sabato 30 dicembre 2006

Democranonna

di Mark Bernardini

Sull'assassinio statalizzato di Hussein, riporto un articolo dal sito Luogo comune, poiché stiamo parlando di uno dei principi filosofici, teologici, etici, morali che stanno alla base, per esempio, dell'Unione Europea. Di che democrazia vanno cianciando gli americani? Sì, lo so, il tribunale ed il boia erano iracheni. Ma gli italiani, gli inglesi e gli americani non hanno detto di avere ricostruito la democrazia in Iraq, dalle canne dei loro fucili? E allora, questa democrazia prevede la pena di morte? Una contraddizione in termini? E questo discorso ci porta ancora più lontano: può chiamarsi democratico uno Stato che preveda ed applichi la pena di morte? No, non mi riferisco all'Iraq: mi riferisco agli Stati Uniti d'America.

di Massimo Mazzucco

C'è qualcosa di sconcertante, di contraddittorio e di macabro insieme, nella recente "tradizione" - inaugurata se non sbaglio dall'attuale sindaco di Roma - di accendere le luci del Colosseo ogni volta che viene sospesa una esecuzione capitale nel mondo, e che si celebra quindi, almeno in teoria, una "vittoria" della lotta a questa feroce forma di falsa giustizia.

L'aspetto macabro sta nella natura stessa dell'edificio, fra le cui mura sono morti in maniera indicibile centinaia di esseri umani, fatti a pezzi da belve affamate o mutilatisi a vicenda finchè non avessero perso l'ultima goccia di sangue, per il puro divertimento di altri esseri umani. Sarebbe come illuminare a giorno Auschwitz per applaudire ogni importante atto di tolleranza razziale verso qualunque minoranza etnico-religiosa nel mondo.

L'aspetto contraddittorio sta nel non essersi accorti che proprio oggi è stata confermata la sentenza di morte a un cittadino iracheno, tale Hussein Saddam, emessa da un tribunale che ha ricevuto la legalità (leggi: è stato messo su) proprio dalle forze alleate che hanno invaso l'Iraq, di cui abbiamo fatto parte fin dal primo giorno.

Dov'era Veltroni, quando la democrazia che noi avremmo importato in Iraq si manifestava con un processo, da noi stessi legalizzato, in cui si chiedeva apertamente la pena di morte per l'imputato?

Ma il vero aspetto sconcertante - e quello che conta davvero - è battersi per la abolizione della pena di morte, quando si è taciuto per - e quindi si è avallato - la messa a morte di oltre mezzo milione di concittadini di quello stesso imputato.

C'è davvero una grossa differenza, infatti, fra "condannare a morte" tramite un tribunale, e farlo tramite una invasione armata che sappiamo bene seminerà morte e distruzione fra i civili in maniera tutt'altro che insignificante?

Dopo Dresda, dopo il bombardamento incendiario di Tokio, dopo My-Lai, o dopo il vile tiro al piccione sulle stesse colonne irachene in ritirata, nel '92 - tanto per non parlare di Nagasaki e Hiroshima - c'è davvero qualcuno che vuole fingere di non sapere quale sia la mentalità di guerra dei militari americani? C'è qualcuno che vuole fingere per caso di non conoscere la Dottrina Powell, che indica a chiare lettere la necessità di colpire anche la popolazione civile, senza andare troppo per il sottile, in modo di demoralizzare al più presto l'intera nazione invasa?

E allora? Dove sta la coerenza di Veltroni, e di tutti i suoi colleghi della "sinistra", che hanno palesemente avallato, con il loro silenzio, la nostra alleanza con le truppe americane sulla via del genocidio? Che fine ha fatto - se mai ha avuto un significato - il termine "opposizione"? Basta davvero non essere al governo, per potersi lavare le mani per tutto quello che decide la maggioranza?

Di recente ho addirittura sentito Michele Santoro, nella puntata che ha dedicato ai "guerrieri della libertà" di Berlusconi, cercare di addossare alla destra - nella persona di Bondi, presente in sala - una presunta "colpa" per una alleanza "fallimentare" con gli americani, che ha portato il disastro che ha portato in Iraq e Afghanistan.

Dov'era Santoro quando il nostro governo, guidato da Berlusconi, deliberava la nostra partecipazione a quelle guerre? Incatenato ai cancelli di Montecitorio, a fare lo sciopero della fame, contro la chiara "condanna a morte" di qualche centinaio di migliaia di civili innocenti, o dal suo sarto personale a rifarsi la giacca finto-ruvido di preziosissimo cachemire?

Oppure ci si vuole ancora raccontare che siamo andati in Iraq in missione di pace? C'è ancora qualcuno che vuole cercare di nascondersi dietro a quel sottilissimo dito? Benissimo, fingiamo allora di crederci per un istante, e domandiamoci: pace o guerra che fosse, noi eravamo dal lato di Bush, giusto? Lui stesso ha detto, dopotutto, che "o si è con noi, o si contro di noi". E siccome per venire via abbiamo dovuto chiedergli il permesso, e quando lo abbiamo fatto si è comunque arrabbiato, vuole dire che a qualcosa gli servivamo, giusto? Quindi, al di là delle parole, resta il fatto che noi eravamo in missione INSIEME a coloro che hanno portato la morte ad almeno seicentocinquantamila civili nel solo Iraq - più di quanti italiani siano morti in tutta la seconda guerra mondiale - e quindi in qualche misura, anche se indirettamente, abbiamo contribuito a quella carneficina. Si chiama complicità, e anche chi guida "soltanto" l'automobile, quando c'è una rapina, finisce in galera insieme a tutti gli altri.

O abbiamo per caso cercato di fermarli, gli americani? Era forse quello il nostro scopo umanitario in Iraq?

No? E allora vada per favore a spiegarlo ai figli di quei cadaveri, signor Veltroni, che quella non era una "condanna a morte", invece di girare un interruttore ogni tanto, per farsi bello davanti ai suoi amici di salotto, quando comunque la bolletta la paga qualcun altro.

martedì 12 dicembre 2006

Come si costruisce una bufala giornalistica

Abramovič terrorizzato dall'idea di venire avvelenato

PravdaRoman Abramovič ha paura di diventare l'ennesima vittima degli "avvelenatori russi". Come riportato in questi giorni dal tabloid inglese "The Sunday People", il patron del Chelsea non solo rifiuta di mangiare qualsiasi tipo di cibo se non quello che gli viene preparato dal suo cuoco di fiducia, ma ha anche bloccato tutte le forniture di prodotti alimentari, sushi compresi, indirizzate al consiglio direttivo del Chelsea allo stadio Stamford Bridge.

Come riferito al "The Sunday People" da una fonte anonima vicina ai più diretti collaboratori del magnate russo, tutto ciò "è l'unico modo per garantire che il cibo di cui si nutre non rappresenti una minaccia per Abramovič, i cui timori sul fatto che egli possa diventare l'ennesima vittima di un avvelenamento sono più che sufficenti". Nell'articolo si legge che Abramovič negli ultimi tempi prende con se il suo cuoco di fiducia in occasione di ogni trasferta e che "si rifiuta persino di mangiare i panini preparati nella mensa aziendale". L'autore dell'articolo che tali eccezionali misure di sicurezza sono legate al fatto che Abramovič di nemici nella sola Russia ne ha più che a sufficenza.

Nel frattempo una smentita ufficiale alla notizia è giunta dal portavoce dell'oligarca, il quale, in un'intervista rilasciata all'emittente radiofonica moscovita "Echo Moskvy", l'ha definita senza troppi peli sulla lingua "l'ennesima stronzata pubblicata dal Sunday People".

© 1999-2006. «PRAVDA.Ru». When reproducing our materials in whole or in part, hyperlink to PRAVDA.Ru should be made. The opinions and views of the authors do not always coincide with the point of view of PRAVDA.Ru's editors.

lunedì 11 dicembre 2006

Scampoli di memoria 4

di Dino Bernardini

A Roma, in via Romagna, sulla bianca e nuda facciata di un elegante edificio moderno, c’è una lapide incastonata tra i blocchi di travertino che la ricoprono. C’è scritto:

«Requisita dalla banda fascista del ten. Pietro Koch, LA PENSIONE JACCARINO ubicata in un villino che qui sorgeva, divenne luogo di detenzione e torture per molti patrioti che lottavano per la libertà dal nazifascismo. Molti ne uscirono soltanto per essere avviati al plotone di esecuzione. Per non dimenticare. Roma occupata, Settembre 1943 – Giugno 1944».

Uno di quei patrioti era mio padre, Angelino (Timoteo) Bernardini.

Non dimenticherò mai quel terribile inverno del 1943. Ancora oggi, quando qualche emittente televisiva trasmette «Roma città aperta» di Roberto Rossellini, faccio fatica a resistere davanti allo schermo per tutta la durata del film. Non c’è praticamente episodio che non mi ricordi qualcosa di analogo della storia della nostra famiglia. Per esempio, quando nel film i tedeschi bloccano i due accessi di una strada e requisiscono tutti gli uomini validi che in quel momento, magari per caso, si trovano a passare di lì. Poi i nazisti passano a perquisire tutte le case che si affacciano sulla strada, arrestano tutti gli abitanti maschi e li ammassano nei camion insieme con quelli già arrestati per strada. Il loro destino è la Germania. Per fortuna, si fa per dire, non verranno avviati ai campi di sterminio ma alle fabbriche tedesche, che hanno bisogno di mano d’opera. Ebbene, fu così che mio cugino Pietro, quindicenne, si ritrovò in uno di quei camion. Lungo il viaggio verso il nord, a una ventina di chilometri da Roma, i caccia americani presero a mitragliare l’autocolonna tedesca e nel parapiglia molti di coloro che erano a bordo riuscirono a fuggire. Pietro tornò a casa a piedi, più morto che vivo.

Avevo undici anni quando, una notte di dicembre del 1943, gli aguzzini della banda Koch vennero in casa nostra e portarono via mia madre e mio fratello Ezio, diciassettenne. Mio padre era già stato arrestato per strada. Rimanemmo soli, io e mia sorella Silvana, 15 anni. Per fortuna in quel periodo era ospite in casa nostra la famiglia di una sorella di mia madre, zia Cleofe, sfollata da Genzano.

Nella allora famigerata pensione Jaccarino mio padre, mia madre e mio fratello vennero picchiati e torturati per giorni, ciascuno davanti agli altri. Lo scopo era quello di farli parlare, di costringerli a rivelare i nascondigli della resistenza romana, che in realtà soltanto mio padre conosceva. Dopo qualche giorno, mi pare di ricordare che mio fratello venne trasferito a Regina Cœli (ma non ne sono sicuro, perché per tutti gli anni trascorsi dopo la liberazione di Roma noi tutti, in famiglia, abbiamo sempre evitato di rievocare quei giorni, quasi a volerli rimuovere), mentre mia madre fu trasferita nella prigione femminile delle Mantellate. Mio fratello conservò per il resto della vita una traccia visibile di quei giorni: un dente spezzato da un calcio.

Intanto mio padre continuò ad essere torturato. Quando perdeva i sensi, lo buttavano in cantina, in un ripostiglio dove non era possibile stare distesi. Dopo qualche ora, lo riportavano di sopra e ricominciavano le torture. Finito l’ennesimo interrogatorio, riprese i sensi nel suo bugigattolo ed ebbe paura di non poter resistere ancora a lungo senza rivelare i nomi dei suoi compagni. Scorse in terra un bicchiere di latta, riuscì a spezzarne il bordo e con quello si tagliò le vene dei polsi e degli stinchi. Quando i suoi torturatori scesero di nuovo, lo trovarono in un lago di sangue e privo di sensi. Era in coma. Lo trasportarono all’ospedale e lì la prognosi fu che difficilmente sarebbe sopravvissuto. Venne comunque ricoverato in corsia. Gli uomini della banda Koch se ne andarono e non lasciarono nemmeno un piantone di sorveglianza, date le sue condizioni.

