sabato 30 dicembre 2006

Democranonna

di Mark Bernardini

Sull'assassinio statalizzato di Hussein, riporto un articolo dal sito Luogo comune, poiché stiamo parlando di uno dei principi filosofici, teologici, etici, morali che stanno alla base, per esempio, dell'Unione Europea. Di che democrazia vanno cianciando gli americani? Sì, lo so, il tribunale ed il boia erano iracheni. Ma gli italiani, gli inglesi e gli americani non hanno detto di avere ricostruito la democrazia in Iraq, dalle canne dei loro fucili? E allora, questa democrazia prevede la pena di morte? Una contraddizione in termini? E questo discorso ci porta ancora più lontano: può chiamarsi democratico uno Stato che preveda ed applichi la pena di morte? No, non mi riferisco all'Iraq: mi riferisco agli Stati Uniti d'America.

di Massimo Mazzucco

C'è qualcosa di sconcertante, di contraddittorio e di macabro insieme, nella recente "tradizione" - inaugurata se non sbaglio dall'attuale sindaco di Roma - di accendere le luci del Colosseo ogni volta che viene sospesa una esecuzione capitale nel mondo, e che si celebra quindi, almeno in teoria, una "vittoria" della lotta a questa feroce forma di falsa giustizia.

L'aspetto macabro sta nella natura stessa dell'edificio, fra le cui mura sono morti in maniera indicibile centinaia di esseri umani, fatti a pezzi da belve affamate o mutilatisi a vicenda finchè non avessero perso l'ultima goccia di sangue, per il puro divertimento di altri esseri umani. Sarebbe come illuminare a giorno Auschwitz per applaudire ogni importante atto di tolleranza razziale verso qualunque minoranza etnico-religiosa nel mondo.

L'aspetto contraddittorio sta nel non essersi accorti che proprio oggi è stata confermata la sentenza di morte a un cittadino iracheno, tale Hussein Saddam, emessa da un tribunale che ha ricevuto la legalità (leggi: è stato messo su) proprio dalle forze alleate che hanno invaso l'Iraq, di cui abbiamo fatto parte fin dal primo giorno.

Dov'era Veltroni, quando la democrazia che noi avremmo importato in Iraq si manifestava con un processo, da noi stessi legalizzato, in cui si chiedeva apertamente la pena di morte per l'imputato?

Ma il vero aspetto sconcertante - e quello che conta davvero - è battersi per la abolizione della pena di morte, quando si è taciuto per - e quindi si è avallato - la messa a morte di oltre mezzo milione di concittadini di quello stesso imputato.

C'è davvero una grossa differenza, infatti, fra "condannare a morte" tramite un tribunale, e farlo tramite una invasione armata che sappiamo bene seminerà morte e distruzione fra i civili in maniera tutt'altro che insignificante?

Dopo Dresda, dopo il bombardamento incendiario di Tokio, dopo My-Lai, o dopo il vile tiro al piccione sulle stesse colonne irachene in ritirata, nel '92 - tanto per non parlare di Nagasaki e Hiroshima - c'è davvero qualcuno che vuole fingere di non sapere quale sia la mentalità di guerra dei militari americani? C'è qualcuno che vuole fingere per caso di non conoscere la Dottrina Powell, che indica a chiare lettere la necessità di colpire anche la popolazione civile, senza andare troppo per il sottile, in modo di demoralizzare al più presto l'intera nazione invasa?

E allora? Dove sta la coerenza di Veltroni, e di tutti i suoi colleghi della "sinistra", che hanno palesemente avallato, con il loro silenzio, la nostra alleanza con le truppe americane sulla via del genocidio? Che fine ha fatto - se mai ha avuto un significato - il termine "opposizione"? Basta davvero non essere al governo, per potersi lavare le mani per tutto quello che decide la maggioranza?

Di recente ho addirittura sentito Michele Santoro, nella puntata che ha dedicato ai "guerrieri della libertà" di Berlusconi, cercare di addossare alla destra - nella persona di Bondi, presente in sala - una presunta "colpa" per una alleanza "fallimentare" con gli americani, che ha portato il disastro che ha portato in Iraq e Afghanistan.

