosiddetta "italianista", parlando di lui rivelai un fatto di carattere personale: eravamo stati sposati, io e Lëva, con due sorelle e in quel momento eravamo entrambi divorziati. Come risposta, venne la proposta allegra e goliardica dei sovietici - in sintonia con l'atmosfera conviviale - di brindare alla mia salute "in quanto ex parente" di Lëva Mitrochin.

Un altro episodio che mi piace ricordare risale ai primi anni della perestrojka. Un gruppo di quelli che in Russia sarebbero poi diventati famosi con il nome di "oligarchi", i nuovi ricchi, organizzò una crociera "culturale" nel Mediterraneo di cui ancora oggi non sono stati chiariti molti aspetti. Il fatto è che vennero invitati a parteciparvi - gratuitamente - alcuni degli intellettuali russi più prestigiosi, tra cui Sergej Averincev e lo stesso Lev Mitrochin. Andai a ricevere Lëva nel porto di Civitavecchia. La nave russa era ancorata vicino alla banchina, c'era un via vai di gente che saliva a bordo e scendeva, nessun controllo da parte delle autorità italiane. Qualcuno portava pacchi di non si sa che cosa. Io e la mia compagna Flora prelevammo un Lëva alquanto smarrito, forse un po' alticcio, e lo portammo a cena a Roma.

Un tratto del suo carattere da non dimenticare era la sua generosità. Quando lui era già un autore di successo - e in epoca sovietica, come si sa , la pubblicazione di un libro comportava onorari considerevoli - mentre io ero un povero studente dell'Università di Mosca, era sempre lui a pagare il conto ogni volta che si andava in compagnia al ristorante.

La sua seconda moglie era una giovane laureata in filosofia, ambiziosa, dominata - si capì poi - da un suo sogno americano. Riuscì a convincere il marito ad accettare il modesto incarico di secondo segretario d'ambasciata a Washington, lui che aveva il titolo accademico di doktor nauk. L'importante per lei era andare negli USA e partorirvi un figlio, la via legale più sicura per ottenere la cittadinanza americana. Un giorno, dopo il lavoro, tornato nella sua casa di Washington, Lëva la trovò piena di agenti della CIA e del KGB. La moglie li aveva convocati dicendo che lei e suo marito avevano "scelto la libertà". Lëva, sorpreso, dichiarò di essere assolutamente estraneo a quella decisione della moglie. I due servizi segreti aprirono un'indagine e il risultato fu che la moglie e la figlia di Lev Mitrochin rimasero a Washington e lui tornò a Mosca. E qui lo aspettava un'altra sorpresa. La sua casa moscovita era totalmente vuota. Il fatto è che poche settimane prima la moglie aveva fatto una scappata a Mosca e aveva venduto tutto, mobili, letto, frigorifero, la bellissima collezione di dischi di Frank Sinatra, Benny Goodman e tutti i classici del jazz americano, che Lëva aveva raccolto in tanti anni. Insomma, l'unica cosa che non era stata venduta era la proprietà dell'appartamento, e solo perché era intestata a Lëva, che dovette ricominciare a mettere su casa facendosi prestare per prima cosa una brandina dagli amici.

Nonostante questa vicenda, nella biografia di Lev Mitrochin il legame con gli Stati Uniti era rimasto forte. Dolorosa era stata per lui la perdita in un incidente automobilistico del giovane rampollo della dinastia Rockefeller, suo caro amico fraterno. Era anche un appassionato estimatore del film Casablanca. Immancabilmente, ogni volta che ci si vedeva a Mosca o a Roma, mi diceva: "Dino, tu che hai orecchio, mi canti la canzone di Sam?".

Addio, Lëva, amico mio. Per noi vecchi atei non c'è consolazione.

Dino Bernardini (da Slavia N°2 del 2005)

martedì 1 febbraio 1994

Andropov: il gensek venuto dalla Lubjanka

di Roj Medvedev

Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo qui l’introduzione del libro di Roj Medvedev “Gensek s Lubjanki” [Un Segretario Generale venuto dalla Lubjanka], edito nel 1993 a Mosca.

Roj Medvedev, uomo di grande rigore e onestà intellettuale, già comunista dissidente, espulso dal PCUS ai tempi di Brežnev e poi riammesso da Gorbačëv, autore di fondamentali saggi sullo stalinismo, tutti pubblicati in Italia, all'inizio degli anni '90 è stato il leader del “Partito socialista dei lavoratori” e rimane un punto di riferimento in Russia per molti democratici di ispirazione socialista (n.d.r.).

Gli storici ed i sovietologi occidentali hanno ormai quasi dimenticato Ju. V. Andropov, proclamato “uomo dell’anno” nell’ultimo numero della diffusissima rivista americana “Time” del 1983. Non pochi eminenti uomini politici del mondo ne sarebbero stati fieri. Brežnev non ebbe un simile onore dai mezzi occidentali di informazione di massa in tutti i diciotto anni che fu al potere.

Di fatto, fino al 1982 nessuno sapeva nulla di Andropov né come uomo, né come politico. Ciò era dovuto alla chiusura generale della società sovietica, ed in particolare alla riservatezza sulla vita dei suoi vertici, ma anche al fatto che per oltre quindici anni Andropov era stato il capo della polizia segreta sovietica e aveva preferito rimanere nell’ombra. Nella maggior parte dei casi i suoi viaggi, sia nel Paese che all’estero, avvenivano segretamente. Tuttavia, non era un mistero per nessuno che il ruolo e l’influenza del KGB sulla vita dell’Unione Sovietica e sulla sua politica interna ed estera erano cresciuti incessantemente nel corso di quel quindicennio durante il quale tale comitato fu diretto da Andropov. Proprio queste circostanze divennero la causa principale dell’enorme interesse per questo personaggio quando la televisione e la radio informarono il mondo che Ju. V. Andropov era stato eletto nuovo leader del PCUS.

La stampa internazionale commentò in tutti i modi questo avvenimento e captò ogni piccola notizia riguardante il nuovo dirigente sovietico. Se le prime biografie di L. I. Brežnev furono pubblicate nella RFT e negli USA solo nel 1973 e 1974, ovvero quasi dieci anni dopo il suo arrivo al potere, già nel 1983 in Occidente comparvero oltre dieci biografie di Ju. V. Andropov, e nel 1984 vennero pubblicati vari altri libri nei Paesi occidentali. E’ difficile definire vere biografie politiche tutte queste opere, poiché in esse un’esposizione più o meno particolareggiata dei fatti della realtà e della storia sovietica si combinava con informazioni casuali, spesso addirittura imprecise circa il nuovo leader sovietico. Qua e là i fatti venivano sostituiti con gialli deliberatamente inventati. Probabilmente il miglior libro su Andropov è l’opera dei giornalisti inglesi J. Steele ed Eric Abraham (Steele J., Abraham E.: Andropov in Power. Oxford, 1983) “Andropov al potere”. Anche mio fratello Žores è stato autore di una sua biografia, ed anche questo libro risaltava sullo sfondo generale degli “andropovologi” (Medvedev Ž.: Andropov. Oxford, 1983).