Quando uscì dal coma, scoprì di trovarsi in una normale corsia del Policlinico Umberto I. Era l’ora della visita dei parenti. Chiese a un visitatore del suo vicino di letto la cortesia di venire a casa nostra ed eventualmente di informarci. Ma non era sicuro che ci fosse ancora qualcuno in casa. Ormai in corsia tutti sapevano come quel paziente fosse finito lì. Quella sera stessa venne da noi un giovane che, con qualche imbarazzo e anche con il timore che la polizia lo avesse seguito, ci disse che nell’ospedale c’era qualcuno, forse un nostro parente, che avrebbe voluto vederci.

Il giorno dopo, all’ora della visita, io e mia sorella andammo all’ospedale. Mio padre stava dormendo. Da qualche giorno non veniva più picchiato e torturato, ma il suo corpo era tutto ricoperto di ecchimosi. Nelle orecchie c’era del sangue secco. Non c’era un centimetro della sua pelle che non fosse nero di lividi. Mi sentii male, provai uno strano senso di nausea, ma feci uno sforzo per non farlo capire e mi allontanai dal letto. Andai a una finestra a respirare.

Ancora qualche giorno e, mi pare, mia madre uscì di prigione. Si ricordò che un suo cugino, monsignor Caraffa, insegnava alla Pontificia Università Lateranense, vicino a casa nostra. Molti anni dopo, quando lo conobbi perché si rivolse a me per una sua ricerca bibliografica, seppi che era il prorettore di quella università. Allora mia madre andò a chiedergli se poteva far accogliere mio padre nel complesso della basilica di S. Giovanni in Laterano, che godeva dell’extraterritorialità. Non c’era posto, perché ormai tutti i vari pezzi di Roma che tuttora compongono la Città del Vaticano erano pieni di rifugiati, ebrei, resistenti, cattolici e non. Tuttavia un posto si trovò.

Così, nell’ora della visita, mio padre scese in pigiama nel cortile dell’ospedale e, confuso tra la folla di pazienti e visitatori, uscì dal Policlinico e salì su un camion che l’attendeva. Durante l’occupazione tedesca tutti gli accessi al territorio vaticano erano vigilati, da un lato dalle guardie vaticane, dall’altro dalle sentinelle tedesche. Ricordo che anche il colonnato del Bernini era chiuso da una sorta di staccionata di legno con un piccolo varco al centro, attraverso il quale la gente entrava e usciva liberamente, ma sotto lo sguardo delle guardie svizzere e dei militari tedeschi. Analoga era la situazione delle basiliche extraterritoriali di San Giovanni, San Paolo e Santa Maria Maggiore. Sul retro della basilica di San Giovanni, vicino al Battistero, c’è una cancellata che adesso è sempre aperta, ma che allora lasciava aperto soltanto un varco.

Il camion entrò senza impedimenti in territorio vaticano, come se dovesse fare un trasporto per la chiesa. Mio padre venne sistemato in un piccolo e stretto corridoio dove c’erano due lettini addossati al muro sullo stesso lato. Il suo compagno di corridoio era un ebreo, Sergio Limentani. Tra i letti e la parete opposta c’erano soltanto pochi centimetri, appena sufficienti per passare mettendosi di fianco. Così, durante tutto il giorno i due occupanti stavano in cortile, all’aperto. Per fortuna non ricordo che in quei mesi piovesse. Io andavo tutti i giorni a portare da mangiare a mio padre, passando sotto lo sguardo indifferente delle sentinelle tedesche, che naturalmente sapevano tutto, ma non mi dissero mai nulla.

Mio padre uscì da San Giovanni il 4 giugno 1944, quando i primi carri armati americani entrarono a Roma e si fermarono sul Piazzale Appio, davanti alle mura aureliane e in vista della basilica.

Dopo la fine della guerra mio padre, con due condanne del Tribunale Speciale fascista, ex confinato, eroe della Resistenza, venne eletto segretario della sezione PCI del quartiere Latino-Metronio. Aveva conosciuto Gramsci ed era stato «allievo» di Terracini: al confino aveva frequentato i corsi di storia, filosofia, francese, matematica e italiano che gli intellettuali confinati tenevano per i loro compagni che non avevano studiato, come mio padre. L’Unione Sovietica era sempre stata il suo mito, il faro che gli aveva dato luce e forza per tirare avanti negli anni bui del fascismo. Così, nel 1959 (o 1958?) approfittò della mia presenza a Mosca per visitare finalmente la «patria del socialismo». Era estate, l’università Lomonosov era semivuota, le lezioni e gli esami erano finiti. Mi procurai una brandina supplementare e per una decina di giorni mio padre visse con me nella mia stanzetta (Zona G, quinto piano, stanza 503). La mattina io mi alzavo tardi, ma lui no, scendeva nel giardino della nostra zona G e con un coltellino raccoglieva la «cicorietta» (così la chiamava) che cresceva sui prati. Si meravigliava che nessuno facesse altrettanto, che quella buona insalata si sprecasse. Poi tornava in camera nostra, la lavava e la metteva da parte per la sera. Nel frattempo io mi ero lavato e vestito. A quel punto, sempre in compagnia di almeno altri due studenti italiani, tra i quali quasi sempre c’era il mio amico Gianni Parisi, si andava in centro a pranzare al ristorante georgiano Aragvi, dove immancabilmente ordinavamo il famoso pollo kabakà, che era poi il pollo alla diavola. La libagione era abbondante. Mio padre si faceva un dovere di pagare spesso il conto per tutti. Scendevamo giù per via Gor’kij tutti un po’ brilli, prendevamo l’autobus (la metropolitana non arrivava ancora a quelle che allora si chiamavano le Colline di Lenin) e tornavamo a casa, cioè all’università. La sera cenavamo nella nostra stanza a base di carne in padella con contorno di «cicorietta». Avevamo spesso qualche ospite italiano. Dopo cena venivano sempre altri studenti italiani con i quali organizzavamo tornei di scopone. Chi perdeva faceva il caffè, ma non toccava quasi mai a noi, perché mio padre e io formavamo una coppia imbattibile.

Di quel soggiorno moscovita ricordo una sua osservazione critica su una cosa da niente, alla quale, abituato com’ero alla quotidianità dell’URSS, non avevo mai fatto caso. Faceva caldo e la porta del grattacielo centrale dell’università che si affacciava sulla nostra zona G era tenuta aperta da un grosso sasso che le impediva di chiudersi. Mio padre mi chiese se c’era stato un guasto recente, se si fosse in attesa di una ripa­razione. Gli spiegai che d’estate era sempre così. Per me era normale, perché l’importante era lasciar entrare l’aria nell’ampio salone del piano terra. «Ma come», sbottò mio padre, «in un grattacielo moderno come questo, in una università prestigiosa, per tenere aperta una porta si ricorre a un sasso!». Fu l’unica critica che gli scappò allora. La sua fede nel socialismo gli impediva di fare troppe critiche davanti a noi studenti. Seppi poi da mia madre che in privato aveva espresso forti critiche nei riguardi del cosiddetto «socialismo reale».

Morì di tumore il 19 marzo 1960. Nel trigesimo della sua morte l’Unità pubblicò un lungo necrologio preceduto da questa nota: «Il 19 marzo scorso decedeva a Roma Angelino Bernardini, vecchio e popolare compagno, iscritto al Partito sin dalla fondazione, valoroso combattente della libertà, attivo dirigente comunista nel quartiere San Giovanni. Nel trigesimo della morte, i compagni di Genzano [dove egli era nato] e della sezione di Porta S. Giovanni ricordano commossi Angelino Bernardini». Seguiva il necrologio scritto da Carlo Salinari, amico fraterno, anche lui sopravvissuto alle torture, ma ad opera della Gestapo in via Tasso, che dopo la guerra fu professore alla Sapienza di Roma, diresse il prestigioso mensile di cultura Il Contemporaneo e fu autore di una Storia della Letteratura Italiana. Scriveva tra l’altro Carlo Salinari: «la semplicità e il coraggio erano un’altra caratteristica della personalità di Angelino. Con semplicità e coraggio affrontò, nel periodo fascista, il carcere e il confino, che significarono anche la sua rovina finanziaria. Preso nel 1944 [1943] dalla banda Koch, per non parlare sotto la tortura, fece con semplicità e coraggio una cosa che nessuno di noi seppe fare: si tagliò le vene dei polsi, tentando di suicidarsi [...] Vogliamo ricordarlo non solo perché ci era amico e con lui avevamo combattuto in momenti terribili, ma anche perché, ci sembra, possa servire di esempio a tutti». (l’Unità, 19 aprile 1960, p. 4).

Slavia, rivista trimestrale di cultura

Dino Bernardini, "Slavia" N°4 2006

venerdì 8 dicembre 2006

Gajdar e Scaramella: questione di stile

di Mark Bernardini

Non sono sospettabile di simpatie per Egor Gajdar (che, giova ricordarlo, fu capo del governo con El'cin all'inizio degli anni '90, uno di quei cosiddetti liberal che hanno privatizzato e ridotto sul lastrico il Paese). Tuttavia, non è a Catilina che bisogna dare ciò che è di Cesare.

Non ho letto in alcun organo italiano - o mi è sfuggita? - la dichiarazione che Gajdar ha rilasciato al Financial Times dopo essere stato dimesso dall'ospedale: "Se si è trattato di un tentato omicidio, dietro ci sono ragioni politiche. Fin da subito mi sono rifiutato di pensare che ci sia dietro la complicità della leadership russa. Dopo la morte di Aleksandr Litvinenko il 23 novembre a Londra, la morte di un altro personaggio russo famoso il giorno dopo è l'ultima cosa che vorrebbero le autorità russe. E' più probabile che ci siano dietro degli avversari segreti delle autorità russe, quelli interessati ad un ulteriore peggioramento delle relazioni tra Russia e Occidente".

Non l'ho letta nei massmedia italiani perché essa mal si sposa con le indicazioni più o meno mal-celate che essi sembrano avere ricevuto (e sarebbe interessante precisare da chi).

Di tutt'altra pasta è il nostro Scaramella. Oddio sto male. Sto peggio di Litvinenko. Ma Litvinenko è morto. Morirò anch'io, è un complotto di Prodi e Putin. Ma prima di morire, incastrerò Prodi, agente del KGB. Poi i medici britannici scoprono che Scaramella è sano come un pesce. Era lecito a quel punto attendersi quantomeno un ridimensionamento, se non un'autocritica. Ma Scaramella no: bene, ora mi sento più tranquillo, e non ho mai detto di avere degli elenchi, ho solo detto di avere degli elenchi.

Il berlusconismo, come vedete, ha procurato danni duraturi, se non permanenti, nella mentalità italica. Scaramella appare come un pot pourri di Pulcinella, Arlecchino e Pinocchio. Bugiardo, pagliaccio e piagnone. Ci manca la pizza con la pummarola, il mandolino e la mafia. Ma ve lo immaginate quanto starà godendo il popolino albionico?

venerdì 1 dicembre 2006

Litvinenko 2

Movimento Internazionale per i diritti civili – Solidarietàda MoviSol

27 novembre 2006 – La storia secondo cui il presidente russo Vladimir Putin avrebbe “ordinato” l'assassinio di Aleksandr Litvinenko a Londra è talmente screditata che persino qualche giornale britannico, come il Daily Telegraph, si è cominciato a chiedere se il giornalista non sia stato “sacrificato” proprio per scatenare una campagna contro Putin.

I fatti salienti del caso:

1. I tempi: il caso Litvinenko è esploso subito dopo che Russia e Inghilterra hanno sottoscritto un trattato straordinario che renderà possibile l'estradizione dell'oligarca russo Boris Berezovskij e del leader dei ribelli ceceni Achmed Zakaev. La notizia della morte di Litvinenko è giunta il 23 novembre, nel momento in cui ad Helsinki si teneva il vertice Russia-UE con la partecipazione di Putin. Il caso non poteva ottenere maggiore risonanza.

