lunedì 27 novembre 2006

Litvinenko 1

Pravdada: Pravda on line

Siccome i media occidentali ne dicono di tutti i colori, salvo non dirne una vera, vi presento due articoli (il primo tradotto da me) dalla Pravda. Potete anche non credergli, ma almeno potete ascoltare una voce fuori dal coro...

Delitto rituale N°2

24.11.2006 Fonte: Pravda.Ru URL: http://www.pravda.ru/politics/authority/205115-0

Mentre in Occidente sputano bava sul tema famigerato della "mano del Cremlino" nella morte di Litvinenko, tenente colonello dell'FSB (servizio federale di sicurezza, ex KGB, il corrispettivo del SISMI italiano, prima, in ordine decrescente di tempo, SID 1965-1977, SIFAR 1949-1965, SIM 1927-1943, Ufficio I 1900-1927), sfuggito alle indagini, dandone la colpa personalmente al presidente Putin, le edizioni della stampa britannica degna di tale nome delineano un quadro completamente diverso: la questione non è così univoca, come tentano di descriverla gli abitanti evasi della "Mosca sul Tamigi".

Intanto, il decesso di Aleksandr Litvinenko sul letto d'ospedale non fa onore alla medicina britannica, che, da quando questo malato il 1° novembre si è rivolto ad essa, non è riuscita ad individuare né le cause dell'avvelenamento, né l'avvelenamento stesso. La malattia è stata circondata via via da nuovi attributi di cospirazione, a partire dalla protezione armata presso la corsia d'ospedale e fino alle affermazioni di avvelenamento ora semplicemente con tallio, altamente tossico, ora col suo isotopo radioattivo, e finalmente con un composto di vari veleni... Alla fine i medici britannici hanno fatto una dichiarazione che i massmedia russi cosiddetti liberali hanno preferito ignorare, non rientrando nel tema prediletto dell'intelligence di sangue.

Frattanto, lo stato di salute misterioso del grave malato assomigliava sempre più alla sintomatologia di un cancro al quarto, ultimo, stadio. E' diventata chiara anche la causa della repentina caduta dei capelli del paziente. E' risultato che sia stato sottoposto ad un'intensa chemioterapia, per la quale Litvinenko si è sentito ancora peggio. Non occorreva essere dei luminari della medicina per capire un'ovvietà: negli avvelenamenti non si usa la chemioterapia.

Ma ecco una citazione letterale odierna da un autorevole giornale londinese, non scandalistico: "Secondo quanto appreso dai corrispondenti del Guardian, ieri mattina la polizia ha preso in considerazione l'ipotesi dell'autoavvelenamento. Immediatamente prima della morte di Litvinenko Scotland Yard ha dichiarato che non c'è alcuna "indagine su un eventuale attentato alla vita. In ultima analisi, gli altolocati pubblici ufficiali di polizia dubitano che quest'ultimo sia stato veramente vittima di un complotto del Cremlino".

Immediatamente prima vuol dire la sera del 23 novembre. La mattina seguente riscalda l'opinione pubblica con una notizia sensazionale buttata a brutto muso: di lì a poco, ecco che il morto ha dettato lui stesso come stanno le cose, aspettate un attimo che lo rendiamo di dominio pubblico. Pareva che nel frattempo la missiva dal letto di morte venisse "limata". "Lei è riuscito a tapparmi la bocca, ma a caro prezzo. Si è mostrato da barbaro impietoso quale è e quale la ritengono i suoi oppositori. Si può far tacere una persona. Ma l'ondata di protesta si spanderà per tutto il mondo...". Non hanno avuto il coraggio nemmeno di muovere le loro accuse o esprimere i propri sospetti in prima persona: si sono coperti con un morto, da cui nessuno pretenderà più alcunché.

Il Guardian londinese si è preso la briga di verificare da dove sia partita l'ampia campagna, durante la quale più volte si è supposto che Litvinenko sia stato vittima di un attentato del Cremlino. I giornalisti hanno individuato un'unica fonte, semplicemente perché non ce n'erano altre. Il "piazzamento" è stato effettuato da una delle agenzie di pubbliche relazioni di Londra, a capo della quale c'è lord Tim Bell, già consulente per i rapporti col pubblico di lady Thatcher. La medesima agenzia ha diffuso la fotografia di Litvinenko calvo in letto d'ospedale ai più grandi massmedia mondiali. Come è facile intuire, il proprietario unico dell'ufficio pi-erre di lord Bell è, manco a farlo apposta, Boris Berezovskij.