Nello spiegare i motivi del suo interesse per la personalità di Andropov, Žores ha scritto nella sua prefazione: “Un cambio della direzione in Unione Sovietica è una tale rarità che sotto un certo aspetto è simile ad una rivoluzione, Brežnev ha occupato il suo posto per 18 anni. In questo periodo ha avuto a che fare con cinque presidenti americani e sei primi ministri britannici. Questi tempi estremamente lunghi di governo fanno sì che l’incarico di capo dell’Unione Sovietica sia importantissimo nel mondo. E’ possibile che gli USA siano più forti come Paese e Stato sotto il profilo economico e militare, ma i presidenti americani possono realizzare determinati programmi solo in casi estremi. E’ inverosimile che rimangano al potere tanto tempo da seguire l’esecuzione di grandi programmi dall’inizio alla fine. In URSS al contrario i dirigenti non sono legati da limitazioni temporali nella loro permanenza in carica, essi non sono contrastati da alcun Congresso, per non parlare dell’opinione pubblica. Si tratta di una tale pienezza del potere in una sola persona che qualunque cambiamento nella direzione sovietica diventa un avvenimento di portata internazionale. L’ultimo cambiamento del genere ha avuto luogo il 12 novembre 1982, quando è morto Leonid Brežnev. La morte di Brežnev in quanto tale non è stata affatto improvvisa. Piuttosto, non ci si aspettava che il successore di Brežnev alla carica di Segretario generale del PCUS diventasse Jurij Vladimirovič Andropov, ex Presidente del KGB e palesemente persona di tempra non brežneviana. Il fatto che non fosse il favorito di Brežnev si era manifestato specialmente negli ultimi cinque anni. In questo libro cercherò di mostrare i motivi per i quali tali mutamenti hanno avuto luogo ugualmente, e di formulare alcune deduzioni relativamente a quel che deve attendersi il mondo dalla nuova direzione sovietica…

“E’ difficile per un ex dissidente e cittadino sovietico scrivere a proposito dell’ex capo del KGB. Ho cercato, per quanto mi era possibile, di mantenere il libro in uno spirito pratico e sfogare solo in minima parte i miei sentimenti personali” (Medvedev Ž.: Andropov. p. 3).

Devo dire che il mio interesse personale verso Andropov come politico e come persona è sorto già all’inizio degli anni ‘60, quando era segretario del CC del PCUS per le questioni internazionali. Alcuni miei buoni conoscenti ed amici degli anni di studio lavoravano nell’apparato delle due sezioni esteri del CC, e mi hanno aiutato molto nel raccogliere i materiali per il libro su Stalin e lo stalinismo. In particolare, ho potuto leggere alcuni libri occidentali su Stalin e la sua epoca, che erano stati tradotti in russo e pubblicati in tirature limitate esclusivamente per i “funzionari responsabili”, nonostante che in Occidente spesso si trattasse di best-sellers politici noti a qualunque sovietologo. I miei amici sovente parlavano con molto rispetto di Andropov, che, a detta loro, per erudizione, intelletto e stile di lavoro non somigliava affatto agli altri segretari del CC, quali ad esempio B. N. Ponomarëv o L. F. Il’ičëv, dei quali peraltro si parlava con manifesta sufficienza, non solo nell’apparato del CC, ma anche in ambienti a me noti dell’intelligencija letteraria.

Personalmente ho incontrato allora Andropov una volta sola, e fu un incontro troppo fugace perché potessi farmene un’opinione chiara, Tuttavia, per me era importante la ragione di tale incontro: Andropov chiese di mostrargli il manoscritto del mio libro “Al giudizio della storia”, allora ben lontano dall’essere terminato. Successivamente, dopo aver espresso soddisfazione attraverso il suo consulente G. Ch. Šachnazarov, Jurij Vladimirovič mi chiese il permesso di lasciare nel suo archivio il manoscritto che aveva letto. Medesima richiesta, ma tramite un intermediario a me sconosciuto della Casa editrice di letteratura politica, mi era stata fatta anche da L. F. Il’ičëv. Ma solo nell’autunno del 1965, quando Il’ičëv ormai lavorava al Ministero degli Esteri, un corriere speciale mi riportò il manoscritto con il bollo “CC del PCUS”, senza alcun giudizio.

Dai racconti dei funzionari della sezione esteri si poteva dedurre che Andropov fosse una persona pienamente assorta nella politica. La politica era la sua passione principale ed Aleksandr Bovin, suo amico di lunga data, lo chiamava per scherzo “homo politicus”. Da tutto quel che avevo sentito già allora su di lui, era evidente che pensava non solo ad una grande carriera politica, e che non era un semplice funzionario politico, bensì una persona di determinate opinioni, e per di più chiaramente insoddisfatta della situazione che si era creata nel Paese negli ultimi anni dell’“epoca Chruščëv” e nei primi anni dopo la destituzione di Chruščëv.

Ma Andropov era allo stesso tempo estremamente prudente, ed esprimeva la propria opinione solo in un ambito ristrettissimo, e probabilmente anche in quel caso non proprio schiettamente. Godeva della reputazione di persona onesta, che non temeva di dire la verità, nonostante che né ai tempi di Chruščëv, né a quelli di Brežnev fossero molte le sue proposte a cui venisse prestato ascolto attentamente.

Andropov non era uno stalinista, ma come politico e come persona non gli riuscì mai di liberarsi da molti suoi tratti e dogmi, caratteristici per gli statisti di quell’epoca severa e terribile. Egli esigeva ordine, ma non era capace di grandi riforme all’interno del Partito e nella società sovietica. Andropov era un sincero fautore del marxismo e del leninismo e non pose mai, né al Partito, né a se stesso, la questione di un profondo ripensamento degli insegnamenti sul socialismo o sul capitalismo.

Dopo che a metà degli anni ‘70 Brežnev subì la prima emorragia cerebrale ed il primo infarto, riuscendo ad uscire dallo stato di morte clinica, non senza danni per la sua salute e per il suo intelletto di per sé non troppo lucido, il tema della successione al potere in URSS era divenuto una costante negli organi di stampa occidentali e nelle previsioni dei sovietologi. In quegli anni tutti vedevano una crescente concentrazione del potere nelle mani della “squadra di Brežnev”, tutti vedevano le forme di culto sempre più mostruose ed importune, ma anche l’avvicinarsi della fine di quell’uomo. Non stupisce che nei colloqui e nelle interviste i diplomatici ed i corrispondenti occidentali mi chiedessero sempre più spesso: “Chi potrà mettersi alla testa del PCUS e dello Stato sovietico dopo la morte di Brežnev?”.