Dov'era Santoro quando il nostro governo, guidato da Berlusconi, deliberava la nostra partecipazione a quelle guerre? Incatenato ai cancelli di Montecitorio, a fare lo sciopero della fame, contro la chiara "condanna a morte" di qualche centinaio di migliaia di civili innocenti, o dal suo sarto personale a rifarsi la giacca finto-ruvido di preziosissimo cachemire?

Oppure ci si vuole ancora raccontare che siamo andati in Iraq in missione di pace? C'è ancora qualcuno che vuole cercare di nascondersi dietro a quel sottilissimo dito? Benissimo, fingiamo allora di crederci per un istante, e domandiamoci: pace o guerra che fosse, noi eravamo dal lato di Bush, giusto? Lui stesso ha detto, dopotutto, che "o si è con noi, o si contro di noi". E siccome per venire via abbiamo dovuto chiedergli il permesso, e quando lo abbiamo fatto si è comunque arrabbiato, vuole dire che a qualcosa gli servivamo, giusto? Quindi, al di là delle parole, resta il fatto che noi eravamo in missione INSIEME a coloro che hanno portato la morte ad almeno seicentocinquantamila civili nel solo Iraq - più di quanti italiani siano morti in tutta la seconda guerra mondiale - e quindi in qualche misura, anche se indirettamente, abbiamo contribuito a quella carneficina. Si chiama complicità, e anche chi guida "soltanto" l'automobile, quando c'è una rapina, finisce in galera insieme a tutti gli altri.

O abbiamo per caso cercato di fermarli, gli americani? Era forse quello il nostro scopo umanitario in Iraq?

No? E allora vada per favore a spiegarlo ai figli di quei cadaveri, signor Veltroni, che quella non era una "condanna a morte", invece di girare un interruttore ogni tanto, per farsi bello davanti ai suoi amici di salotto, quando comunque la bolletta la paga qualcun altro.

martedì 12 dicembre 2006

Come si costruisce una bufala giornalistica

Abramovič terrorizzato dall'idea di venire avvelenato

PravdaRoman Abramovič ha paura di diventare l'ennesima vittima degli "avvelenatori russi". Come riportato in questi giorni dal tabloid inglese "The Sunday People", il patron del Chelsea non solo rifiuta di mangiare qualsiasi tipo di cibo se non quello che gli viene preparato dal suo cuoco di fiducia, ma ha anche bloccato tutte le forniture di prodotti alimentari, sushi compresi, indirizzate al consiglio direttivo del Chelsea allo stadio Stamford Bridge.

Come riferito al "The Sunday People" da una fonte anonima vicina ai più diretti collaboratori del magnate russo, tutto ciò "è l'unico modo per garantire che il cibo di cui si nutre non rappresenti una minaccia per Abramovič, i cui timori sul fatto che egli possa diventare l'ennesima vittima di un avvelenamento sono più che sufficenti". Nell'articolo si legge che Abramovič negli ultimi tempi prende con se il suo cuoco di fiducia in occasione di ogni trasferta e che "si rifiuta persino di mangiare i panini preparati nella mensa aziendale". L'autore dell'articolo che tali eccezionali misure di sicurezza sono legate al fatto che Abramovič di nemici nella sola Russia ne ha più che a sufficenza.

Nel frattempo una smentita ufficiale alla notizia è giunta dal portavoce dell'oligarca, il quale, in un'intervista rilasciata all'emittente radiofonica moscovita "Echo Moskvy", l'ha definita senza troppi peli sulla lingua "l'ennesima stronzata pubblicata dal Sunday People".

© 1999-2006. «PRAVDA.Ru». When reproducing our materials in whole or in part, hyperlink to PRAVDA.Ru should be made. The opinions and views of the authors do not always coincide with the point of view of PRAVDA.Ru's editors.

lunedì 11 dicembre 2006

Scampoli di memoria 4

di Dino Bernardini

A Roma, in via Romagna, sulla bianca e nuda facciata di un elegante edificio moderno, c’è una lapide incastonata tra i blocchi di travertino che la ricoprono. C’è scritto:

«Requisita dalla banda fascista del ten. Pietro Koch, LA PENSIONE JACCARINO ubicata in un villino che qui sorgeva, divenne luogo di detenzione e torture per molti patrioti che lottavano per la libertà dal nazifascismo. Molti ne uscirono soltanto per essere avviati al plotone di esecuzione. Per non dimenticare. Roma occupata, Settembre 1943 – Giugno 1944».