2. Tutti gli amici di Litvinenko sono sulla busta paga di Berezovskij. Il suo vicino ed amico Zakaev lo ha portato all'ospedale all'apparire dei sintomi dell'avvelenamento. Ambedue vivono in abitazioni che avrebbero ottenuto da Berezovskij. All'ospedale Litvinenko ha ricevuto la visita di Andrej Nekrasov, il produttore cinematografico impegnato in un documentario sulla Russia insieme a David Satter dell'Hudson Institute. Le public relations di Litvinenko sono state svolte da lord Timothy Bell, anch'egli sulla busta paga di Berezovskij. In passato Bell si è occupato delle PR di Margaret Thatcher, quando questa era domiciliata a Downing Street, e di quelle di lord MacAlpine, quando questi ospitò diversi anni fa il capo dei ribelli ceceni.

3. Tutte le dichiarazioni e interviste rilasciate sul letto di morte da Litvinenko, in cui questi ha accusato Putin di averlo fatto avvelenare, sono state rilasciate ad Aleksandr Gol'dfarb, un russo che a New York dirige l'International Foundation for Civil Liberties di Berezovskij. Prima di ciò Gol'dfarb aveva lavorato in una delle tante fondazioni di George Soros.

4. Il ruolo più equivoco in tutta la vicenda è quello di Mario Scaramella, il quale avrebbe incontrato Litvinenko in un ristorante londinese ed avrebbe riferito a Scotland Yard di averlo informato di essere sulla stessa lista della giornalista russa Politkovskaja, recentemente assassinata, assieme naturalmente allo stesso Scaramella e Berezovskij. Una squadra dei servizi russi FSB sarebbe stata messa alle loro calcagna da Putin, ha riferito Scaramella a Scotland Yard. La RepubblicaScaramella ha riferito che le notizie provengono da Evgenij Limarëv, ex funzionario del FSB, che vive tra Parigi e Venezia. Ovviamente Limarëv ha prontamente negato le asserzioni di Scaramella in una intervista a La Repubblica.

5. Scaramella è parte di una struttura privata d'intelligence che vanta collegamenti con il vice presidente USA Dick Cheney. Egli lavora infatti per la Environmental Crime Prevention Program (ECPP) di Washington. Questa, secondo Limarëv, “nasce nel 1997 su accordi personali tra soggetti che, nei rispettivi paesi, hanno appoggi istituzionali in materia di intelligence militare, civile, ambientale”. Limarëv riferisce che Scamarella gli aveva detto che “possono contare sul team di Cheney alla Casa Bianca”. Attraverso l'ECPP Scaramella ha cercato di coinvolgere sia Limarëv che Litvinenko nel fabbricare dei dossier contro i politici contrari alla guerra in Italia, fatti arrivare alla Commissione d'indagine “Mitrochin” del Parlamento. Scaramella è consigliere di Paolo Guzzanti, presidente della Commissione.

6. Fonti del governo e mezzi d'informazione in Russia hanno indicato in Berezovskij il probabile mandante contro Litvinenko. “Se vi chiedete chi ha beneficiato maggiormente da tutto ciò la risposta può essere soltanto Berezovskij”, ha detto una fonte del Cremlino al Sunday Times il 26 novembre. Komsomolskaja Pravda ha scritto: “Questa morte è nell'interesse di coloro che vogliono rovinare i rapporti tra la Russia e l'occidente”.

7. Alla conferenza stampa che ha dato al termine dell'incontro di Helsinki, il presidente Putin ha fatto riferimento per la terza volta all'assassinio di Paul Khlebnikov (il genero del banchiere John Train molto vicino a Berezovskij). Ricordando l'assassinio della Politkovskaja, Putin ha detto: “Dobbiamo anche pensare ad altri assassinii di questo tipo. E' stato assassinato anche un altro giornalista, l'americano Paul Khlebnikov. L'indagine è stata aperta e il caso è stato portato di fronte alla giustizia. Purtroppo gli accusati sono stati liberati dalla giuria. La procura ha riaperto il caso. Ma non dobbiamo dimenticare i crimini politici in altri paesi europei”.

* * *

l'UnitàAdesso «si è superato il limite». A differenza del quotidiano inglese The Sun che definiva «bizzarra» la notizia di un capo del governo italiano «spia della Russia», Prodi non le ha prese come uno scherzo le notizie delle indagini Mitrochin nei suoi confronti. Il Presidente del Consiglio, ieri, ha valutato per ore l´ipotesi di rivolgersi alla magistratura. Alla fine ha rotto gli indugi e ha dato incarico ai suoi legali perché procedano «contro gli autori di dichiarazioni e di atti lesivi» della sua «dignità di cittadino e di rappresentante delle istituzioni in relazione al cosiddetto caso Mitrokhin».

Il premier vuole «chiarezza». E chiede «che si vada fino in fondo» per capire le reali finalità del lavoro svolto dal presidente della Commissione bicamerale d´inchiesta, Paolo Guzzanti. Dal quale, tra l´altro, Prodi si considera diffamato anche per una lettera indirizzata a Bertinotti e Marini con la quale l´ex presidente della Commissione Mitrochin tornava sul sequestro Moro e sul covo Br di via Gradoli. Una querela a firma Prodi, quindi, dopo la pubblicazione sui quotidiani delle telefonate tra Guzzanti e Scaramella che tradivano l´intenzione di trascinare l´allora candidato premier dell´Unione dentro trame targate KGB. A Palazzo Chigi, ieri, quelle notizie non sono state prese sotto gamba. Prima Telekom Serbia, poi l´affare Telecom, quindi lo spionaggio preelettorale di finanzieri incuriositi dalla situazione patrimoniale della famiglia Prodi, Infine il caso Mitrochin - e il tentativo di coinvolgere anche il verde Pecoraro Scanio - che pone domande inquietanti perfino sui fondi di una commissione parlamentare stornati per indagare sul leader dell´opposizione.

«Sono molte le domande che ci poniamo in queste ore - spiega il portavoce di Prodi, Silvio Sircana - Per questo vogliamo costruire una risposta politica, e non solo, molto forte». Poi una frase che rimanda indirettamente alle conversazioni tra Guzzanti e Scaramella che facevano riferimento a un «capo» - che in quel momento (febbraio 2006) si trovava «in Sardegna» e al quale riportare «la notizia» di un Prodi coltivato dal KGB. «Siamo interessati a capire il contesto politico dentro il quale si è verificata una vicenda di questo genere», sottolinea Sircana. Insomma, Prodi «non vuole lasciar correre».

E la maggioranza scende in campo per chiedere che su Mitrochin si faccia chiarezza. «È insieme gravissimo e triste che nella passata legislatura ci sia stato il tentativo di costituire e utilizzare delle commissioni parlamentari di inchiesta con l'obiettivo di infangare i leader dell'opposizione - attacca Dario Franceschini, capogruppo dell´Ulivo a Montecitorio - Crediamo che da un lato la magistratura e dall'altro il Parlamento, devono fare chiarezza fino in fondo perché non resti nessun velo di dubbio su ciò che è accaduto nei passati cinque anni». Per il socialista Roberto Villetti, «l'esperienza delle commissioni Mitrochin e Telekom Serbia appare essere stata molto più improntata alla propaganda politica piuttosto che alla ricerca della verità».

«La vicenda Mitrochin conferma quel che il caso Telekom Serbia aveva fatto emergere - spiega Piero Fassino - è stata perseguita un'azione di denigrazione personale e di destabilizzazione istituzionale con cui si puntava a colpire e delegittimare il centrosinistra e i suoi principali esponenti politici». Per il segretario DS «non sono più tollerabili reticenze e ambiguità» ed «è tempo che si faccia chiarezza e si individuino le responsabilità politiche e personali di chi ha tentato di stravolgere la vita democratica del Paese».

Il verde Bonelli chiede «l'apertura immediata di un'indagine per fare chiarezza». Quello «che ci indigna», aggiunge,«è l'uso politico indecente fatto della commissione Mitrochin teso a screditare l'opposizione e a costruire un disegno destabilizzante del Paese. Paolo Guzzanti, intanto, rinvia «a data da concordare» la prevista audizione presso il Copaco, il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. Il pretesto? La dichiarazione di un componente l'organismo parlamentare, Gianclaudio Bressa, che sarebbe «di tenore sprezzante e irrispettoso nei miei confronti - spiega Guzzanti - nel vano tentativo di farmi apparire come un "convocato" che obbedisce a un ordine».

lunedì 27 novembre 2006

Litvinenko 1

Pravdada: Pravda on line

Siccome i media occidentali ne dicono di tutti i colori, salvo non dirne una vera, vi presento due articoli (il primo tradotto da me) dalla Pravda. Potete anche non credergli, ma almeno potete ascoltare una voce fuori dal coro...

Delitto rituale N°2

24.11.2006 Fonte: Pravda.Ru URL: http://www.pravda.ru/politics/authority/205115-0

Mentre in Occidente sputano bava sul tema famigerato della "mano del Cremlino" nella morte di Litvinenko, tenente colonello dell'FSB (servizio federale di sicurezza, ex KGB, il corrispettivo del SISMI italiano, prima, in ordine decrescente di tempo, SID 1965-1977, SIFAR 1949-1965, SIM 1927-1943, Ufficio I 1900-1927), sfuggito alle indagini, dandone la colpa personalmente al presidente Putin, le edizioni della stampa britannica degna di tale nome delineano un quadro completamente diverso: la questione non è così univoca, come tentano di descriverla gli abitanti evasi della "Mosca sul Tamigi".

Intanto, il decesso di Aleksandr Litvinenko sul letto d'ospedale non fa onore alla medicina britannica, che, da quando questo malato il 1° novembre si è rivolto ad essa, non è riuscita ad individuare né le cause dell'avvelenamento, né l'avvelenamento stesso. La malattia è stata circondata via via da nuovi attributi di cospirazione, a partire dalla protezione armata presso la corsia d'ospedale e fino alle affermazioni di avvelenamento ora semplicemente con tallio, altamente tossico, ora col suo isotopo radioattivo, e finalmente con un composto di vari veleni... Alla fine i medici britannici hanno fatto una dichiarazione che i massmedia russi cosiddetti liberali hanno preferito ignorare, non rientrando nel tema prediletto dell'intelligence di sangue.

Frattanto, lo stato di salute misterioso del grave malato assomigliava sempre più alla sintomatologia di un cancro al quarto, ultimo, stadio. E' diventata chiara anche la causa della repentina caduta dei capelli del paziente. E' risultato che sia stato sottoposto ad un'intensa chemioterapia, per la quale Litvinenko si è sentito ancora peggio. Non occorreva essere dei luminari della medicina per capire un'ovvietà: negli avvelenamenti non si usa la chemioterapia.

Ma ecco una citazione letterale odierna da un autorevole giornale londinese, non scandalistico: "Secondo quanto appreso dai corrispondenti del Guardian, ieri mattina la polizia ha preso in considerazione l'ipotesi dell'autoavvelenamento. Immediatamente prima della morte di Litvinenko Scotland Yard ha dichiarato che non c'è alcuna "indagine su un eventuale attentato alla vita. In ultima analisi, gli altolocati pubblici ufficiali di polizia dubitano che quest'ultimo sia stato veramente vittima di un complotto del Cremlino".

Immediatamente prima vuol dire la sera del 23 novembre. La mattina seguente riscalda l'opinione pubblica con una notizia sensazionale buttata a brutto muso: di lì a poco, ecco che il morto ha dettato lui stesso come stanno le cose, aspettate un attimo che lo rendiamo di dominio pubblico. Pareva che nel frattempo la missiva dal letto di morte venisse "limata". "Lei è riuscito a tapparmi la bocca, ma a caro prezzo. Si è mostrato da barbaro impietoso quale è e quale la ritengono i suoi oppositori. Si può far tacere una persona. Ma l'ondata di protesta si spanderà per tutto il mondo...". Non hanno avuto il coraggio nemmeno di muovere le loro accuse o esprimere i propri sospetti in prima persona: si sono coperti con un morto, da cui nessuno pretenderà più alcunché.

Il Guardian londinese si è preso la briga di verificare da dove sia partita l'ampia campagna, durante la quale più volte si è supposto che Litvinenko sia stato vittima di un attentato del Cremlino. I giornalisti hanno individuato un'unica fonte, semplicemente perché non ce n'erano altre. Il "piazzamento" è stato effettuato da una delle agenzie di pubbliche relazioni di Londra, a capo della quale c'è lord Tim Bell, già consulente per i rapporti col pubblico di lady Thatcher. La medesima agenzia ha diffuso la fotografia di Litvinenko calvo in letto d'ospedale ai più grandi massmedia mondiali. Come è facile intuire, il proprietario unico dell'ufficio pi-erre di lord Bell è, manco a farlo apposta, Boris Berezovskij.