All’epoca, A. P. Kirilenko veniva considerato quasi successore ufficiale, ma erano in pochi a credere che potesse conservare il potere nelle sue mani, tenendo conto della lotta complessa e spesso spietata che nella nostra storia ha accompagnato di solito il cambio di leader del Partito e del Paese. Dalla fine degli anni ‘70 Brežnev iniziò a promuovere sempre più vicino ai vertici del potere K. U. Černenko, che divenne membro effettivo del Politbjuro e capo dell’enorme apparato di potere personale di Brežnev. Tuttavia, a me sembrava più probabile che successore di Brežnev potesse diventare proprio Ju. V. Andropov, che nascondeva scrupolosamente le proprie ambizioni politiche ed era estremamente leale nei confronti di Brežnev, ma ancor più scrupolosamente ed insistentemente si preparava alla lotta inevitabile per la direzione. Nelle mie previsioni mi basavo su alcuni semplici presupposti.

Sullo sfondo della direzione inetta, ignorante, debole politicamente e fisicamente, che abbiamo avuto a cavallo degli anni ‘70 ed ‘80, Andropov risaltava, o quantomeno appariva un politico eminente e capace. Mentre sotto gli occhi di tutto il Paese aveva luogo non solo un invecchiamento, ma una degenerazione morale dei vertici statali e di Partito, corrotti ed inerti, Andropov continuava ad essere a capo e a potenziare il Comitato per la Sicurezza di Stato [KGB], che diventò non solo uno strumento di potere sempre più forte, ma l’organizzazione meno contaminata dal virus della corruzione. Andropov non poteva non sapere del peggioramento della situazione nel Paese, per lui non erano un segreto neanche i difetti delle persone al potere. L’esercito era un’altra istituzione di potere la cui influenza continuò a crescere negli anni ‘70 e che era poco coinvolta nello sfacelo politico e morale. Il prestigio della direzione militare era molto alto, ma è proprio con Andropov che venne superato il conflitto esistente già ai tempi di Stalin, ovvero l’ostilità tra l’esercito ed il KGB. Sembrava poco probabile che l’esercito, nella persona del ministro della difesa D. F. Ustinov e della élite dei generali, nel caso di una crisi al potere potesse sostenere Černenko o Kirilenko. Alla fine degli anni ‘70 giunse alle medesime conclusioni anche mio fratello Žores, che dal 1973 viveva e lavorava a Londra ed analizzava attentamente gli avvenimenti che si succedevano in URSS. Egli illustrò ripetutamente nelle sue interviste le proprie supposizioni, ma pochi vi prestarono attenzione. La figura di Andropov come probabile leader dell’URSS non suscitava molto interesse presso i maggiori sovietologi occidentali, che ritenevano impossibile che in Unione Sovietica giungesse al potere il capo del KGB, al quale all’epoca essi riservavano appena il settimo o l’ottavo posto nella gerarchia sovietica del potere.

Tuttavia, nessuno in Occidente, e persino noi stessi non supponevamo che la permanenza di Brežnev al potere e l’agonia del suo regime sarebbero durate così a lungo, accompagnate da un approfondimento della crisi politica ed economica del Paese. Come che sia, l’epilogo arrivò nel novembre del 1982, ed improvvisamente, per la maggioranza degli osservatori e dei politologi, venne eletto quale successore di Brežnev proprio Ju. V. Andropov. Poco più di un anno prima, negli USA era giunto al potere il nuovo presidente Ronald Reagan. Cosi, molti supposero che appunto Andropov e Reagan, in quanto leaders delle due superpotenze, avrebbero esercitato un’influenza decisiva sui processi politici mondiali degli anni ‘80. Naturalmente, tutti si erano subito preoccupati per la seguente questione: quali nuovi accenti porrà nella sua attività il nuovo leader sovietico? Sarebbe diventato un dirigente di tipo transitorio, o da lui sarebbe iniziata una nuova era di politica interna ed estera dell’URSS? Quali persone nuove avrebbe promosso ai vertici del potere? Quali caratteristiche avrebbero assunto le relazioni con il clan di Brežnev, ancora potente sotto tutti i punti di vista?

Ju. V. Andropov rimase al potere appena quindici mesi, e non abbiamo potuto avere riposta a molti quesiti, anche se le tendenze principali della sua politica si delinearono in maniera piuttosto chiara. Contrariamente alle previsioni, colui che fino a poco tempo prima era stato il capo del KGB, riuscì non solo a consolidare il proprio potere in poco tempo, ma a conquistarsi l’indubbio rispetto di una buona parte, se non della maggioranza, della popolazione del Paese. Né la stampa, né la propaganda cercarono di creare in quei quindici mesi il culto di Andropov. E ciò nonostante, la leggenda di Andropov, o leggenda su Andropov, si diffuse in tutti gli strati della popolazione, compresa l’intelligencija, crebbe molto rapidamente e continua ad esistere tuttora. Per questo la direzione di Andropov, a differenza per esempio dell’“anno di Černenko”, ha lasciato una solida traccia nella coscienza della maggioranza della gente sovietica.

E’ noto che la maggioranza dei cittadini dell’URSS accolse l’annuncio della morte di Brežnev con un’indifferenza che suscito sorpresa nei corrispondenti occidentali. Molti addirittura non tentarono nemmeno di nascondere un senso di sollievo. Non furono invece in molti a rallegrarsi della morte di Andropov, la maggioranza se ne dispiacque e provò persino inquietudine.

“Aveva appena iniziato a mettere un po’ d’ordine…”, “Voleva equità”. Simili parole le sentii nel febbraio 1984 in molti luoghi. Eppure, durante la permanenza di Andropov al potere di fatto sapevamo poco su di lui come uomo politico e come persona. Ancor meno se ne sapeva come presidente del KGB: i dirigenti della polizia segreta di qualsiasi Paese non tendono alla pubblicità e non possono contare su una particolare popolarità, tanto meno da noi. Ciò nonostante Andropov riuscì a conquistarsi in un periodo molto breve una certa popolarità ed a suscitare interesse nei confronti della sua persona; un interesse in crescita si registrò dal novembre 1982 al febbraio 1984. La fonte di tale popolarità fu indubbiamente quel netto contrasto tra la disgregazione e la dissoluzione degli ultimi anni dell’epoca brežneviana, la degradazione della persona stessa di Brežnev, e la personalità di Andropov, che riuscì in breve tempo ad iniziare a stabilire un ordine elementare nel Paese.

La gestione Andropov ha mostrato in maniera lampante che all’inizio degli anni ‘80 nella nostra società esistevano (ed ovviamente non sono scomparsi all’inizio degli anni ‘90) non solamente il desiderio e l’aspirazione alla democrazia, alla difesa dei diritti dell’uomo e della libertà, cosa che trovo riflesso nel movimento dei dissidenti, contro il quale sia Brežnev che Andropov condussero una lotta incessante.