Uno di quei patrioti era mio padre, Angelino (Timoteo) Bernardini.

Non dimenticherò mai quel terribile inverno del 1943. Ancora oggi, quando qualche emittente televisiva trasmette «Roma città aperta» di Roberto Rossellini, faccio fatica a resistere davanti allo schermo per tutta la durata del film. Non c’è praticamente episodio che non mi ricordi qualcosa di analogo della storia della nostra famiglia. Per esempio, quando nel film i tedeschi bloccano i due accessi di una strada e requisiscono tutti gli uomini validi che in quel momento, magari per caso, si trovano a passare di lì. Poi i nazisti passano a perquisire tutte le case che si affacciano sulla strada, arrestano tutti gli abitanti maschi e li ammassano nei camion insieme con quelli già arrestati per strada. Il loro destino è la Germania. Per fortuna, si fa per dire, non verranno avviati ai campi di sterminio ma alle fabbriche tedesche, che hanno bisogno di mano d’opera. Ebbene, fu così che mio cugino Pietro, quindicenne, si ritrovò in uno di quei camion. Lungo il viaggio verso il nord, a una ventina di chilometri da Roma, i caccia americani presero a mitragliare l’autocolonna tedesca e nel parapiglia molti di coloro che erano a bordo riuscirono a fuggire. Pietro tornò a casa a piedi, più morto che vivo.

Avevo undici anni quando, una notte di dicembre del 1943, gli aguzzini della banda Koch vennero in casa nostra e portarono via mia madre e mio fratello Ezio, diciassettenne. Mio padre era già stato arrestato per strada. Rimanemmo soli, io e mia sorella Silvana, 15 anni. Per fortuna in quel periodo era ospite in casa nostra la famiglia di una sorella di mia madre, zia Cleofe, sfollata da Genzano.

Nella allora famigerata pensione Jaccarino mio padre, mia madre e mio fratello vennero picchiati e torturati per giorni, ciascuno davanti agli altri. Lo scopo era quello di farli parlare, di costringerli a rivelare i nascondigli della resistenza romana, che in realtà soltanto mio padre conosceva. Dopo qualche giorno, mi pare di ricordare che mio fratello venne trasferito a Regina Cœli (ma non ne sono sicuro, perché per tutti gli anni trascorsi dopo la liberazione di Roma noi tutti, in famiglia, abbiamo sempre evitato di rievocare quei giorni, quasi a volerli rimuovere), mentre mia madre fu trasferita nella prigione femminile delle Mantellate. Mio fratello conservò per il resto della vita una traccia visibile di quei giorni: un dente spezzato da un calcio.

Intanto mio padre continuò ad essere torturato. Quando perdeva i sensi, lo buttavano in cantina, in un ripostiglio dove non era possibile stare distesi. Dopo qualche ora, lo riportavano di sopra e ricominciavano le torture. Finito l’ennesimo interrogatorio, riprese i sensi nel suo bugigattolo ed ebbe paura di non poter resistere ancora a lungo senza rivelare i nomi dei suoi compagni. Scorse in terra un bicchiere di latta, riuscì a spezzarne il bordo e con quello si tagliò le vene dei polsi e degli stinchi. Quando i suoi torturatori scesero di nuovo, lo trovarono in un lago di sangue e privo di sensi. Era in coma. Lo trasportarono all’ospedale e lì la prognosi fu che difficilmente sarebbe sopravvissuto. Venne comunque ricoverato in corsia. Gli uomini della banda Koch se ne andarono e non lasciarono nemmeno un piantone di sorveglianza, date le sue condizioni.