In seguito si è chiarito che era unica anche la versione dell'avvelenamento di Litvinenko con i sali di metalli pesanti. Un certo dipendente del lord ha contattato il professor John Henry, il maggior tossicologo britannico. Proprio quest'ultimo ha espresso giusto una supposizione, ossia che la causa del malanno di Litvinenko potrebbe essere da ricercare nel tallio o nei suoi isotopi. Ma gli organizzatori di questa provocazione sono stati traditi dalla solita fretta e scarsa attenzione per i particolari di Berezovskij. Il fatto è che mister Henry non si è occupato delle cure di Litvinenko, e quando le sue dichiarazioni sono finite nei massmedia non poteva conoscere i risultati delle analisi di laboratorio: non erano ancora pronte. Questo è quanto è stato raccontato sempre al "Guardian" dai medici dell'ospedale. E' lecito supporre che tra gli esculapi ci sia stato un gentlemen's face-to-face meeting. Il professor Henry non è più disponibile per un qualche commento: ieri il luminare ha dichiarato che se ne lava le mani, poiché si è "già scottato una volta".

Insomma, non ci sono ragioni oggettive per parlare di un omicidio implicitamente politico con risonanza indotta, il secondo dopo la tragica fine di Anna Politkovskaja, osservatrice della "Novaja Gazeta". Allora diciamo che è stata la seconda morte di quest'autunno di un ex cittadino russo particolarmente contrario all'ordine costituito della Russia. Eppure, ci sono alcune considerazioni comuni a questi tristi avvenimenti.

Primo: entrambi i tragici personaggi erano vicini a Boris Berezovskij, forse anche troppo.

Secondo: entrambe le vittime accusavano l'entourage del presidente russo in modo aspro, senza compromessi, ma senza alcuna prova, e Berezovskij non poteva non notare che la loro efficacia andava riducendosi. Se Anna, trovandosi in Russia, almeno risultava ancora essere una punta di diamante, il funzionario dei servizi segreti aveva ormai ben poco dell'esperto, dopo sei anni di emigrazione. Non risultando più utili, questi emissari dell'influenza che fu si stavano gradualmente trasformando in fonte di pericolo, sapendo molto delle bravate del loro patron.

Intervenendo a Londra durante uno dei dibattiti sull'assassinio di Anna Politkovskaja, Litvinenko ha raccontato che il presidente russo trasmetteva le sue minacce allla giornalista tramite Irina Chakamada (ex dirigente dell'Unione delle Forze di Destra).

Quando l'ha saputo, la Chakamada si è indignata ed ha dichiarato che un delirio dalla prima all'ultima parola, poiché l'ex candidata alla Presidenza della Federazione Russa non mette piede al Cremlino da tre anni. Ha supposto che la vogliano volutamente far litigare con i "democratici": tipo, è corrotta dal Cremlino. Non ha voluto commentare la morte dell'ex ufficiale dell'FSB:

- Non so cosa combinano a Londra. E' una storia talmente torbida che non ci si può capire nulla.

Terzo: bisogna ricordare le confessioni di Berezovskij rese pubbliche dal conduttore televisivo Vladimir Solov'ëv, nelle quali dichiarava l'utilità di un assassinio "rituale" di un qualche personaggio noto, per dare uno scossone a Mosca, di modo che una folla di centomila persone spazzi via l'odioso regime di Putin... Con la Politkovskaja non è successo. Cilecca?

Ed ora, in simultanea con la prima londinese di James Bond, la prima dello "scandalo dei veleni" nel cuore della democrazia occidentale. Con consegna a domicilio, di modo che questi pigri borghesi possano percepire il tutto a livello epidermico.

Spiace ricordare Confucio con le sue stanze ed i suoi gatti neri, ma i fatti sono fatti. Non esiste un referto medico del defunto Litvinenko che parli di avvelenamento. In vita, non ha proferito parola, oralmente, tutto è interpretato da altri, comprese le dichiarazioni in punto di morte. I suoi interpreti non meritano fiducia, per definizione: basta ricordare l'omicidio di Vlad List'ev, socio di Berezovskij quando ancora era in auge a Mosca, o l'avvelenamento a Kiev di Ivan Rybkin. Viktor Juščenko ha avuto più fortuna, ma i segni del veleno sono rimasti per tutta la vita, come se dei demoni avessero tritato dei piselli sulla sua faccia... Insomma, trovarsi Berezovskij come protettore è una prospettiva piuttosto pericolosa per la propria incolumità.

* * *

Omicidio Litvinenko: la stampa russa assolve Putin

26.11.2006 Source: Pravda.ru URL: http://italia.pravda.ru/russia/3870-0

"Non intendo commentare ora la morte di Aleksander Litvinenko, parlerò la settimana prossima": al telefono con il quotidiano russo 'Komsomolskaja Pravda' il magnate in esilio Boris Berezovskij, amico dell'ex colonnello del Kgb morto avvelenato a Londra, è categorico.

Molti quotidiani moscoviti però suggeriscono che sarebbe lui il più avvantaggiato dalla morte di un collaboratore divenuto peraltro inutile e forse scomodo, mentre il presidente Vladimir Putin, che la stessa vittima ha accusato come mandante dell'omicidio, viene assolto dalla maggioranza dei commentatori.

Fa presa sulle pagine dei giornali russi la dichiarazione fatta ieri dal consigliere presidenziale per gli affari europei Sergej Jastržembskij, secondo il quale "ci sono coincidenze inquietanti fra le morti di persone che criticavano il potere in Russia e gli avvenimenti internazionali ai quali Putin è invitato a partecipare.

L'impressione è che ci si trovi davanti a una campagna bene orchestrata, o a un piano per screditare Mosca e la sua leadership". Jastržembskij ha ricordato l'uccisione il 7 ottobre della giornalista Anna Politkovskaja, proprio il giorno del compleanno del leader del Cremlino e alla vigilia di un suo importante viaggio in Germania; la morte dell'immigrato illegale Tengiz Togonidze, che era fra i deportati della 'guerra fredda' con Tbilisi, mentre il presidente era in partenza per il vertice informale dell'Ue a Lahti, in Findlandia; il drammatico decesso di Litvinenko in coincidenza con un cruciale incontro sull'energia fra Putin e l'Unione europea.

La tesi è sposata in pieno da 'Komsomolskaja Pravda', e ulteriormente elaborata dal giornale del governo 'Rossijskaja Gazeta', che analizza l'eterna domanda del 'cui prodest'. Arrivando alla conclusione che quella morte ruota comunque attorno a Berezovskij, o perché ne è il maggiore beneficiario - avalla le sue critiche alla deriva autoritaria e passatista del Cremlino - o perché alcuni gruppi criminali hanno voluto vendicarsi del tycoon. Per Nikolaj Kovalëv, ex capo dell'FSB (i servizi segreti russi) interpellato da Kommersant, "c'è la calligrafia di Berezovskij" nel delitto: "Sono certo che nessun servizio di intelligence abbia a che vedere con questa vicenda. E' opera di nemici personali del presidente russo, per metterlo sotto scacco".

Il giornale interpella anche altri personaggi di opinione ben diversa: da Andrej Kozyrev, ministro degli esteri all'epoca di Boris El'cin, che chiede a Jastržembskij di "rivelare cosa sa del presunto complotto"; all'attivista Aleksandr Osovcov, del Fronte civile unito, per il quale il mandante è "Putin e nessun altro"; alla deputata liberale Irina Chakamada, che vede "due possibili regie: una che vuole sostenere Putin, una che vuole abbatterlo".

Quest'ultima tesi è fatta propria da un esperto straniero consultato dal quotidiano, l'ex capo del consiglio per lo spionaggio della CIA americana Fritz Hermart: "potrebbe trattarsi di una lotta interna fra vari gruppi del Cremlino, gli uni pronti allo scontro con l'Occidente, gli altri propensi alla mediazione".

L'analista statunitense identifica i 'falchi' nell'entourage di Igor' Sečin, vicecapo dell'amministrazione presidenziale. Vladimir Ryžkov, deputato liberale indipendente, lega l'uccisione di Litvinenko a quella della Politkovskaja, affermando che dietro "c'è la stessa mano".

Evgenij Jašin, ex ministro dell'economia del periodo el'ciniano, liquida la tesi del complotto contro il Cremlino con una secca battuta: "Non c'è alcun bisogno di screditare la leadership russa, lo fa già per conto suo". Infine, c'è una minoranza che parla di servizi deviati: radio "Eco di Mosca" non esclude la possibilità che dietro alla morte dell'ex colonnello del KGB vi siano semplicemente gli antichi colleghi adirati contro il 'traditore', che avrebbero deciso di agire di propria iniziativa.

© 1999-2006. «PRAVDA.Ru». When reproducing our materials in whole or in part, hyperlink to PRAVDA.Ru should be made. The opinions and views of the authors do not always coincide with the point of view of PRAVDA.Ru's editors.

venerdì 24 novembre 2006

La Russia vista dall'Occidente

da: Komsomol'skaja Pravda, Dni, Pravda

Komsomol'skaja PravdaMark Aims, redattore capo della rivista "The eXile", pubblicata in Russia in lingua inglese, ha raccontato al quotidiano russo "Komsomol'skaja Pravda" su come la Russia viene vista dagli abitanti dei Paesi occidentali.

DniMark Aims lavora e vive in Russia già da 15 anni: "Potrei tornarmene negli States in qualsiasi momento, ma non voglio farlo. Io sono venuto qui non per denaro o per sesso, a differenza di molti altri, bensì per vivere. E devo ammettere che vivere in Russia è un qualcosa di decisamente interessante", ha raccontato Aims.

PravdaEssendo a conoscenza della cultura e della mentalità di due paesi completamente diversi, Aims si è rivelato essere lo specchio ideale per raffigurare ciò che "loro" pensano di "noi".

Il giornalista americano ha iniziato il suo racconto con una storia che illustra alla perfezione gli stereotipi venutisi a creare nella concezione occidentale della Russia e della sua popolazione. "Ho inventato una lotteria televisiva, - racconta Aims. - Per cui ho deciso di rivolgermi telefonicamente ad un'agenzia di vigilanza americana passandomi per un conoscente del famoso attore David Schwimmer, protagonista della telenovela "Friends". Dopo qualche tempo mi hanno risposto che l'attore era letteralmente terrorizzato dall'idea di venire a Mosca e, in maniera molto seria, mi hanno proposto due guardie del corpo armate, due giubbotti antiproiettile nonché, cosa che mi ha letteralmente sconvolto, due cani da difesa con i quali io e Schwimmer avremmo dovuto andare in giro per Mosca".

Tanto più che su ammissione dello stesso giornalista "il numero di omicidi a Mosca è notevolmente inferiore a quello medio di qualsiasi città americana. Qui da voi, se una ragazza alle tre di notte fa l'autostop, è un qualcosa di assolutamente normale, mentre per quanto riguarda l'America la sola idea mi fa venire i brividi. Là nessuno arriva a tanto! A Mosca si può andare tranquillamente in giro la sera. Sì, c'è il rischio di imbattersi in qualche delinquente, ma se alla stessa ora andrete in giro per una qualsiasi città americana, il rischio che vi rapinino sarà decisamente maggiore".

Tuttavia tale verità sulla Russia agli americani non interessa affatto: "Là non vogliono modificare lo stereotipo venutosi a creare", dice Mark Aims tentando di spiegare la mentalità del giornalismo occidentale: "ad occidente la gente è convinta che i mass-media locali siano assolutamente trasparenti ed obiettivi, ma io a volte penso che se ad esempio gli americani dovessero venir privati della convinzione di essere a conoscenza della verità, l'America crollerebbe in un istante, dal momento che il livello di convinzione dell'americano medio non è per niente inferiore a quello del fanatismo di un qualsiasi terrorista musulmano".