Nella società, all’interno di una imponente parte della popolazione, esisteva una nostalgia altrettanto forte e sincera per la “mano forte”, un “leader forte”, un “padrone” che si fosse preoccupato del bene del popolo, e non del proprio benessere e dei privilegi del suo entourage, come invece faceva la direzione mafiosa brežneviana.

Proprio per questo una parte non indifferente dei cittadini salutò con sincerità ed interesse l’arrivo al potere di Andropov e le sue prime iniziative.

Oggi questa nostalgia di molte persone per l’ordine rigido e la “mano forte” è addirittura in parte cresciuta. Certo, gli anni impetuosi della perestrojka, la moltitudine di eventi contraddittori degli ultimi anni, le svolte ed i capovolgimenti che hanno decisamente cambiato il volto del nostro Paese e della nostra società, nonché la situazione in Europa ed in tutto il mondo, hanno attirato l’attenzione su altri leaders politici e su un’altra politica. Tuttavia, i successi non troppo evidenti della perestrojka ed i suoi insuccessi e fallimenti evidenti, il continuo peggioramento delle condizioni materiali della gente, la crescita della tensione e dell’instabilità nella società, l’insicurezza sia del proprio futuro che delle prospettive di sviluppo del Paese, i numerosi conflitti per motivi specifici ed etnici che spesso si trasformano in scontri armati, la crescita vertiginosa di tutte le forme ed i tipi di criminalità, tutto quel che la nostra gente ritiene non senza fondamento “disordine” in politica ed in economia, tutto ciò ha portato ad una crescita d’attenzione verso la persona e l’attività di Ju. V. Andropov.

Lo scopo del nostro libro consiste nel soddisfare almeno parzialmente questo interesse. Nel mio lavoro mi sono basato non solo su fonti letterarie, archivi, consigli e critiche di amici e colleghi. Sono riuscito ad utilizzare i consigli e le testimonianze di molte persone che conoscevano bene Andropov ed hanno lavorato per lunghi anni assieme a lui.

Ricorderò qui in tal senso gli ex collaboratori ed amici di Ju. V. Andropov: G. A. Arbatov, A. E. Bovin, G. Ch. Šachnazarov, F. M. Burlackij, A. I. Vol’skij, nonché gli ex membri del Politbjuro e della Segreteria del CC del PCUS: V. I. Vorotnikov, E. K. Ligačëv, V. M. Čebrikov, N. I. Ryžkov. Tra i militari citerò S. F. Achromeev. Un’opinione su Andropov mi è stata esposta dettagliatamente da persone così diverse come A. N. Jakovlev, il politico ungherese A. Hegedüs, l’ex Presidente del Soviet Supremo dell’URSS A. I. Luk’janov, il regista Ju. P. Ljubimov, l’ex presidente del KGB V. A. Krjučkov. Tuttavia mi rendo perfettamente conto che le mie opinioni non sono affatto inconfutabili, e le informazioni di cui dispongo non sono affatto sufficienti. Per questo sarò riconoscente per qualunque aggiunta ed osservazione.

[Da Roj Medvedev, Gensek s Lubjanki, Moskva, Leta, 1993, pp. 4-10. Traduzione di Mark Bernardini, "Slavia" N°1 1994, pp. 95-101]

lunedì 1 aprile 1991

Bulgakov da un'enciclopedia all'altra

di Mark Bernardini

Ad un secolo dalla nascita ed a 50 anni dalla morte, ben poco di nuovo si può dire di Michail Afanas’evič Bulgakov, pur tenendo conto che le opere e le informazioni fondamentali sono giunte al pubblico (quello sovietico in particolare, ma non esclusivamente) solo dopo la ventata innovatrice gorbačëviana, vale a dire nell’ultimo quinquennio.

Infatti, per avere un’idea di quale fosse la posizione ufficiale della nomenklatura nei confronti di quest’uomo, occorre ripercorrere una serie di dizionari ed enciclopedie dell’epoca difficili da reperire. E’ esattamente quello che ci si propone di realizzare nel presente articolo. La Malaja Sovetskaja Enciklopedija (MSE) del 1929 così recita: “[...] Scrittore contemporaneo, medico di formazione. Ha iniziato a scrivere nel 1919. Ha collaborato con il giornale smenovechovskij “Nakanune”¹ (Berlino). Uno degli esponenti di punta dell’ideologia neoborghese, ha acquisito notorietà con un pamphlet contro l’edificazione sovietica (Le uova fatali) ed il romanzo La guardia bianca, nel quale è racchiusa tendenziosamente la sostanza di classe e controrivoluzionaria del movimento delle guardie bianche, al fine di mostrarne i protagonisti come gente eroica ed onesta. Il romanzo e stato trasformato dall’autore nell’opera teatrale I giorni dei Turbin. Nel libro di racconti Diavoleide e nell’opera teatrale L’appartamento di Zojka Bulgakov rappresenta invece tendenziosamente gli aspetti negativi della nostra quotidianità”.

Nella pratica un simile trattamento ha comportato un ostracismo che Bulgakov stesso, in una lettera dello stesso anno a Gor’kij, cosi riassume: “Tutte le mie opere teatrali sono proibite; non viene pubblicata da alcuna parte nemmeno una mia riga; non ho un solo lavoro pronto, non ricevo da nessuno neanche una kopejka dei diritti d’autore; né un ente né una persona risponde ad alcuna mia richiesta; in sintesi tutto quello che ho scritto in URSS in 10 anni di lavoro e stato distrutto. Rimane un’ultima cosa da distruggere: me stesso”.