Quando uscì dal coma, scoprì di trovarsi in una normale corsia del Policlinico Umberto I. Era l’ora della visita dei parenti. Chiese a un visitatore del suo vicino di letto la cortesia di venire a casa nostra ed eventualmente di informarci. Ma non era sicuro che ci fosse ancora qualcuno in casa. Ormai in corsia tutti sapevano come quel paziente fosse finito lì. Quella sera stessa venne da noi un giovane che, con qualche imbarazzo e anche con il timore che la polizia lo avesse seguito, ci disse che nell’ospedale c’era qualcuno, forse un nostro parente, che avrebbe voluto vederci.

Il giorno dopo, all’ora della visita, io e mia sorella andammo all’ospedale. Mio padre stava dormendo. Da qualche giorno non veniva più picchiato e torturato, ma il suo corpo era tutto ricoperto di ecchimosi. Nelle orecchie c’era del sangue secco. Non c’era un centimetro della sua pelle che non fosse nero di lividi. Mi sentii male, provai uno strano senso di nausea, ma feci uno sforzo per non farlo capire e mi allontanai dal letto. Andai a una finestra a respirare.

Ancora qualche giorno e, mi pare, mia madre uscì di prigione. Si ricordò che un suo cugino, monsignor Caraffa, insegnava alla Pontificia Università Lateranense, vicino a casa nostra. Molti anni dopo, quando lo conobbi perché si rivolse a me per una sua ricerca bibliografica, seppi che era il prorettore di quella università. Allora mia madre andò a chiedergli se poteva far accogliere mio padre nel complesso della basilica di S. Giovanni in Laterano, che godeva dell’extraterritorialità. Non c’era posto, perché ormai tutti i vari pezzi di Roma che tuttora compongono la Città del Vaticano erano pieni di rifugiati, ebrei, resistenti, cattolici e non. Tuttavia un posto si trovò.

Così, nell’ora della visita, mio padre scese in pigiama nel cortile dell’ospedale e, confuso tra la folla di pazienti e visitatori, uscì dal Policlinico e salì su un camion che l’attendeva. Durante l’occupazione tedesca tutti gli accessi al territorio vaticano erano vigilati, da un lato dalle guardie vaticane, dall’altro dalle sentinelle tedesche. Ricordo che anche il colonnato del Bernini era chiuso da una sorta di staccionata di legno con un piccolo varco al centro, attraverso il quale la gente entrava e usciva liberamente, ma sotto lo sguardo delle guardie svizzere e dei militari tedeschi. Analoga era la situazione delle basiliche extraterritoriali di San Giovanni, San Paolo e Santa Maria Maggiore. Sul retro della basilica di San Giovanni, vicino al Battistero, c’è una cancellata che adesso è sempre aperta, ma che allora lasciava aperto soltanto un varco.

Il camion entrò senza impedimenti in territorio vaticano, come se dovesse fare un trasporto per la chiesa. Mio padre venne sistemato in un piccolo e stretto corridoio dove c’erano due lettini addossati al muro sullo stesso lato. Il suo compagno di corridoio era un ebreo, Sergio Limentani. Tra i letti e la parete opposta c’erano soltanto pochi centimetri, appena sufficienti per passare mettendosi di fianco. Così, durante tutto il giorno i due occupanti stavano in cortile, all’aperto. Per fortuna non ricordo che in quei mesi piovesse. Io andavo tutti i giorni a portare da mangiare a mio padre, passando sotto lo sguardo indifferente delle sentinelle tedesche, che naturalmente sapevano tutto, ma non mi dissero mai nulla.

Mio padre uscì da San Giovanni il 4 giugno 1944, quando i primi carri armati americani entrarono a Roma e si fermarono sul Piazzale Appio, davanti alle mura aureliane e in vista della basilica.