Inoltre il giornalista americano una volta si è ripromesso "di non potere scrivere nei mass-media occidentali tutta la verità sulla Cecenia, ad esempio sul fatto che là la vita sta riprendendo il suo normale corso. Tale affermazione distruggerebbe una volta per sempre la mia immagine e mi creerebbe grossi problemi".

"E non si tratta per niente di una questione di censura - dice Aims. - Si tratta bensì di cose assai peggiori. Iniziamo col fatto che i giornalisti occidentali che vengono inviati qui sono lungi dall'essere i più accreditati... Il loro compito in sostanza è uno solo: vendere materiale inedito sulla Russia al redattore, il quale da parte sua già da tempo ha assimilato "la verità" secondo la quale la Russia è un paese totalitario e che Putin è un tiranno. E per far giungere da Mosca materiale di carattere positivo, come minimo andrà a consigliarsi con i suoi capi... Allora ci si chiede: perché complicarsi così la vita? Secondo me farebbe assai meglio a scrivere qualche porcheria sulla Russia che ad occidente farebbe furore. E in tutto questo le censura non c'entra. Il redattore non teme Bush poiché lo stato non lo mette sotto pressione ed in strada la polizia non gli chiede i documenti".

E cambiare radicalmente tale situazione rappresenta un compito assai difficile, se non impossibile: "Anche se a Mosca darete una bustarella ai giornalisti occidentali, questi somari non capiranno niente lo stesso, - ride divertito Mark Aims. Bisogna capire fondalmente una cosa: ad occidente sono tutti indignati per il fatto che la Russia non è diventata l'Arizona di turno, come ad esempio hanno fatto la Polonia e la Repubblica Ceca. I polacchi ed i cechi ci ubbidiscono ciecamente, loro amano l'America... Ma i russi! I russi con una mentalità ed una cultura così se ne fregano dell'America e l'America s'incazza dal momento che la cultura americana è basata proprio sul fatto che altre culture ne riconoscano la supremazia".

Aims sottolinea il fatto che "la Russia si preoccupa molto di ciò che possa pensare di lei l'Occidente e recepisce le critiche in maniera decisamente dolorosa, mentre l'America di tutto questo se ne frega altamente. Negli States l'opinione critica sul paese da parte di uno straniero non viene nemmeno valutata, dal momento che non interessa a nessuno. Al contrario, lo fisseranno come se fosse un marziano. Forse gli americani dimostrano qualche interesse se li elogiate?".

Il consiglio principale che Mark Aims dà alla Russia è quello di preoccuparsi il meno possibile di piacere all'Occidente. "Tanto è perfettamente inutile, - dice il giornalista. - Ad Occidente in ogni caso penseranno ancora a lungo che in Russia al potere ci sono i comunisti, la gente fa la fila davanti ai negozi e per le strade girano gli orsi. Ad essere sinceri fino in fondo, agli europei e soprattutto agli americani, non frega assolutamente niente di quello che succede in Cecenia e della morte della Politkovskaja.

Fonte: http://www.dni.ru/

22.11.2006 Source: Pravda.ru URL: http://italia.pravda.ru/russia/3847-0

© 1999-2006. «PRAVDA.Ru». When reproducing our materials in whole or in part, hyperlink to PRAVDA.Ru should be made. The opinions and views of the authors do not always coincide with the point of view of PRAVDA.Ru's editors.

lunedì 20 novembre 2006

Anna Politkovskaja 3

di Mark Bernardini

La Pravda, per sfatare tanti ennesimi luoghi comuni occidentali, italiani e sinistrorsi, non è (non è più da quindici anni) l'organo ufficiale del PCUS. L'organo ufficiale del PCFRAnzi: di Pravde (nel senso di Verità) ce ne sono almeno due. Una è l'organo ufficiale del Partito Comunista della Federazione Russa (PCFR, quello di Zjuganov, per intenderci). L'altro, è un giornale di sinistra non legato ad alcun Partito. In entrambi lavorano molti (ma non solo) redattori della Pravda sovietica. Per dirla con parole loro: [...] più del novanta per cento dei giornalisti che sino al momento del tentato golpe dell'agosto 1991 lavoravano per la "Pravda", ha lasciato la redazione. Hanno fondato la loro "Pravda" la quale, sotto pressione delle istituzioni, è stata costretta piuttosto in fretta a chiudere i battenti. I collaboratori della "Pravda" sono stati così costretti a passare al mondo virtuale: nel gennaio 1999 ha iniziato la propria attività il primo giornale-Internet in Russia, la "PRAVDA On-line". Pravda on-lineRiteniamo che oggigiorno abbiano lo stesso diritto morale di proseguire la storia della testata chiusa su ordine del presidente della Russia nell'agosto del 1991, sia il giornale nuovamente registrato, che la "PRAVDA On-line". Tanto più che lo staff di ambe le edizioni è composto da un eguale numero di giornalisti che lavoravano per la "Pravda" prima che essa venne chiusa. Nonostante il fatto che i giornalisti di ambe le testate continuino a mantenere contatti reciproci, la concezione relativa al modo di informare in merito agli avvenimenti sia livello nazionale che mondiale è totalmente diversa. Il giornale "Pravda" li analizza da un punto di vista di interessi di partito, mentre "PRAVDA On-line" parte da un approccio “pro-russo” nella formazione della propria politica. Diciamoci la verità, in questo modo il mondo diventa meno monotono.

Con questa lunga ma doverosa premessa, vi riporto quanto pubblicato dalla versione italiana della Pravda il 15 novembre:

Sono passati esattamente 41 giorni dall'assassinio della giornalista Anna Politkovskaja e i suoi assassini sono ancora in libertà. Ma per quanto increscioso possa sembrare di primo acchitto, va detto che il ritratto postumo della giornalista uccisa disegnato a tinte dorate pare sia assai lontano dalla verità dei fatti, cosa confermata dalla misteriose circostanze che hanno permesso alla giornalista uccisa di ottenere a suo tempo la cittadinanza americana.

Come è comunemente noto, secondo la legislazione americana attualmente in vigore, qualsiasi bambino venuto alla luce sul territorio degli Stati Uniti, anche se in una famiglia di immigrati illegali, ottiene automaticamente la cittadinanza americana. Ma Anna Mazela (vero cognome di nascita della Politkovskaja) nacque in una famiglia di diplomatici sovietici che all'epoca lavorava a New York, e tali diritti non sono previsti nei confronti di questa categoria di bambini nati sul territorio americano.

Per questo motivo, il fatto di essere venuta al mondo sul territorio degli Stati Uniti non dava alla Politkovskaja nessun diritto di ottenere la cittadinanza americana, cosa che però in qualche modo ottenne ugualmente nel 1990, quando non era altro che una sconosciuta giornalista di una rivista settoriale a bassa tiratura chiamata "Trasporto aereo".

In che modo e in quali circostanze sia riuscita ad ottenere la cittadinanza, quali servizi possa aver reso al governo degli Stati Uniti e quali obblighi abbia preso nei confronti della propria persona, tutto questo resta ancora un mistero, sebbene, però, alcuni di essi possono essere stabiliti basandosi su informazioni ottenute da fonti prettamente americane.

Prendiamo ad esempio il giuramento di fedeltà nei confronti degli Stati Uniti che ogni persona che acquista la cittadinanza americana è tenuto a prestare. Ecco lo storico testo scritto ancor dai Padri fondatori degli Stati Uniti d'America, l'originale del quale viene tuttora conservato nella biblioteca del Congresso: "Giuro solennemente, di mia spontanea volontà e senza alcuna esitazione di rifiutare la fedeltà nei confronti di qualsiasi altro stato. Da questo giorno la mia dedizione e la mia fedeltà sono indirizzate nei confronti degli Stati Uniti d'America. Mi impegno a sostenere, rispettare ed essere fedele agli Stati Uniti e alla loro Costituzione e legislazione. Mi impegno altresì a forma di legge a difendere la Costituzione e la legislazione degli Stati Uniti contro tutti i nemici, interni ed esterni, sia in servizio civile che militare. Lo giuro solennemente nel nome di Dio".

In questo modo, il giuramento di fedeltà nei confronti degli Stati Uniti comporta il rifiuto di fedeltà nei confronti di un secondo Paese, nel caso specifico della Politkovskaja, nei confronti della Russia, tanto più che negli Stati Uniti la cerimonia di giuramento per ottenere la cittadinanza avviene effettivamente in maniera assai solenne e viene considerata un momento serissimo nella vita di tutti coloro che prendono tale decisione.

Ma a proposito del modo in cui Anna Politkovskaja abbia ripudiato sia la Russia che la cittadinanza russa, la storia al momento tace. Tuttavia è lecito pensare che l'abbia fatto in maniera pienamente convincente, altrimenti la cittadinanza americana non l'avrebbe ottenuta. E a questo proposito è indispensabile sottolineare il fatto che la legislazione americana non si limita solo a non prevedere la doppia cittadinanza ma addirittura la proibisce.

Che poi tali leggi non vengano praticamente applicate e che il secondo passaporto venga considerato semplicemente un ammasso di foglietti inutili è un altro discorso. In ogni caso sarà meglio comportarsi in maniera assai accorta dal momento che si deve essere fedeli all'America e solamente all'America.

Nel caso in cui le autorità americane sospettino o di infedeltà o del fatto che un qualsiasi neocittadino abbia mentito nel momento in cui prestava fedeltà alla sua nuova patria, questo può costare al neocittadino in questione la privazione della cittadinanza americana. Per cui i "nuovi americani" faranno bene a comportarsi in maniera assai accorta, dimostrando dedizione e fedeltà nei confronti del tipo di vita, della Costituzione e della bandiera a stella e strisce americane.

Sulla base di quanto detto finora, l'intensa attività di Anna Politkovskaja sul territorio della Federazione Russa assume una sfumatura un attimo inattesa. Si tratta quindi di una cittadina americana che a suo tempo ha rinnegato di sua spontanea volontà la cittadinanza russa e che lavorava in Russia grazie al sostentamento di stati stranieri in una regione infiammata dal separatismo. E non è da escludere il fatto che lo facesse negli interessi degli Stati Uniti, trovandosi, come recita il giuramento di fedeltà, in "servizio civile".

Di conseguenza sorgono spontanee alcune domande per niente prive di logica da porre rispettivamente al ministero degli Esteri, al ministero della Difesa nonché ai Servizi di sicurezza della Federazione Russa: in che modo questa giornalista straniera si spostava liberamente lungo il territorio della Federazione Russa sino alla zona teatro dei combattimenti incontrandosi per giunta con i rappresentanti delle forze separatiste? Ed in che modo viene regolata per legge la presenza di cittadini stranieri nelle zone definite a stato di emergenza? Perché gli americani in Iraq sin dall'inizio delle ostilita' belliche hanno rigidamente limitato la presenza di giornalisti fra le truppe, mentre in Cecenia si poteva recare chiunque lo desiderasse? Ed infine l'ultima domanda, probabilmente la più importante: qualche funzionario del ministero degli Esteri russo ha mai per caso letto il testo del giuramento che dà diritto ad ottenere la cittadinanza americana? E se per caso l'ha letto non ha forse capito che tutti i cittadini russi in possesso della doppia cittadinanza americana, a loro tempo hanno ufficialmente ripudiato quella russa?

A questo di mio posso aggiungere solo un'esperienza personale. Sono cittadino italiano dalla nascita, ovvero dal 1962. Sono stato cittadino sovietico sempre dal 1962 al 1978: a sedici anni, quando in URSS veniva consegnato ufficialmente il passaporto, io ero a fare cortei con la FGCI a Roma. Ho riacquisito la cittadinanza, ormai russa, solo nel 1996, trentaquattrenne, sicuro di essere ormai militesente (farlo due volte, no grazie).

La legge italiana manco menziona l'eventualità della doppia cittadinanza. In uno Stato di diritto, quale dovrebbe essere l'Italia, ciò che non è espressamente proibito è automaticamente e tacitamente lecito. La Russia, invece, non si è limitata ad una legge qualsiasi, lo ha affermato nell'art. 62 della Costituzione: [...] Il cittadino della Federazione Russa può essere cittadino di altro Stato [...].