I. Nusinov, nella Literaturnaja Enciklopedija (LE) del 1930, cercò di restituire onore alla verità, pur dovendo concludere negli ultimi capoversi nello stesso stile di prima: “[…] Prosatore e drammaturgo. E’ nato a Kiev. Nel 1916 ha terminato la facoltà di medicina dell’Università di Kiev. […] E’ stato pubblicato nella stampa di provincia con articoli, corsivi, ha realizzato in provincia tre opere teatrali, mai pubblicate, ed i manoscritti delle quali successivamente sono stati da lui distrutti. Dal 1921 vive a Mosca, ove i primi tempi lavorava come reporter e corsivista presso vari giornali, […]. Dal 1923 si dedica completamente alla letteratura. Bulgakov è divenuto popolare grazie al suo dramma I giorni dei Turbin, alla commedia L’appartamento di Zojka ed alla raccolta di racconti umoristici Diavoleide. Precedentemente ha pubblicato il suo unico romanzo, La guardia bianca. Il romanzo descrive la vita delle guardie bianche, la famiglia Turbin, a Kiev nel periodo dall’estate del 1918 all’inverno del 1919 (l’occupazione tedesca, gli hetman, il direttorio di Petljura) fino al consolidamento a Kiev dell’Armata rossa all’inizio del 1919. L’esperienza ha convinto l’autore del fatto che la rovina della sua classe è inevitabile e del tutto meritata. Bulgakov esprime questa sua determinazione di pensiero nell’epigrafe del romanzo: “e vennero giudicati i defunti, come scritto nei libri, conformemente ai propri atti”. Le classi soccombenti odiano il proprio popolo insorto, si nascondono vigliaccamente dietro la schiena dell’aggressore tedesco imperialista e godono malignamente alla vista del crudele massacro perpetrato dagli junker tedeschi contro la campagna ukraina. Contro gli aggressori di casa e stranieri combattono eroicamente, con grande spirito di sacrificio, solo il contadino ukraino, l’operaio russo, quel popolo che i “bianchi” odiano e disprezzano. “Quando i tedeschi furono sconfitti”, – racconta Bulgakov, – i “proprietari delle terre e delle fabbriche compresero che il loro destino era legato ai vinti. I tedeschi hanno perso, dissero i rettili. Noi abbiamo perso, dissero i rettili intelligenti”. Il riconoscimento del potere sovietico è inevitabile. Bulgakov è entrato nella letteratura con la consapevolezza della rovina della sua classe e della necessità di adattarsi alla nuova vita. Bulgakov giunge alla conclusione: “Qualunque cosa accada, accade sempre come deve accadere, ed in direzione del meglio”. Questo fatalismo è una giustificazione per coloro che hanno realizzato la smena vech. La loro rinuncia al passato non è né vigliaccheria né tradimento. Questa rinuncia è dettata dalle inesorabili lezioni della storia. La conciliazione con la rivoluzione era un tradimento nei confronti del passato della classe soccombente. La pacificazione dell’intelligencija con il bolscevismo, quell’intelligencija che nel passato era legata non solo per estrazione, ma anche idealmente con le classi sconfitte, le dichiarazioni di quest’intelligencija in merito non solo alla propria realtà, ma anche alla propria disponibilità ad edificare assieme ai bolscevichi, potevano essere interpretate come adulazione. Con il romanzo La guardia bianca Bulgakov ha respinto quest’accusa degli emigranti bianchi ed ha dichiarato: attuare la smena vech non vuol dire capitolare di fronte ad un vincitore fisico, bensì ammettere la giustezza morale dei vincitori. Il romanzo La guardia bianca per Bulgakov non è solo una pacificazione con la realtà, ma un’autogiustificazione. La pacificazione è obbligatoriamente forzata. Bulgakov vi è giunto attraverso una crudele sconfitta della sua classe.

Per questo non v’è gioia dalla consapevolezza che i rettili sono vinti, non v’è fede nell’opera del popolo vittorioso. La nuova realtà è la Diavoleide, titolo del suo libro di racconti. La macchina statale sovietica dell’epoca del comunismo di guerra è una Diavoleide, la nuova quotidianità è “una sporcizia ed una porcheria tali, che Gogol’ non ne aveva nemmeno il sentore” (Le avventure di Čičikov), il popolo sono le “streghe” che distruggono i beni creati dalla borghesia (La casa di El’pit, Comune operaia), il nuovo guerriero è un cinese la cui caratteristica è di avere imparato le parolacce russe (Una storia cinese), tutta la creatività della rivoluzione sono le “uova fatali” da cui fuoriescono dei rettili di dimensioni enormi che minacciano di rovinare tutto il Paese. Bulgakov ha accettato la vittoria del popolo non con gioia, ma con grande dolore e rassegnazione. Bulgakov agogna di compensare la propria classe per la sua sconfitta sociale con una vittoria morale, “diavolizzando” la novità rivoluzionaria. L’ultimo periodo di attività di Bulgakov è determinato proprio da tale compensazione morale. Ora non occorre più giustificarsi per il proprio smenovechovstvo, per l’adattarsi alla nuova vita: è una fase già attuata. E’ così già passato anche il momento della riflessione e del pentimento per i peccati della classe. Bulgakov, al contrario, sfruttando le difficoltà della rivoluzione, cerca di approfondire l’attacco ideologico contro il vincitore. Ancora una volta egli sopravvaluta la crisi e la rovina della sua classe e cerca di riabilitarla. Bulgakov rielabora il suo romanzo La guardia bianca nel dramma I giorni dei Turbin. Le due figure del romanzo – il colonnello Malyšev ed il medico Turbin – sono unite, nell’immagine del colonnello Aleksej Turbin. Nel romanzo il colonnello tradisce il collettivo e salva se stesso, mentre il medico soccombe non come eroe, ma come vittima. Nel dramma il medico ed il colonnello sono uniti in Aleksej Turbin, la morte del quale è l’apoteosi dell’eroismo “bianco”. Nel romanzo i contadini e gli operai insegnano ai tedeschi a rispettare il loro Paese. Bulgakov valuta la vendetta dei contadini e degli operai contro gli oppressori tedeschi e lo hetman come giusta condanna del destino contro i “rettili”. Nel dramma il popolo è solamente un’unica banda selvaggia, quella di Petljura. Nel romanzo la cultura dei bianchi è la vita da ristorante delle “prostitute imbottite di cocaina”, un mare di sporcizia in cui affogano i fiori dei Turbin. Nel dramma la bellezza dei fiori dei Turbin è l’essenza del passato ed il simbolo della vita soccombente.

Il compito dell’autore, la riabilitazione morale del passato nel dramma, viene sottolineato nella commedia L’appartamento di Zojka, scritta da lui contemporaneamente. Il dramma è costituito dagli ultimi Giorni dei Turbin, soccombenti tragicamente ai suoni dell’“eterno Faust”. La commedia descrive il covo ove le personalità sovietiche passano le loro notti ebbre.

Bulgakov non è riuscito né ad apprezzare la morte del passato, né a comprendere l’edificazione del nuovo. E’ per questo che le sue sopravvalutazioni di pensiero private non sono divenute fonte di grande creatività artistica. Il romanzo La guardia bianca è in buona parte pubblicistica, prosa di un giornalista di talento. Fondamentalmente le pagine artistiche del romanzo sono scritte alla maniera dei vecchi romanzi di corte, cosa che tradisce l’epigonismo di Bulgakov. L’immagine della realtà sovietica è resa con i metodi del racconto umoristico, e si tratta non già dello humour tormentato degli “umiliati ed offesi”, bensì dello humour di un giornalista piuttosto a buon mercato.

L’ultimo dramma di Bulgakov, La corsa, che descrive artisticamente l’emigrazione, prosegue le tendenze de I giorni dei Turbin. Tutto il percorso artistico di Bulgakov è il percorso di una persona ostile per appartenenza di classe alla realtà sovietica, Bulgakov è il tipico esponente delle tendenze dell’”emigrazione interna””.