Dopo la fine della guerra mio padre, con due condanne del Tribunale Speciale fascista, ex confinato, eroe della Resistenza, venne eletto segretario della sezione PCI del quartiere Latino-Metronio. Aveva conosciuto Gramsci ed era stato «allievo» di Terracini: al confino aveva frequentato i corsi di storia, filosofia, francese, matematica e italiano che gli intellettuali confinati tenevano per i loro compagni che non avevano studiato, come mio padre. L’Unione Sovietica era sempre stata il suo mito, il faro che gli aveva dato luce e forza per tirare avanti negli anni bui del fascismo. Così, nel 1959 (o 1958?) approfittò della mia presenza a Mosca per visitare finalmente la «patria del socialismo». Era estate, l’università Lomonosov era semivuota, le lezioni e gli esami erano finiti. Mi procurai una brandina supplementare e per una decina di giorni mio padre visse con me nella mia stanzetta (Zona G, quinto piano, stanza 503). La mattina io mi alzavo tardi, ma lui no, scendeva nel giardino della nostra zona G e con un coltellino raccoglieva la «cicorietta» (così la chiamava) che cresceva sui prati. Si meravigliava che nessuno facesse altrettanto, che quella buona insalata si sprecasse. Poi tornava in camera nostra, la lavava e la metteva da parte per la sera. Nel frattempo io mi ero lavato e vestito. A quel punto, sempre in compagnia di almeno altri due studenti italiani, tra i quali quasi sempre c’era il mio amico Gianni Parisi, si andava in centro a pranzare al ristorante georgiano Aragvi, dove immancabilmente ordinavamo il famoso pollo kabakà, che era poi il pollo alla diavola. La libagione era abbondante. Mio padre si faceva un dovere di pagare spesso il conto per tutti. Scendevamo giù per via Gor’kij tutti un po’ brilli, prendevamo l’autobus (la metropolitana non arrivava ancora a quelle che allora si chiamavano le Colline di Lenin) e tornavamo a casa, cioè all’università. La sera cenavamo nella nostra stanza a base di carne in padella con contorno di «cicorietta». Avevamo spesso qualche ospite italiano. Dopo cena venivano sempre altri studenti italiani con i quali organizzavamo tornei di scopone. Chi perdeva faceva il caffè, ma non toccava quasi mai a noi, perché mio padre e io formavamo una coppia imbattibile.

Di quel soggiorno moscovita ricordo una sua osservazione critica su una cosa da niente, alla quale, abituato com’ero alla quotidianità dell’URSS, non avevo mai fatto caso. Faceva caldo e la porta del grattacielo centrale dell’università che si affacciava sulla nostra zona G era tenuta aperta da un grosso sasso che le impediva di chiudersi. Mio padre mi chiese se c’era stato un guasto recente, se si fosse in attesa di una ripa­razione. Gli spiegai che d’estate era sempre così. Per me era normale, perché l’importante era lasciar entrare l’aria nell’ampio salone del piano terra. «Ma come», sbottò mio padre, «in un grattacielo moderno come questo, in una università prestigiosa, per tenere aperta una porta si ricorre a un sasso!». Fu l’unica critica che gli scappò allora. La sua fede nel socialismo gli impediva di fare troppe critiche davanti a noi studenti. Seppi poi da mia madre che in privato aveva espresso forti critiche nei riguardi del cosiddetto «socialismo reale».

Morì di tumore il 19 marzo 1960. Nel trigesimo della sua morte l’Unità pubblicò un lungo necrologio preceduto da questa nota: «Il 19 marzo scorso decedeva a Roma Angelino Bernardini, vecchio e popolare compagno, iscritto al Partito sin dalla fondazione, valoroso combattente della libertà, attivo dirigente comunista nel quartiere San Giovanni. Nel trigesimo della morte, i compagni di Genzano [dove egli era nato] e della sezione di Porta S. Giovanni ricordano commossi Angelino Bernardini». Seguiva il necrologio scritto da Carlo Salinari, amico fraterno, anche lui sopravvissuto alle torture, ma ad opera della Gestapo in via Tasso, che dopo la guerra fu professore alla Sapienza di Roma, diresse il prestigioso mensile di cultura Il Contemporaneo e fu autore di una Storia della Letteratura Italiana. Scriveva tra l’altro Carlo Salinari: «la semplicità e il coraggio erano un’altra caratteristica della personalità di Angelino. Con semplicità e coraggio affrontò, nel periodo fascista, il carcere e il confino, che significarono anche la sua rovina finanziaria. Preso nel 1944 [1943] dalla banda Koch, per non parlare sotto la tortura, fece con semplicità e coraggio una cosa che nessuno di noi seppe fare: si tagliò le vene dei polsi, tentando di suicidarsi [...] Vogliamo ricordarlo non solo perché ci era amico e con lui avevamo combattuto in momenti terribili, ma anche perché, ci sembra, possa servire di esempio a tutti». (l’Unità, 19 aprile 1960, p. 4).