Nessuno, a parte la naja, in Italia o in Russia, si è mai sognato di pretendere da me ipocriti giuramenti di fedeltà, né tantomeno di ripudiare Paesi terzi. Perché, giova ricordarlo, la democrazia non è nata in un saloon tra un whisky ed una sfida all'OK Corral, né sui galeoni che trasportavano pezzi di formidabili delinquenti con cui espropriare nel sangue i legittimi abitanti di un continente cosiddetto nuovo.

giovedì 9 novembre 2006

Anna Politkovskaja 2

di Mark Bernardini
Come è noto, sono stato ai funerali della Politkovskaja.
Cosa ne pensi personalmente, l'ho già scritto tempo addietro.
Ho saputo che in Italia c'è chi, come sempre "a sinistra", propone di intitolare alla Politkovskaja tutte le vie d'Italia dove siano presenti Ambasciata, Consolati e Rappresentanze Commerciali della Federazione Russa. Nella pratica del "re-intitolamento" di vie preesistenti finora hanno eccelso Stalin, Mussolini e El'cin. Se non si ritene imbarazzante siffatta congrega, ci si accomodi. Voglio ora riportare alcune voci "fuori dal coro", giuntemi in queste settimane.
Anna Politkovskaja, pur esaltata come martire della verità a destra e sinistra, non era che una spia al servizio dell'imperialismo. Intima di Eltsin e della sua banda di criminali mafiosi, non ha mai denunciato il minimo malaffare di quei distruttori dell'URSS e della Russia, nè dell'ubriacone venduto a Washington, nè dei suoi oligarchi che si sono mangiati i russi vivi e si sono venduti perfino i cimiteri. Regolare collaboratrice del circuito radio "Liberty" (ricordate Radio B-92 e Otpor???) gestito dalla Cia fin dal 1948 per destabilizzare i paesi socialisti, è stata il megafono dei terroristi ceceni finanziati e armati dalla Cia e dal Mossad per sottrarre il petrolio caucasico alle rotte e al controllo dei russi. Pessima scrittrice, non è accettabile che una sinistra non corrotta come quella di Bertinotti o di parte del manifesto si allinei passiva e acritica agli sterotipi falsi della propaganda imperialista gestita dai gangster di Washington, Tel Aviv e UE. La Politkovskaja era la Fallaci o il Magdi Allam russo. Niente di più. Una vera schifezza.
Fulvio Grimaldi
A me personalmente, Grimaldi non è mai piaciuto: inutilmente maleducato e violento verbalmente, ottiene lo scopo opposto a quello che si prefigge. Tuttavia, "deflorato" delle intemperie lessicali, ha ragione da vendere: i morti non hanno sempre ragione per il solo fatto di essere morti. E radio Svoboda (Liberty), che in URSS era ascoltata da tutti sulle onde corte, di nascosto in cucina, analogamente alla radio "Voice of America", era finanziata apertamente ed ufficialmente dal Congresso statunitense e trasmetteva da Berlino Ovest, per poi spostarsi a Praga dagli anni '90 e fino ai nostri giorni.
A proposito dell’assassinio di Politkovskaja di Movisol.org L’assassinio della giornalista russa dissidente Anna Politkobvskaya va inquadrato nel contesto della serie di assassinii avvenuti nelle ultime settimane, evidentemente miranti a ledere la stabilità politica del presidente Vladimir Putin. Tutti gli assassini in questione sono stati condotti da “professionisti”. E’ noto che il crimine organizzato russo è collegato con i vari oligarchi latitanti dalla giustizia russa. Il più famoso degli oligarchi è Boris Berezovsky che ha ottenuto “asilo politico” in Inghilterra. * Il 14 settembre è stato assassinato Andrei Kozlov, vice presidente della banca centrale russa. Deciso sostenitore della politica del governo, Kozlov era impegnato contro il riciclaggio del denaro ed aveva ordinato il ritiro di alcune licenze bancarie. * Il 30 settembre è stato assassinato Enver Zighashin, ingegnere capo della TKN BP, la sussidiaria russa della British Petroleum. Si tratta di un assassinio che certamente non ha risolto gli attriti tra Russia e imprese petrolifere occidentali ma li ha piuttosto aggravati. * Il 7 ottobre è stata assassinata Anna Politkovskaya. * Il 10 ottobre è stato assassinato Alexander Plokhin, direttore della branca moscovita della Vneshtorgbank, banca di stato che riveste un ruolo importante nei rapporti economici che la Russia intrattiene con Africa, Asia, America Latina ed Europa, in particolare quelli promossi dallo stesso Putin. La Vneshtorgbank ha recentemente acquistato il 5% del gigante aerospaziale europeo EADS, proprietario di Airbus. L’acquisto ha suscitato una notevole controversia, sia a motivo delle implicazioni economiche che quelle di sicurezza. * Il 16 ottobre è stato assassinato Anatoly Voronin, esperto immobiliare della Itar-Tass. Alexander Lebedev che è comproprietario, con Michail Gorbaciov di Novaya Gazeta, il giornale su cui scriveva la Politkovskaya, ha pubblicato un commento intitolato: “Chiunque abbia sparato alla Politkovskaya mirava ai suoi avversari” — in altre parole mirava al regime di Putin. La Politkovskaya era così nota come oppositrice del regime, scrive Lebedev che è fin troppo facile sospettare coloro che lei criticava. “Ma non dobbiamo considerare attentamente la possibilità che chi ha ordinato l’assassinio voleva che noi facessimo proprio questo? Forse un’ondata di rabbia contro coloro che la giornalista criticava è proprio l’effetto su cui contavano i killer? Così sparando alla giornalista miravano ai suoi avversari”. Nel corso della sua visita in Germania, tra il 10 e l’11 ottobre, il presidente Putin ha fatto due volte riferimento al grave episodio. A Dresda il presidente ha detto, secondo quanto riferito dalla Pravda: “Non molto tempo fa fu ucciso un altro giornalista, Paul Khlebnikov. Dopo la pubblicazione del libro intitolato «Conversazioni con un barbaro», in cui i personaggi principali sono posti in cattiva luce, lui è stato ucciso. Non so chi l’abbia uccisa [Anna Politkovskaya], ma è chiaro che chi si sta sottraendo alla giustizia ha valutato l’opportunità di sacrificare qualcuno per incoraggiare i sentimenti anti russi nel mondo”. Nell’intervista concessa l’11 ottobre al Sueddeutsche Zeitung, pubblicata integralmente solo sul sito Kremlin.ru, Putin ha detto: “Saprete che diversi anni fa un giornalista americano di origini russe, Paul Khlebnikov è stato ucciso in Russia. Si era occupato dei problemi della Repubblica di Cecenia ed aveva scritto un libro intitolato «Conversazioni con un barbaro». Stando alle indagini, i protagonisti del libro non erano contenti di come Khlebnikov li ha presentati e lo hanno distrutto”. Il “barbaro” in questione è Khodj-Akhmed Nukhayev, il finanziatore del separatismo del Caucaso Settentrionale: Oggi Nukhayev vive in Israele, fa affari con il lord inglese McAlpine ed è sospettato di collegamenti con Boris Berezovsky. Khlebnikov era il genero di John Train, personaggio di Wall Street impegnato nelle operazioni contro Lyndon LaRouche. Nel 2005 Anna Politkovskaya ha ricevuto il “Premio per il coraggio civile” del Northcote Parkinson Fund di John Train.
Ecco un guizzo di genio dall'impareggiabile Michele Serra, a proposito delle dichiarazioni stizzite di Putin sulla mafia:
L'amico Putin, seppure coi suoi modi da steppa, per una volta ha detto una cosa ahimé giusta: quanto a mafia, l'Italia non ha le carte in regola per dare lezioni agli altri. Ma la politica dev'essere davvero una specie di droga se è vero, come è vero, che le reazioni italiane sono state perfino più stonate del prevedibile. La sinistra, che di mafia parla da quando è nata come di un cancro che corrode il paese, e da Portella della Ginestra fino a noi conta tra i suoi uomini la grande maggioranza delle vittime di mafia, si è inalberata come se Putin avesse detto chissà quale enormità. Viceversa Berlusconi e molti dei suoi soci, che in cinque anni di governo hanno stabilito un vero e proprio record di omertà politica rispetto alla questione mafiosa (e stendiamo un velo pietoso su Mangano e Dell'Utri), ha difeso a spada tratta l'amico Putin. Cioè: se a dire "mafia" è un pm italiano, che magari rischia la pelle, nel centrodestra si grida al giustizialismo. Se lo dice Putin, allora è una verità da applaudire. Non saprei proprio, in questo quadro insieme penoso e stravagante, quali delle due parti politiche si sia maggiormente distinta per incoerenza. Diciamo solo che, come spesso accade, la sinistra immalinconisce, la destra fa morire dal ridere. Michele Serra, Repubblica, 25 ottobre 2006
Ma proprio l'Unità, unico giornale italiano ad avere indicato in Putin il mandante dell'omicidio della Politkovskaja fin dal primo giorno, riporta pochi giorni fa, inconsapevole delle proprie contraddizioni interne:
Rispetto al 2005, siamo scesi di altre cinque posizioni nella classifica della corruttibilità, passando dal 40° posto al 45°, dopo il Botswana, la Giordania, la Corea del Sud. A fotografare l´amara situazione, il Rapporto 2006 di Transparency International (Ti), l´organizzazione non governativa che è impegnata nella lotta alla corruzione e che ogni anno stila una classifica che registra la percezione della corruzione in 163 paesi del mondo. Nella scala di voti, da 1 a 10, l´Italia non sfiora nemmeno la sufficienza, fermandosi al 4.9. Al primo posto, con un 9.6, la Finlandia, seguita dagli altri paesi scandinavi (Danimarca, Svezia, Norvegia) ma anche da Nuova Zelanda, Singapore e Australia. Il resto dei paesi europei ci distacca di molto: il Regno Unito si posiziona all´11° posto, la Germania al 16°, la Francia due postazioni più in basso. I cittadini statunitensi percepiscono un grado di corruzione che fa classificare gli Usa al 20° posto, ancora lontanissimo dall´aria corrotta che si respira in Italia. L'Unità, 7 novembre 2006
Insomma, pongo retoricamente per la terza volta una domanda. In certi esercizi ginnici eccelle in particolare l’Unità, probabilmente per un malcelato (e male interpretato) senso di peccato originale, protesa spasmodicamente a dover dimostrare di essere più antisovietica dei sovietici. Legittimo. Purtroppo, finisce regolarmente col trascendere in russofobia. [...] Quali sono gli obiettivi della sinistra italiana e dell’Unità?

giovedì 2 novembre 2006

Scampoli di memoria 3

di Dino Bernardini

A partire dal 1976 sono stato per qualche anno responsabile dei rapporti del PCI con i partiti comunisti dei paesi socialisti. Non avevo accettato con entusiasmo quel nuovo incarico perché avrei preferito restare alla redazione di Rassegna Sovietica, dove ricoprivo l’incarico di vice-direttore e direttore responsabile (direttore era Umberto Cerroni, che però da anni era tutto preso dal suo lavoro all’università di Lecce e mi aveva lasciato carta bianca). Ma il mio amico Gianni Cervetti, che il quel momento era il numero 2 a Botteghe Oscure, insistette e mi convinse promettendomi che dopo un paio di anni, se non fossi stato soddisfatto del mio lavoro, avrei potuto tornare a tempo pieno alla mia amata Rassegna Sovietica, che nel frattempo, se me la sentivo, avrei potuto continuare a dirigere. Rimasi invece a Botteghe Oscure fino alla pensione. I miei capi diretti alla Sezione Esteri del PCI furono all’inizio Sergio Segre, responsabile, e Antonio Rubbi, viceresponsabile. Al di sopra di loro c’era Giancarlo Pajetta, che, in quanto membro della Direzione e presidente della Commissione Esteri del Comitato Centrale, faceva da supervisore della politica estera. Credo che Giancarlo Pajetta ritenesse all’epoca di essere lui il vero amico dell’URSS dentro il PCI, amicizia invero non ricambiata giacché i sovietici non è che si fidassero molto di lui e non lo amavano perché Pajetta ogni tanto si permetteva, anche contro di loro, una di quelle sue battute fulminanti che facevano sobbalzare i gerontocrati del PCUS. Ebbene, penso che Pajetta diffidasse di me per il semplice fatto che avevo studiato a Mosca, e che mi ritenesse un potenziale confidente del KGB. Ma forse, più probabilmente, ce l’aveva un po’ con me perché la mia nomina non era stata caldeggiata da lui. Mi rendo conto che tutti questi particolari sulla vita interna del PCI possono non risultare interessanti per il lettore, ma ne parlo per far capire la situazione in cui avvenne l’episodio che sto per raccontare. Comunque, i miei rapporti con Pajetta non furono sempre facili, fin dall’inizio, salvo imprevedibili – com’era nel carattere dell’uomo – momenti di bonaccia in cui arrivava persino a manifestarmi il suo affetto. Tant’è che quando, nel corso degli anni successivi, Paolo Bufalini si alternò per due volte con Pajetta alla presidenza della Commissione Esteri del Comitato Centrale, io venni nominato ogni volta membro di quella Commissione, come tutti gli altri funzionari della Sezione Esteri, mentre poi, quando il presidente tornava ad essere Pajetta, io ne venivo escluso. Io solo.