Non per niente lo scrittore, nella sua lettera al governo del 28 marzo 1930, rilevava che in dieci anni, su 301 volte, era stato menzionato 298 volte ingiuriosamente: “Aleksej Turbin, l’eroe della mia opera teatrale I giorni dei Turbin, è stato definito in poesia figlio di cagna, mentre l’autore dell’opera è stato presentato come “posseduto da vecchiaia cagnesca”. E’ stato scritto di me che sono “uno spazzino letterario che raccoglie gli avanzi dopo che una dozzina di ospiti ha vomitato”. Hanno scritto: “…Miška Bulgakov, compare mio, scrittore (scusate l’espressione), fruga nell’immondizia stantia… Chiedo, fratellino, che razza di grugno hai… Io sono una persona delicata, prendilo e sbatacchialo con un catino sulla nuca… Noi stiamo al borghesuccio senza i Turbin come un reggipetto ad una cagna senza necessità… Si è trovato il figlio di puttana, si è trovato Turbin…” (Žizn’ iskusstva, N°44, 1927). Hanno scritto che Bulgakov resterà ciò che è, una progenie neoborghese schizzante saliva avvelenata ma impotente contro la classe operaia ed i suoi ideali comunisti (Komsomol’skaja pravda, 14 ottobre 1926). Si è detto che mi piace l’atmosfera di un matrimonio infimo con qualche moglie dai capelli rossi di un amico (A. Lunačarskij, Izvestija, 8 dicembre 1926); che la mia opera teatrale I giorni dei Turbin puzza (stenogramma della riunione presso l’Agitprop de1 maggio 1927), e via discorrendo…”.

A detta di Elena Sergeevna Šilovskaja (nata Nürnberg), divenuta due anni dopo la sua terza ed ultima moglie, il 18 aprile 1930 a seguito di quella lettera Bulgakov ricevette una telefonata dal Comitato Centrale:

– Michail Afanas’evič Bulgakov?

– Sì, sì.

– Adesso le parlerà il compagno Stalin.

– Cosa? Stalin? Stalin?

– Sì, le parla Stalin. Salve, compagno Bulgakov.

– Salve, Iosif Vissarionovič.

– Abbiamo ricevuto la Sua lettera. L’abbiamo letta con i compagni. A tal proposito riceverà una risposta positiva… Ma è proprio vero che Lei chiede di andarsene all’estero? L’abbiamo seccata molto?

– Ho pensato molto negli ultimi tempi se uno scrittore russo possa vivere fuori dalla sua patria. E mi sembra di no.

– Ha ragione. Anch’io la penso così. Dov’è che vuole lavorare? Al Teatro d’Arte?

– Sì, volevo. Ne avevo parlato, ma ho ricevuto un rifiuto.

– E lei invii loro una richiesta. Mi pare che accetteranno. Noi dovremmo incontrarla, parlare con Lei.

– Sì, sì! Iosif Vissarionovič, ho molto bisogno di parlare con Lei.

– Sì, bisogna trovare il tempo ed incontrarci, necessariamente. Ed ora, Le auguro ogni bene.

Dopo questa conversazione Bulgakov ricevette i mezzi di sostentamento e la possibilità di creare, ma non di rendere di dominio pubblico le sue creazioni.

“…La stanza divenne ripugnante, come ogni stanza ove regni il caos di quando si fanno i bagagli e peggio ancora quando il paralume è strappato dalla lampada. Mai. Mai strappare il paralume dalla lampada! Il paralume è sacro. Mai fuggire con passo di ratto dal pericolo verso l’ignoto. Sonnecchiate presso il paralume, leggete, che ululi la tormenta! Attendete che vengano a prendervi…” (La guardia bianca).

Sono state molteplici le ipotesi costruite sulle ragioni che hanno spinto Stalin ad un comportamento tanto fuori dall’usuale. Una di queste appare sufficientemente logica da meritare considerazione. Nel 1925 si era suicidato il poeta Sergej Esenin; nel 1926 lo scrittore Andrej Sobol’; nell’aprile 1930, quando cioè la lettera in questione era presumibilmente nelle mani di Stalin, si era sparato Vladimir Majakovskij. Un ulteriore suicidio nel mondo letterario sarebbe stato quantomeno sconveniente.

“…In particolar modo mi sono invisi gli urli umani, che siano urli di sofferenza, d’ira, o d’altro genere” (Il maestro e Margherita).

Bulgakov muore un anno prima dell’invasione tedesca. Dieci anni dopo la Grande Enciclopedia Sovietica (Bol’šaja Sovetskaja Enciklopedija, BSE) del 1951 è ancora implacabile nei suoi confronti: “[…] Prosatore, drammaturgo russo². Nato nella famiglia di un professore dell’Accademia religiosa di Kiev. Di formazione era medico. Iniziò ad essere pubblicato nel 19³. Visse a Kiev, a Vladikavkaz, dal 1921 a Mosca. Bulgakov non comprese i nuovi rapporti sociali creatisi nel Paese dopo la vittoria del Potere sovietico. Nel ciclo di racconti Diavoleide (1924) ed altri Bulgakov ha rappresentato calunniosamente la realtà sovietica, nel romanzo La guardia bianca (1924) tentò di idealizzare le guardie bianche. L’aspirazione a discolpare le guardie bianche segnò altresì l’opera teatrale La corsa, scritta da lui successivamente, che I. V. Stalin ha caratterizzato come “fatto antisovietico”.

Come drammaturgo Bulgakov acquisì notorietà dopo la rappresentazione sulle scene del Teatro d’Arte di Mosca dell’opera teatrale I giorni dei Turbin (1926), che consiste in un rifacimento del suo romanzo “La guardia bianca”. Nell’opera teatrale si è conservata la tendenza alla nota idealizzazione dell’immagine delle guardie bianche, ma sotto l’influenza dei fatti della realtà l’autore ed innanzitutto il teatro hanno accentuato nello spettacolo il tema dell’ineluttabilità della disfatta del movimento delle guardie bianche, della sua sconfitta storica. Nella lettera a Bill’-Belocerkovskij del 1929 I. V. Stalin scriveva: “Non dimentichi che l’impressione principale che rimane nello spettatore di quest’opera teatrale è un’impressione favorevole ai bolscevichi: “se persino persone come i Turbin sono costrette a deporre le armi ed a sottomettersi al volere del popolo, riconoscendo definitivamente persa la propria causa, vuol dire che i bolscevichi sono invincibili, contro di loro, contro i bolscevichi, non c’è niente da fare”. I giorni dei Turbin sono la dimostrazione della forza travolgente del bolscevismo. Ovviamente l’autore non è colpevole in alcuna misura di tale dimostrazione” (Opere, vol. 11, p. 328).

I punti di vista errati ed in buona parte avversi, come pensiero, non diedero a Bulgakov la possibilità di cogliere in profondità e correttamente anche gli eventi del passato storico [le opere teatrali Molière, 1936, e gli Ultimi giorni (Puškin)]. La storia della morte di Puškin nell’opera teatrale Ultimi giorni (rappresentata nel 1943 presso il MChAT) è ricreata unilateralmente. In essa è delineato dettagliatamente e chiaramente il campo degli avversari di Puškin, ed è descritto molto debolmente il popolo, nonché le sfere sociali progressiste dell’epoca di Puškin”.