Slavia, rivista trimestrale di cultura

Dino Bernardini, "Slavia" N°4 2006

venerdì 8 dicembre 2006

Gajdar e Scaramella: questione di stile

di Mark Bernardini

Non sono sospettabile di simpatie per Egor Gajdar (che, giova ricordarlo, fu capo del governo con El'cin all'inizio degli anni '90, uno di quei cosiddetti liberal che hanno privatizzato e ridotto sul lastrico il Paese). Tuttavia, non è a Catilina che bisogna dare ciò che è di Cesare.

Non ho letto in alcun organo italiano - o mi è sfuggita? - la dichiarazione che Gajdar ha rilasciato al Financial Times dopo essere stato dimesso dall'ospedale: "Se si è trattato di un tentato omicidio, dietro ci sono ragioni politiche. Fin da subito mi sono rifiutato di pensare che ci sia dietro la complicità della leadership russa. Dopo la morte di Aleksandr Litvinenko il 23 novembre a Londra, la morte di un altro personaggio russo famoso il giorno dopo è l'ultima cosa che vorrebbero le autorità russe. E' più probabile che ci siano dietro degli avversari segreti delle autorità russe, quelli interessati ad un ulteriore peggioramento delle relazioni tra Russia e Occidente".

Non l'ho letta nei massmedia italiani perché essa mal si sposa con le indicazioni più o meno mal-celate che essi sembrano avere ricevuto (e sarebbe interessante precisare da chi).

Di tutt'altra pasta è il nostro Scaramella. Oddio sto male. Sto peggio di Litvinenko. Ma Litvinenko è morto. Morirò anch'io, è un complotto di Prodi e Putin. Ma prima di morire, incastrerò Prodi, agente del KGB. Poi i medici britannici scoprono che Scaramella è sano come un pesce. Era lecito a quel punto attendersi quantomeno un ridimensionamento, se non un'autocritica. Ma Scaramella no: bene, ora mi sento più tranquillo, e non ho mai detto di avere degli elenchi, ho solo detto di avere degli elenchi.

Il berlusconismo, come vedete, ha procurato danni duraturi, se non permanenti, nella mentalità italica. Scaramella appare come un pot pourri di Pulcinella, Arlecchino e Pinocchio. Bugiardo, pagliaccio e piagnone. Ci manca la pizza con la pummarola, il mandolino e la mafia. Ma ve lo immaginate quanto starà godendo il popolino albionico?

venerdì 1 dicembre 2006

Litvinenko 2

Movimento Internazionale per i diritti civili – Solidarietàda MoviSol

27 novembre 2006 – La storia secondo cui il presidente russo Vladimir Putin avrebbe “ordinato” l'assassinio di Aleksandr Litvinenko a Londra è talmente screditata che persino qualche giornale britannico, come il Daily Telegraph, si è cominciato a chiedere se il giornalista non sia stato “sacrificato” proprio per scatenare una campagna contro Putin.

I fatti salienti del caso:

1. I tempi: il caso Litvinenko è esploso subito dopo che Russia e Inghilterra hanno sottoscritto un trattato straordinario che renderà possibile l'estradizione dell'oligarca russo Boris Berezovskij e del leader dei ribelli ceceni Achmed Zakaev. La notizia della morte di Litvinenko è giunta il 23 novembre, nel momento in cui ad Helsinki si teneva il vertice Russia-UE con la partecipazione di Putin. Il caso non poteva ottenere maggiore risonanza.