E veniamo all’argomento di questo Scampolo di memoria, suggeritomi dal necrologio di Schafik Handal che ho letto il 26 gennaio 2006 nel País (p. 45). Schafik Handal è stato Segretario Generale del Partito Comunista Salvadoreño, leader del Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale, negoziatore della pace raggiunta nel 1992 dopo decenni di guerriglia contro la dittatura. Nel momento in cui è morto ricopriva la carica di presidente del gruppo parlamentare del Fronte Farabundo Martí, trasformatosi nel frattempo in partito politico. Aveva 75 anni, ed è deceduto all’aeroporto di San Salvador subito dopo il suo ritorno dalla Bolivia, dove era stato invitato ad assistere all’insediamento di Evo Morales, il leader del MAS (Movimento al Socialismo) eletto plebiscitariamente dai diseredati indios boliviani, il presidente che al momento del giuramento ha levato in alto il pugno chiuso e che come suo primo atto di governo ha dimezzato gli stipendi dei ministri e ha stabilito che il suo personale emolumento presidenziale non deve superare una cifra corrispondente a circa 1.500 euro.

Nella seconda metà degli anni Settanta Handal, pur considerato un comunista moderato, era costretto alla clandestinità in patria e a frequenti viaggi e soggiorni all’estero. Di passaggio a Roma, aveva chiesto di incontrare qualcuno del nostro partito. Pajetta mi chiamò e mi disse di invitarlo a pranzo per sapere che problemi avesse.

– Ma Pajetta, io non so nulla del Salvador, abbiamo agli Esteri chi si occupa del Sud-America. E poi parlo abbastanza male lo spagnolo, riesco appena a farmi capire…

Non so se Pajetta conoscesse su Handal quello che io scoprii soltanto un anno dopo, forse voleva soltanto mettermi alla prova o magari divertirsi a mie spese, oppure non si fidava del nostro addetto all’America Latina, o forse quest’ultimo, adesso non ricordo, era assente da Roma, Fatto sta che non riuscii a convincerlo e dovetti prendere un appuntamento. Durante il pranzo Schafik Handal si confidò con me su molti argomenti e scoprimmo di pensarla allo stesso modo sull’URSS e sul cosiddetto “socialismo reale”. La conversazione fu lunga, anche perché spesso non ero sicuro di aver capito bene, a causa del mio spagnolo, e lo costringevo a chiarire meglio il suo pensiero con altre parole. Alla fine ci lasciammo da amici e in seguito ci capitò di incontrarci affettuosamente altre volte. Ma, come vedremo, senza più la difficoltà della lingua. E non perché nel frattempo il mio spagnolo fosse migliorato.

La prima volta fu un anno dopo, a Mosca, nell’albergo del PCUS per le delegazioni comuniste. Pochi sapevano che si chiamasse Oktjabr’skaja, giacché fuori non c’era scritto nulla [l’attuale Prezident Otel’, NdR], neanche che fosse un albergo. Ma ci si stava benissimo. Mentre ero a pranzo nella sala ristorante, vidi non lontano da me Schafik Handal che parlava liberamente in russo con un interlocutore sovietico. Rimasi stupefatto. Ci abbracciammo calorosamente e questa volta parlammo in russo, felici di capirci bene e recriminando di non aver saputo, un anno prima, di avere una lingua in comune per conversare. Eh, Pajetta!

***

Visto che nel capitolo precedente ho parlato di Rassegna Sovietica, voglio raccontare di come ne divenni il vicedirettore tuttofare, dove “tuttofare” significava veramente fare tutto, cioè scegliere gli articoli, commissionare le traduzioni, tenere i contatti con la tipografia (si era ancora all’epoca delle linotype), fare il lavoro di redazione dei testi e di editing, correggere le bozze nei vari passaggi fino al “visto si stampi”, preparare il borderò di ogni numero per pagare i collaboratori, rispondere alle telefonate ecc. La situazione nel 1972 era la seguente.

Come ho già detto, il direttore Umberto Cerroni era ormai tutto preso dalla sua cattedra all’università e formalmente la rivista era affidata alla vicedirettrice Irina Colletti, ex moglie di Lucio Colletti, donna all’epoca bellissima, di origine russa, intelligente e gentile, ma priva di polso nei suoi rapporti con i collaboratori. La rivista aveva ormai accumulato un ritardo cronico di tre o quattro numeri, che per una rivista trimestrale come era allora Rassegna significava un anno. Questo, perché, se un professore universitario prometteva a Irina Colletti un suo saggio per il prossimo numero, quel numero non poteva uscire finché il saggio non fosse pronto, ma nel frattempo un altro professore, che aveva consegnato il suo saggio qualche mese prima, chiedeva di fare qualche aggiornamento bibliografico o di sostanza, giacché nei mesi intanto trascorsi era uscita qualche nuova pubblicazione sull’argomento. Così gli aggiornamenti si rincorrevano a vicenda e la rivista accumulava mesi di ritardo. Inoltre c’erano pressioni da parte dell’ambasciata sovietica affinché il materiale tradotto dal russo e pubblicato in Rassegna Sovietica non si limitasse, come era da qualche anno, quasi esclusivamente agli inediti delle avanguardie sovietiche degli anni Venti e Trenta del Novecento, ma rispecchiasse anche la realtà contemporanea. A dire la verità, c’era anche il fatto che il nostro editore, e cioè l’Italia-URSS, Associazione Italiana per i Rapporti culturali con l’Unione Sovietica, pubblicava anche un mensile, Realtà Sovietica, in formato rotocalco, con molte fotografie, e che questo mensile era più gradito ai sovietici, ai quali non sarebbe dispiaciuto vedere la chiusura di Rassegna Sovietica.

Il senatore Gelasio Adamoli, Segretario Generale dell’Italia-URSS, mi propose di prendere in mano la direzione operativa di Rassegna. Concordammo la linea editoriale, mi illustrò i problemi e mi mise in guardia contro i possibili rischi. Alla fine del colloquio mi apprestai ad accomiatarmi, ma lui mi fermò con un certo imbarazzo.

– Abbiamo parlato di tutto, – disse, – ma non del tuo stipendio.

Si deve sapere che a quell’epoca ero uno dei pochi italiani a conoscere il russo ed ero ricercato continuamente come interprete, ben pagato. Avevo accumulato così un discreto gruzzoletto e mi consideravo una persona quasi ricca. Quanto a Rassegna Sovietica, era stata il mio sogno fin dagli anni in cui studiavo letteratura russa alla facoltà di filologia dell’Università Lomonosov di Mosca. Naturalmente le mie speranze di studente si limitavano a una eventuale collaborazione, non certo alla carica di direttore. Ed ecco che mi si offriva di colpo la direzione.

“Caro Adamoli”, – gli risposi scherzando, “Rassegna Sovietica è una rivista unica nel panorama editoriale italiano e mi piacerà moltissimo lavorarci. Quanto ai soldi, la penso così: quando uno va al cinema per vedere un film che gli piace, paga per entrare, non gli passa neanche per la testa che qualcuno possa dargli dei soldi. Ora tu mi chiedi quanto voglio per dirigerla, ma a me la cosa piace a tal punto che ti potrei chiedere quanto devo pagare io per farlo”. Dopo questa mia bella battuta ci accordammo per la favolosa somma di 30 mila lire al mese.

Fu l’inizio di un’avventura per me affascinante che spero di poter raccontare in futuro, a poco a poco.

Slavia, rivista trimestrale di cultura

Dino Bernardini, "Slavia" N°3 2006

mercoledì 25 ottobre 2006

Lettera aperta ad un'amica

di Mark Bernardini
Di più: ad una mia compagna. Lei mi scrive:
Esci di casa la mattina e freddi chi ti capita davanti. Dove cogli hai colto bene. Prova a fare mente locale e ti accorgerai che su dieci persone che conosci nove "sono furbe".
Con la nostra sfiga proverbiale, coglierai quell'uno su dieci. Te la senti di affrontare questo rischio? Io no. Ricordo un manifesto del PCI rivolto ai terroristi. Cito a memoria: "sparano a una divisa, ma dentro c'è un uomo". Spareresti alla prima persona che per caso ti passa davanti, poi si scopre che era lì perché ha perso l'autobus, e l'ha perso per dare un bacio in più al suo bambino, prima che lo venisse a prendere l'odiato/a consorte, da cui ha divorziato da un paio d'anni, stanca delle percosse e/o delle urla, che è venuto/a a riportare il figlio dopo la giornata che gli è stata assegnata da un tribunale fatto anch'esso di uomini e donne, ciascuno con la sua misera storia personale. Ed era lì perché fa il doppio lavoro e si alza alle cinque, con i quali paga a malapena l'affitto. Oppure perché il lavoro non l'ha affatto, e alle cinque va a mettersi in fila, al collocamento piuttosto che aspettando un padroncino che sceglie, più o meno come mio nonno bracciante negli anni '20. Si chiama caporalato. Per l'ennesima volta esce, infreddolita ed assonnata, e d'improvviso viene freddata da un altro sfigato come lei, convinto di trovarsi davanti uno dei soliti furbetti italioti. Io non parlo solo per esserci passato in prima persona, 27 anni fa, ovviamente nel ruolo della vittima del terrorismo, non certo dell'artefice. E' che sono stato due volte a Beslan. Non riesco a liberarmi degli sguardi silenziosi delle centinaia di donne in nero, che le lacrime le hanno finite in un giorno settembrino d'inizio scuola. Laddove prima, in ogni cortile, regnava il vociare assordante e fastidioso dei bambini, ora regna il silenzio ed il lutto. Hanno fatto fuori un quarto di generazione del paese. E' che davanti all'hôtel Nacional' c'era anche Daria Bonfietti, senatrice diessina della commissione stragi, per caso passata due minuti prima solo perché aveva deciso di telefonarmi e le ho dato delle indicazioni topografiche. I dieci passanti due minuti dopo, ora sono ricordati da una stele. Pensionate, disoccupati. E' che alla Rižskaja dovevo esserci anch'io, esattamente a quell'ora, visto che ci vado quasi quotidianamente a lezione di canto. Un'ora prima, l'insegnante mi ha telefonato dicendo di stare poco bene. Gli altri, quelli del mercato rionale adiacente, dove i poveracci vendono e comprano le loro scarne masserizie, ora sono ricordati da un deporre ininterrotto da due anni di garofani rossi. 27 anni fa ero stato meno fortunato. Al processo a Rebibbia sei anni dopo, non scorderò per il resto della mia vita gli occhi stracolmi di angoscia di Cristiano Fioravanti. Pensaci. Pensa da che parte sarebbero stati i tuoi conterranei. No, ovviamente non Soru, né Cossiga: Gramsci, Berlinguer.