Si potrebbe contestare che Bulgakov è sempre rimasto un assertore di valori umani universali, convinto che solo partendo da questi ultimi si possa creare una società che elimini lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Ma vale più la sintetica e liquidatoria risposta dell’autore stesso a chi lo accusava di simpatie monarchiche: “non tutti coloro che si spalmano in testa la brillantina sono per forza monarchici…”.

Due anni dopo muore Stalin, tre anni dopo ancora si svolge lo storico XX congresso del PCUS e così, nel 1958, la MSE non è più costretta a parlar male di un autore che tutti hanno letto, ma in versione samizdat: “[…] drammaturgo russo sovietico. […] Nel ciclo di racconti Diavoleide Bulgakov ha rappresentato falsamente la realtà sovietica. Nel romanzo La guardia bianca, nell’opera teatrale I giorni dei Turbin, creata sulla sua base e nell’opera teatrale La corsa (rappresentata nel 1957) è mostrata realisticamente la sconfitta storica del movimento delle guardie bianche. Bulgakov è anche l’autore delle opere teatrali Molière ed Ultimi giorni. (Puškin)”.

Non è necessario parlar male, ma chi si azzarda per primo a parlarne bene? Nel dubbio, si è preferito mantenersi sul generico, con lo scarno risultato sopra menzionato. Un po’ più ampia, ma sempre senza entrare nel merito, è l’informazione fornita dalla Teatral’naja Enciklopedija (TE) del 1961: “[…] fino al 1919 è stato medico statale, poi giornalista. […] La prima opera teatrale di Bulgakov, I giorni dei Turbin (MChAT), regia di Stanislavskij e Sudakov, scritta sulla base del suo romanzo La guardia bianca, sanzionava l’ammissione della giustezza e della inevitabilità storica della Rivoluzione d’ottobre da parte dell’intelligencija russa. Nell’opera teatrale La corsa (scritta nel 1928, Teatro di Stalingrado, 1957) Bulgakov scopre la crisi interna del campo della controrivoluzione; usando l’arma del grottesco tragico ha dato una caratterizzazione satirica delle guardie e degli emigrati bianchi. Meno indovinata è stata l’opera teatrale L’appartamento di Zojka (1926, Teatro Vachtangov), nella quale le truffe e le orge della NEP venivano rappresentate con uno humour bonario ed indulgente. L’opera teatrale L’isola purpurea (1928, Teatro Kamernyj) venne sottoposta a feroce critica dalla stampa. Dal 1930 al 1936 Bulgakov ha lavorato come aiuto-regista al MChAT. Bulgakov è stato autore degli adattamenti: Le anime morte di Gogol’ (1932, MChAT), Don Chisciotte di Cervantes (1941, Teatro Vachtangov). Le opere teatrali Molière ed Ultimi giorni (Puškin) sono dedicate al tema del tragico conflitto tra il grande artista e la tirannia. La drammaturgia di Bulgakov e caratterizzata dalla dinamicità di sviluppo dei conflitti, dall’agilità del dialogo, dalla finezza e dalla chiarezza dell’elaborazione psicologica dei caratteri, dall’utilizzazione dei metodi del contrasto”.

Speculare in tal senso anche Ju. A. Osnos nella Kratkaja Literaturnaja Enciklopedija (KLE) del 1962: “[…] Scrittore russo sovietico. Nato nella famiglia di un professore […]. Nei racconti satirici altamente grotteschi di Bulgakov (le raccolte Diavoleide, Le uova fatali, 1925) si è riflessa l’ostilità nei confronti della realtà da parte dello scrittore, che non è riuscito a scorgere dietro alle “smorfie della NEP” il vero volto dei tempi. Sulla base del romanzo La guardia bianca egli ha creato l’opera teatrale I giorni dei Turbin; in essa è denunciata la psicologia dei partecipanti al movimento delle guardie bianche, sono mostrati la sua sconfitta, il passaggio del meglio della vecchia intelligencija dalla parte del popolo rivoluzionario. […] Le opere teatrali L’appartamento di Zojka, nella quale sono rappresentati satiricamente i costumi del periodo della NEP, e la parodistica L’isola purpurea, dedicata ai temi teatrali, suscitarono una valutazione fortemente negativa da parte della critica. Al centro dell’opera teatrale Molière, della novella biografica su Molière e dell’opera teatrale Ultimi giorni (Puškin) (1940, rappresentazione MChAT, 1943) vi è l’immagine del tragico conflitto tra gli artisti umanisti e l’ordine dispotico”.

L’impressione è che sempre più Bulgakov venga menzionato come autore degli anni ‘20, di fatto dunque avallando quella “morte artistica” tanto temuta dallo scrittore. Lo sancisce il Dizionario Enciclopedico (Enciklopedičeskij Slovar’, ES) del 1963: “[…] Nel romanzo La guardia bianca e nell’opera teatrale I giorni dei Turbin, creata sulla sua base, è mostrata la sconfitta storica delle guardie bianche. Allo stesso tema e dedicata l’opera teatrale La corsa. Bulgakov è autore del libro storico-biografico e dell’opera teatrale Molière, di Ultimi giorni (Puškin) ed altre opere.

Nel suo corsivo La capitale nel taccuino Bulgakov rimarcava: “Dopo la rivoluzione è nata una nuova intelligencija di ferro. Essa è capace di scaricare mobili, spaccare legna, occuparsi di raggi X. Io ho fede che essa non scomparirà! Sopravviverà!”. Bulgakov si riferisce ad un’intelligencija che è passata attraverso le prove della guerra civile, della cruda fatica fisica per un pezzo di pane.

Più anni passano dalla morte di un personaggio scomodo, meno pericoloso diviene riavvicinarsi (per approssimazione?) all’obiettività. In piena stagnazione brežneviana V. Ja. Lakšin nella BSE del 1971 recita: “[…] è stato medico statale nel governatorato di Smolensk. Nel 1919 ha iniziato ad occuparsi professionalmente di letteratura. Dal 1922 al 1926 ha collaborato con il giornale Gudok. La prima raccolta di racconti satirici di Bulgakov, Diavoleide, ha suscitato dispute nella stampa. La pubblicazione del romanzo La guardia bianca (1925-27) è rimasta incompiuta. […] In queste opere, come nell’opera teatrale La corsa, è stigmatizzata la rottura negli umori della vecchia intelligencija russa, è sfatata l’idea del movimento “bianco”, è mostrata l’infruttuosità della via verso l’emigrazione. Nelle commedie L’appartamento di Zojka e L’isola purpurea Bulgakov deride la quotidianità e gli umori degli ambienti della NEP, fa la parodia delle usanze del chiuso microcosmo teatrale.