2. Tutti gli amici di Litvinenko sono sulla busta paga di Berezovskij. Il suo vicino ed amico Zakaev lo ha portato all'ospedale all'apparire dei sintomi dell'avvelenamento. Ambedue vivono in abitazioni che avrebbero ottenuto da Berezovskij. All'ospedale Litvinenko ha ricevuto la visita di Andrej Nekrasov, il produttore cinematografico impegnato in un documentario sulla Russia insieme a David Satter dell'Hudson Institute. Le public relations di Litvinenko sono state svolte da lord Timothy Bell, anch'egli sulla busta paga di Berezovskij. In passato Bell si è occupato delle PR di Margaret Thatcher, quando questa era domiciliata a Downing Street, e di quelle di lord MacAlpine, quando questi ospitò diversi anni fa il capo dei ribelli ceceni.

3. Tutte le dichiarazioni e interviste rilasciate sul letto di morte da Litvinenko, in cui questi ha accusato Putin di averlo fatto avvelenare, sono state rilasciate ad Aleksandr Gol'dfarb, un russo che a New York dirige l'International Foundation for Civil Liberties di Berezovskij. Prima di ciò Gol'dfarb aveva lavorato in una delle tante fondazioni di George Soros.

4. Il ruolo più equivoco in tutta la vicenda è quello di Mario Scaramella, il quale avrebbe incontrato Litvinenko in un ristorante londinese ed avrebbe riferito a Scotland Yard di averlo informato di essere sulla stessa lista della giornalista russa Politkovskaja, recentemente assassinata, assieme naturalmente allo stesso Scaramella e Berezovskij. Una squadra dei servizi russi FSB sarebbe stata messa alle loro calcagna da Putin, ha riferito Scaramella a Scotland Yard. La RepubblicaScaramella ha riferito che le notizie provengono da Evgenij Limarëv, ex funzionario del FSB, che vive tra Parigi e Venezia. Ovviamente Limarëv ha prontamente negato le asserzioni di Scaramella in una intervista a La Repubblica.

5. Scaramella è parte di una struttura privata d'intelligence che vanta collegamenti con il vice presidente USA Dick Cheney. Egli lavora infatti per la Environmental Crime Prevention Program (ECPP) di Washington. Questa, secondo Limarëv, “nasce nel 1997 su accordi personali tra soggetti che, nei rispettivi paesi, hanno appoggi istituzionali in materia di intelligence militare, civile, ambientale”. Limarëv riferisce che Scamarella gli aveva detto che “possono contare sul team di Cheney alla Casa Bianca”. Attraverso l'ECPP Scaramella ha cercato di coinvolgere sia Limarëv che Litvinenko nel fabbricare dei dossier contro i politici contrari alla guerra in Italia, fatti arrivare alla Commissione d'indagine “Mitrochin” del Parlamento. Scaramella è consigliere di Paolo Guzzanti, presidente della Commissione.

6. Fonti del governo e mezzi d'informazione in Russia hanno indicato in Berezovskij il probabile mandante contro Litvinenko. “Se vi chiedete chi ha beneficiato maggiormente da tutto ciò la risposta può essere soltanto Berezovskij”, ha detto una fonte del Cremlino al Sunday Times il 26 novembre. Komsomolskaja Pravda ha scritto: “Questa morte è nell'interesse di coloro che vogliono rovinare i rapporti tra la Russia e l'occidente”.

7. Alla conferenza stampa che ha dato al termine dell'incontro di Helsinki, il presidente Putin ha fatto riferimento per la terza volta all'assassinio di Paul Khlebnikov (il genero del banchiere John Train molto vicino a Berezovskij). Ricordando l'assassinio della Politkovskaja, Putin ha detto: “Dobbiamo anche pensare ad altri assassinii di questo tipo. E' stato assassinato anche un altro giornalista, l'americano Paul Khlebnikov. L'indagine è stata aperta e il caso è stato portato di fronte alla giustizia. Purtroppo gli accusati sono stati liberati dalla giuria. La procura ha riaperto il caso. Ma non dobbiamo dimenticare i crimini politici in altri paesi europei”.

* * *

l'UnitàAdesso «si è superato il limite». A differenza del quotidiano inglese The Sun che definiva «bizzarra» la notizia di un capo del governo italiano «spia della Russia», Prodi non le ha prese come uno scherzo le notizie delle indagini Mitrochin nei suoi confronti. Il Presidente del Consiglio, ieri, ha valutato per ore l´ipotesi di rivolgersi alla magistratura. Alla fine ha rotto gli indugi e ha dato incarico ai suoi legali perché procedano «contro gli autori di dichiarazioni e di atti lesivi» della sua «dignità di cittadino e di rappresentante delle istituzioni in relazione al cosiddetto caso Mitrokhin».