lunedì 23 ottobre 2006

La Russia, l'eterno cattivo

di Mark Bernardini
Ormai in Occidente la Russia è un tormentone. Breve rassegna stampa.
Repubblica
Il presidente del Parlamento europeo, Josep Borrell, non lo aveva accolto nel più caloroso dei modi, ricordandogli la preoccupazione dell'Unione per il deterioramento dei dritti umani in Russia, poi il minuto di silenzio osservato dai deputati per l'assassinio della giornalista Anna Politkovskaya, e il cenno alle difficoltà sofferte dalle Ong russe. "Facciamo affari con Paesi peggiori del suo - gli aveva poi detto - ma con voi vogliamo unirci e per questo è necessario che condividiate certi valori". Putin, palesemente irritato, si è difeso con l'attacco. Il Cremlino, ha detto - secondo quanto riferito dalle fonti citate da El Pais - non può accettare lezioni di democrazia da Paesi come la Spagna, in cui molti sindaci sono sotto inchiesta per corruzione, o dall'Italia, "dove è nata una parola come 'mafia'". Il premier spagnolo Jose Luis Zapatero, e quello italiano Romano Prodi, secondo le fonti, sono rimasti senza parole, mentre Putin rispondeva anche alle preoccupazioni europee per la situazione in Georgia e Cecenia: pensate a quello che avete combinato in Jugoslavia, ha detto.
Express
Les propos de Poutine ont été rapportés dès lundi dans la presse européenne, notamment par le quotidien espagnol El Pais. En réponse aux critiques qui lui ont été adressées, Poutine a stigmatisé la "corruption des maires espagnols" et déclaré, à l’attention de l’Italien Romano Prodi, "la mafia est un mot qui est née en Italie et non pas en Russie".
Unità
D'Alema: Putin perde prestigio. Sulla Cecenia non tacciamo
Repubblica
D'Alema e Bertinotti a Putin: "Si discuta della Cecenia"
Corsera
D'Alema-Bertinotti, critiche e accuse a Putin Il presidente della Camera sulla gaffe del leader russo: «Parole squalificanti». Il ministro: «Così non giova al suo prestigio»
ANSA
Nessun attacco a Italia e Spagna. Per fonti diplomatiche russe, Putin ha solo detto che 'la parola mafia non e' nata nella Federazione Russa'.
Francamente, io, oltre alla Jugoslavia, avrei ricordato che ultimamente nella Repubblica Ceca i Giovani Comunisti (la FGCI, per intenderci) sono stati messi fuori legge, e che in Lettonia un quinto della popolazione è apolide in quanto di etnia russa. Ma in realtà, nessuno in Italia riferisce che l'ignobile gazzarra premeditata orchestrata contro Putin con l'intento di "rovinargli la cena" (parole non mie), dividendosi giorni prima gli argomenti su cui punzecchiarlo, erano una scusa, ed in realtà della Politkovskaja, della Cecenia e della Georgia non gliene frega un tubo a nessuno. L'oggetto del contendere vero erano le forniture di gas e petrolio russi all'Unione Europea. Insomma, l'intento era di mostrare chi comanda in Europa. Solo che la musica viene orchestrata da Washington: è da quest'estate che Chainey e la Rice scorazzano in lungo e in largo nel vecchio continente con la stessa solfa. Per la Georgia, evidentemente Barroso non ricorda più il concetto di Stato sovrano. La Commissione Europea può pontificare sull'esecuzione delle proprie disposizioni internamente all'UE. Dell'Unione Europea, tuttavia, non fanno parte né la Russia, ma neanche la Georgia. Spetta dunque alla Russia decidere, chi far entrare in Russia e chi no. Ma il problema non sono i rapporti russo-georgiani, bensì della Georgia con l'Abchasia e l'Ossezia del Sud. In Abchasia vivono in tutto 150 mila persone, in Ossezia del Sud - 70 mila, di cui 40 sono profughi, grazie alla ponderata e lungimirante politica georgiana. Viceversa, vale la pena ricordare che l'UE non ha ancora risolto l'annosa questione dei visti con la Federazione Russa: l'argomentazione per cui i russi invaderebbero l'Europa come gli arabi suona un po' ridicola. Per la Cecenia, ai Bertinotti di destra e di sinistra gioverebbe ricordare che la guerra è finita da un pezzo, ed è rimasta solo nelle teste dei nostalgici opinion-makers occidentali. Maggiore risposta non meritano. Per la Politkovskaja, con che diritto si pretende da Putin alcunché? Quando in Italia hanno ammazzato Marco Biagi, qualcuno ha chiesto conto a Berlusconi? E già: "esecriamo, condanniamo"... Sembra quasi che la Russia abbia risposto: "Non ci passa manco per l'anticamera del cervello di cercarne gli assassini". Vediamo di tornare al vero oggetto del contenzioso, altro che "difesa della democrazia", "libertà di parola", "repressione delle ONG", "diritti dell'uomo": la questione vera è la ratifica della Carta energetica, che prevede l'accesso delle compagnie europee al gas ed al petrolio russi senza garantire in cambio qualsivoglia partecipazione della Russia alle tubature europee. I più inaciditi sono, ovviamente, i nuovi membri dell'UE, dai Paesi baltici a quelli dell'Europa orientale. No, non per aver fatto parte dell'URSS e del Comecon: è che a qualcuno è stata chiusa la tubatura, a qualcun altro la tubazione passerà intorno, ad altri ancora la Russia non compra più le acciughe, gli ortaggi, la carne... In brevis. Le maggiori esportazioni russe in Europa riguardano le risorse energetiche: il 57%. La Russia copre il 25% del fabbisogno europeo. Il 44% del gas importato dall'UE viene dalla Russia. Ovvero: in realtà, la Russia dipende dai consumatori europei ben più di quanto questi ultimi dipendano dalla Federazione Russa. Viceversa, il 34% delle esportazioni europee verso la Russia sono automobili e macchinari. Si parla molto di Sachalin-2. Nessuno tiene conto dell'esigenza di preservare l'ecologia di quella regione. Eppure, è noto che ultimamente il Congresso USA ha proibito alla BP di fare alcunché in Alaska, proprio per ragioni ecologiche. La Federazione Russa, per ora, non ha vietato alcunché a chicchessia. Il problema, allora qual è? Eccolo: i partner occidentali vogliono raddoppiare unilateralmente le loro spese dichiarate. Traduzione: siccome gli accordi prevedono che la Russia non percepisca alcun utile finché non verranno coperte tutte le spese, la Federazione Russa, in anni di estrazione petrolifera, finora non ha guadagnato un soldo. Ergo, col raddoppio delle spese, continuerà a non guadagnare nulla per altri dieci anni. Di che spese si tratta? Consulenze legali, personale straniero, missioni all'estero e via discorrendo. Gli accordi prevedono l'impiego del 70% di mano d'opera, materiale e macchinario locali (russi), invece non raggiungono manco il 50%. Tutti dettagli che rimangono nascosti, a copertura di coloro che cambiano vagamente gli argomenti, da economici a politici. Un'ultima ciliegina la cogliamo dal servizio da Mosca del corrispondente RAI Alessandro Cassieri, secondo il quale, parole testuali, "nessun giornale russo ha nemmeno menzionato la polemica tra l'UE e Putin". Ecco, al contrario, un breve elenco. Innanzitutto, il sito ufficiale del Capo dello Stato russo. Pravda.ru, in italiano. Vedomosti, in collaborazione con Wall Street Journal e Financial Times. Izvestija. Kommersant. Giusto per citare i più importanti, spero che basti: non ho citato il gazzettino di Tambov, come non ho citato la Padania, mi scuserete. Una domanda s'impone: incompetenza o malafede?

domenica 22 ottobre 2006

Stereotipi

di Mark Bernardini
Molti mi accusano di essere russofilo. Diciamo che per molti, per essere considerati tali, è sufficiente non essere russofobi.
Putin
Tutti ricordano certe battute di Putin sulla circoncisione, sull’affogare i terroristi nel cesso, e via sproloquiando. E devo dire che in buona sostanza sono d’accordo con lui. Solo che io di mestiere non faccio il Presidente, e dunque posso permettermi di fare battute sopra le righe. Lui no. Ieri Putin ha detto un’altra delle sue bischerate. Leggo nei massmedia italiani, a proposito dell’incriminazione del Presidente israeliano Katsav per abusi sessuali, che Putin si sarebbe complimentato: “Katsav sì che è uomo, ha violentato 10 donne”. Trasformato immediatamente in “Putin loda Katsav: ha stuprato”. Adesso vediamo come stanno realmente le cose. Katsav è accusato di avere violentato due donne e di averne molestate svariate altre approfittando della propria carica istituzionale. Se fosse vero, sarebbe disdicevole, per non dire grave, gravissimo. Io però faccio parte ancora di quella razza in via di estinzione per i quali ciascuno è innocente finché non ne sia stata dimostrata la colpa. Tra poco ci proteggerà il WWF. Altrimenti, dico che Berlusconi tocca il culo alle vecchiette e ruba i portafogli, e dirlo dovrebbe essere sufficiente per metterlo in galera. Oddio, per quanto, l’ultima accusa… Ho dovuto documentarmi, per parlare con cognizione di causa, spulciare i vari giornali russi ed italiani disponibili in internet, sacrificare del tempo che avrei potuto dedicare al lavoro e alla famiglia. Ho l’impressione che spesso – troppo spesso – così non facciano chi della penna ha fatto un mestiere. E’ qui la differenza tra un giornalista ed un pennivendolo. Per quanto riguarda Katsav, solo sul Corriere della Sera, con cui di solito non sono certo tenero, ho trovato notizie e riflessioni degne di tale nome. Il pensiero corre istintivamente a Monica Lewinsky: violentata anche lei? Per quanto però riguarda Putin, ho trovato la solita fuffa anche qui. Proviamo a spiegarla così. Un vostro conoscente viene accusato di avere rubato, che so io, lo stemma in marmo dal portone della Banca d’Italia. Il vostro conoscente ha anche perso l’uso delle gambe in un incidente. Interrogati in merito, rispondete: “Complimenti! Se è per questo, è stato anche l’esecutore materiale della strage di via Fani, nel 1978”. La battuta sarebbe decisamente infelice. Ma il giorno dopo, tutti i pennivendoli farebbero a gara (ovviamente, se voi foste degni di nota) a dire che voi siete tra i pochi brigatisti rossi ancora in libertà.
Tornatore
Saltiamo di palo in frasca. Anche Tornatore, che passa per essere non dico di sinistra, ma almeno progressista, sta preparando un film sui novecento giorni dell’assedio di Leningrado. Ha deciso di farlo, parole sue, perché Stalin ha fatto di tutto, riuscendovi per non parlarne mai. Infatti, dice, tutti confondono l’assedio di Leningrado con la battaglia di Stalingrado. Verissimo. Solo, ha dimenticato di aggiungere: in Occidente ed in particolare in Italia. Stalin, dunque, c’entra poco e niente. Ma è uno stereotipo ormai affermato, e spero (vanamente) nessuno mi accusi con ciò di essere uno stalinista. In Russia, e ancor prima in Unione Sovietica, l’assedio di Leningrado, con la settima sinfonia di Šostakovič, eseguita il 29 marzo 1942 con i pochi orchestranti rimasti in vita e trasmessa su tutto il territorio nazionale, fino allo stretto di Bering, era e resta uno dei momenti più nobili di coesione popolare. Chiunque abbia visitato questo Paese, italiani compresi, ha potuto rendersene conto.
Stereotipi
Perché ho voluto chiamare in questo modo queste mie brevi riflessioni? La “cultura” (le virgolette sono d’obbligo) statunitense, come un cancro, ha pervaso la parte occidentale del vecchio continente. Così, gli italiani sono tutti bassi, di carnagione olivastra, bruni, con la barba che gli cresce fino agli zigomi, mangiano esclusivamente pizza e pastasciutta, suonano il mandolino e cantano “O sole mio”. I russi sono tutti perennemente ubriachi di vodka, d’estate ci sono almeno venti gradi sotto zero, per le strade di Mosca girano indisturbati gli orsi polari, ogni nemico politico finisce in mano al KGB (che, per inciso, non esiste da quindici anni, come in Italia non esiste né l’OVRA, né il SIFAR) e poi nei gulag siberiani, ogni altro nemico personale finisce ammazzato per strada. Stereotipi, appunto: pressappochismo, superficialità.