La critica letteraria della fine degli anni ‘20 valutava molto negativamente l’attività di Bulgakov, le sue opere non venivano pubblicate, le opere teatrali tolte di scena. Nei drammi storici La cabala dei santoni (Molière, 1930-36, rappresentazione del 1943) e Gli ultimi giorni (Puškin, 1934-35, rappresentazione del 1943), nella novella biografica Vita del signor de Molière (1932-33, pubblicata nel 1962) Bulgakov mostra l’incompatibilità della vera arte con il dispotismo della monarchia. L’incompiuto Romanzo teatrale (Appunti di un defunto, 1936-37, pubblicato nel 1965) unisce in sé i tratti della satira e della confessione. Dall’inizio degli anni ‘30 e sino alla morte Bulgakov ha lavorato al romanzo Il maestro e Margherita (pubblicato in volume nel 1966-67). Sovrapponendo tre livelli di azione: storico-leggendario (l’antica Giudea), contemporaneo-quotidiano (la Mosca degli anni ‘30) e mistico-fantastico, ha creato un’originale forma di romanzo filosofico, dove sono poste le “eterne” questioni del bene e del male, della moralità falsa e vera. Drammaturgo e narratore, possedeva una maestria raffinata nel campo della satira, della tecnica realistica, del linguaggio flessibile, vivo, e del soggetto impetuoso […]”.

La sua opera più grandiosa giunge al pubblico un quarto di secolo dopo la sua morte, quando l’autore aveva ormai raggiunto quella tranquillità tanto desiderata:

– Ascolta l’assenza di suoni, – diceva Margherita al Maestro, e la sabbia frusciava sotto i suoi piedi nudi. – Ascolta e godi di ciò che non ti diedero in vita: il silenzio. Guarda, ecco davanti la tua casa eterna che ti è stata donata quale ricompensa. Già vedo la finestra veneziana e la vite rampicante salire fino al tetto. Ecco la tua casa, ecco la tua casa eterna. Io so che la sera verranno da te coloro che ami, a cui sei interessato e che non ti inquieteranno. Loro suoneranno per te, per te canteranno, tu vedrai che luce c’è nella stanza quando sono accese le candele. Tu ti addormenterai con indosso il tuo bisunto ed eterno berretto, e ti addormenterai con il sorriso sulle labbra. Il sonno ti rafforzerà, e prenderai a ragionare con saggezza. E non riuscirai più a scacciarmi. Il tuo sonno lo proteggerò io.

Così diceva Margherita, andando con il Maestro in direzione della loro casa eterna, e sembrava al Maestro che le parole di Margherita fluissero come fluiva e sussurrava il ruscello che si erano lasciati dietro, e la memoria del maestro, inquieta, martirizzata dagli aghi, prese ad acquietarsi. Qualcuno stava lasciando libero il Maestro, cosi come lui aveva appena liberato l’eroe che aveva creato. Quell’eroe era scomparso nel baratro, scomparso irrevocabilmente il figlio del re astrologo perdonato nella notte di domenica, i1 crudele quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato.

A cura di Mark Bernardini

Bibliografia

  • 1930 La guardia bianca, nella rivista “Rossija”, 1925, libri 4 e 5; Diavoleide, Racconti, ed. “Nedra”, Mosca, 1925.

  • 1961 I giorni dei Turbin. Gli ultimi giorni, Mosca, 1955.

  • 1962 La vita del signor de Molière, Mosca, 1962.

  • 1971 Prosa scelta (introduzione di V. Lakšin), Mosca, 1966; Drammi e commedie (introduzione di V. Kaverin), Mosca, 1965; Il maestro e Margherita, nella rivista “Moskva”, 1966, N°11; 1967, N°1; Autobiografia nel libro: Sovetskie pisateli. Avtobiografii, vol. 3, Mosca, 1966.

Letteratura

  • 1929 Lirov M., articolo nel giornale “Pečat’ i Revoljucija”, libri 5-6, 1925; Kototkov N., nel giornale “Rabočaja Žizn’”, libro 3, 1925.

  • 1930 Pereverzev V., Novità della prosa, “Pečat’ i Revoljucija”, libro 5, Mosca, 1921; Osinskij N., Appunti letterari, “Pravda”, N°170, Mosca, 1925; Gli scrittori dell’epoca moderna, vol. I, Mosca, 1928; Vladislavlev I. V., Letteratura del grande decennio, vol. I, Mosca, 1928.

  • 1951 Stalin I. V., Opere, vol. 11 (“Risposta a Bill’-Belocerkovskij”).

  • 1961 Askol’dov A., Otto sogni, “Teatr”, 1957, N°8; Kaverin V., Appunti sulla drammaturgia di Bulgakov, “Teatr”, 1956, N°10.

  • 1971 Smirnova V., Michail Bulgakov drammaturgo, nel suo libro: Sovremennyj portret, Mosca, 1964; Lur’e Ja. e Serman I., Da “La guardia bianca” a “I giorni dei Turbin”, “Russkaja literatura”, 1965, N°2; Ermolinskij S., A proposito di Michail Bulgakov. Capitolo dal libro di memorie, “Teatr”, 1966, N°9; Lakšin V., Il romanzo di M. Bulgakov “Il maestro e Margherita”, “Novyj mir”, 1968; N°6; Skorino L., Volti senza maschere di carnevale, “Voprosy literatury”, 1968, N°6; Vinogradov I., Il testamento del maestro, ibidem; Skorino L., Risposta all’oppositore, ibidem; Palievskij P., L’ultimo libro di M. Bulgakov, “Naš sovremennik”, 1969, N°3.

Note

  1. Il giornale "Nakanune" era pubblicato da un gruppo di emigrati russi appartenenti alla corrente che aveva preso il nome dalla raccolta di articoli "Smena vech" pubblicata a Praga nel 1921. Gli smenovechovcy invitavano gli emigrati a riconoscere il potere sovietico ed a collaborare con esso per la creazione di una nuova Russia sviluppata economicamente e culturalmente. I fautori dello smenovechovstvo, appartenenti in passato prevalentemente all'ala destra del partito cadetto, prevedevano che in conseguenza della NEP (la Nuova Politica Economica voluta da Lenin) avrebbe avuto luogo una rigenerazione del potere sovietico e la Russia si sarebbe trasformata in una repubblica parlamentare democratico-borghese sul modello occidentale. La via da seguire a tal fine doveva essere quella del capitalismo di Stato.

  2. Fino a qualche anno fa la distinzione tra "russo" e "sovietico", limitatamente a persone di nazionalità russa, veniva sottolineata per distinguere il prima e il dopo la creazione dello Stato sovietico.

  3. Da rimarcare la sfumatura relativa alla differenza tra l'aver iniziato a "scrivere" (1929) e ad "essere pubblicato" (1951).

[Da “Rassegna Sovietica”, N°1-2, 1991, Roma, Montecatini, Abano, Milano, di Mark Bernardini]