Il premier vuole «chiarezza». E chiede «che si vada fino in fondo» per capire le reali finalità del lavoro svolto dal presidente della Commissione bicamerale d´inchiesta, Paolo Guzzanti. Dal quale, tra l´altro, Prodi si considera diffamato anche per una lettera indirizzata a Bertinotti e Marini con la quale l´ex presidente della Commissione Mitrochin tornava sul sequestro Moro e sul covo Br di via Gradoli. Una querela a firma Prodi, quindi, dopo la pubblicazione sui quotidiani delle telefonate tra Guzzanti e Scaramella che tradivano l´intenzione di trascinare l´allora candidato premier dell´Unione dentro trame targate KGB. A Palazzo Chigi, ieri, quelle notizie non sono state prese sotto gamba. Prima Telekom Serbia, poi l´affare Telecom, quindi lo spionaggio preelettorale di finanzieri incuriositi dalla situazione patrimoniale della famiglia Prodi, Infine il caso Mitrochin - e il tentativo di coinvolgere anche il verde Pecoraro Scanio - che pone domande inquietanti perfino sui fondi di una commissione parlamentare stornati per indagare sul leader dell´opposizione.

«Sono molte le domande che ci poniamo in queste ore - spiega il portavoce di Prodi, Silvio Sircana - Per questo vogliamo costruire una risposta politica, e non solo, molto forte». Poi una frase che rimanda indirettamente alle conversazioni tra Guzzanti e Scaramella che facevano riferimento a un «capo» - che in quel momento (febbraio 2006) si trovava «in Sardegna» e al quale riportare «la notizia» di un Prodi coltivato dal KGB. «Siamo interessati a capire il contesto politico dentro il quale si è verificata una vicenda di questo genere», sottolinea Sircana. Insomma, Prodi «non vuole lasciar correre».

E la maggioranza scende in campo per chiedere che su Mitrochin si faccia chiarezza. «È insieme gravissimo e triste che nella passata legislatura ci sia stato il tentativo di costituire e utilizzare delle commissioni parlamentari di inchiesta con l'obiettivo di infangare i leader dell'opposizione - attacca Dario Franceschini, capogruppo dell´Ulivo a Montecitorio - Crediamo che da un lato la magistratura e dall'altro il Parlamento, devono fare chiarezza fino in fondo perché non resti nessun velo di dubbio su ciò che è accaduto nei passati cinque anni». Per il socialista Roberto Villetti, «l'esperienza delle commissioni Mitrochin e Telekom Serbia appare essere stata molto più improntata alla propaganda politica piuttosto che alla ricerca della verità».

«La vicenda Mitrochin conferma quel che il caso Telekom Serbia aveva fatto emergere - spiega Piero Fassino - è stata perseguita un'azione di denigrazione personale e di destabilizzazione istituzionale con cui si puntava a colpire e delegittimare il centrosinistra e i suoi principali esponenti politici». Per il segretario DS «non sono più tollerabili reticenze e ambiguità» ed «è tempo che si faccia chiarezza e si individuino le responsabilità politiche e personali di chi ha tentato di stravolgere la vita democratica del Paese».

Il verde Bonelli chiede «l'apertura immediata di un'indagine per fare chiarezza». Quello «che ci indigna», aggiunge,«è l'uso politico indecente fatto della commissione Mitrochin teso a screditare l'opposizione e a costruire un disegno destabilizzante del Paese. Paolo Guzzanti, intanto, rinvia «a data da concordare» la prevista audizione presso il Copaco, il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. Il pretesto? La dichiarazione di un componente l'organismo parlamentare, Gianclaudio Bressa, che sarebbe «di tenore sprezzante e irrispettoso nei miei confronti - spiega Guzzanti - nel vano tentativo di farmi apparire come un "convocato" che obbedisce a un ordine».