In seguito si è chiarito che era unica anche la versione dell'avvelenamento di Litvinenko con i sali di metalli pesanti. Un certo dipendente del lord ha contattato il professor John Henry, il maggior tossicologo britannico. Proprio quest'ultimo ha espresso giusto una supposizione, ossia che la causa del malanno di Litvinenko potrebbe essere da ricercare nel tallio o nei suoi isotopi. Ma gli organizzatori di questa provocazione sono stati traditi dalla solita fretta e scarsa attenzione per i particolari di Berezovskij. Il fatto è che mister Henry non si è occupato delle cure di Litvinenko, e quando le sue dichiarazioni sono finite nei massmedia non poteva conoscere i risultati delle analisi di laboratorio: non erano ancora pronte. Questo è quanto è stato raccontato sempre al "Guardian" dai medici dell'ospedale. E' lecito supporre che tra gli esculapi ci sia stato un gentlemen's face-to-face meeting. Il professor Henry non è più disponibile per un qualche commento: ieri il luminare ha dichiarato che se ne lava le mani, poiché si è "già scottato una volta".

Insomma, non ci sono ragioni oggettive per parlare di un omicidio implicitamente politico con risonanza indotta, il secondo dopo la tragica fine di Anna Politkovskaja, osservatrice della "Novaja Gazeta". Allora diciamo che è stata la seconda morte di quest'autunno di un ex cittadino russo particolarmente contrario all'ordine costituito della Russia. Eppure, ci sono alcune considerazioni comuni a questi tristi avvenimenti.

Primo: entrambi i tragici personaggi erano vicini a Boris Berezovskij, forse anche troppo.

Secondo: entrambe le vittime accusavano l'entourage del presidente russo in modo aspro, senza compromessi, ma senza alcuna prova, e Berezovskij non poteva non notare che la loro efficacia andava riducendosi. Se Anna, trovandosi in Russia, almeno risultava ancora essere una punta di diamante, il funzionario dei servizi segreti aveva ormai ben poco dell'esperto, dopo sei anni di emigrazione. Non risultando più utili, questi emissari dell'influenza che fu si stavano gradualmente trasformando in fonte di pericolo, sapendo molto delle bravate del loro patron.

Intervenendo a Londra durante uno dei dibattiti sull'assassinio di Anna Politkovskaja, Litvinenko ha raccontato che il presidente russo trasmetteva le sue minacce allla giornalista tramite Irina Chakamada (ex dirigente dell'Unione delle Forze di Destra).

Quando l'ha saputo, la Chakamada si è indignata ed ha dichiarato che un delirio dalla prima all'ultima parola, poiché l'ex candidata alla Presidenza della Federazione Russa non mette piede al Cremlino da tre anni. Ha supposto che la vogliano volutamente far litigare con i "democratici": tipo, è corrotta dal Cremlino. Non ha voluto commentare la morte dell'ex ufficiale dell'FSB:

- Non so cosa combinano a Londra. E' una storia talmente torbida che non ci si può capire nulla.

Terzo: bisogna ricordare le confessioni di Berezovskij rese pubbliche dal conduttore televisivo Vladimir Solov'ëv, nelle quali dichiarava l'utilità di un assassinio "rituale" di un qualche personaggio noto, per dare uno scossone a Mosca, di modo che una folla di centomila persone spazzi via l'odioso regime di Putin... Con la Politkovskaja non è successo. Cilecca?

Ed ora, in simultanea con la prima londinese di James Bond, la prima dello "scandalo dei veleni" nel cuore della democrazia occidentale. Con consegna a domicilio, di modo che questi pigri borghesi possano percepire il tutto a livello epidermico.

Spiace ricordare Confucio con le sue stanze ed i suoi gatti neri, ma i fatti sono fatti. Non esiste un referto medico del defunto Litvinenko che parli di avvelenamento. In vita, non ha proferito parola, oralmente, tutto è interpretato da altri, comprese le dichiarazioni in punto di morte. I suoi interpreti non meritano fiducia, per definizione: basta ricordare l'omicidio di Vlad List'ev, socio di Berezovskij quando ancora era in auge a Mosca, o l'avvelenamento a Kiev di Ivan Rybkin. Viktor Juščenko ha avuto più fortuna, ma i segni del veleno sono rimasti per tutta la vita, come se dei demoni avessero tritato dei piselli sulla sua faccia... Insomma, trovarsi Berezovskij come protettore è una prospettiva piuttosto pericolosa per la propria incolumità.

* * *

Omicidio Litvinenko: la stampa russa assolve Putin

26.11.2006 Source: Pravda.ru URL: http://italia.pravda.ru/russia/3870-0

"Non intendo commentare ora la morte di Aleksander Litvinenko, parlerò la settimana prossima": al telefono con il quotidiano russo 'Komsomolskaja Pravda' il magnate in esilio Boris Berezovskij, amico dell'ex colonnello del Kgb morto avvelenato a Londra, è categorico.

Molti quotidiani moscoviti però suggeriscono che sarebbe lui il più avvantaggiato dalla morte di un collaboratore divenuto peraltro inutile e forse scomodo, mentre il presidente Vladimir Putin, che la stessa vittima ha accusato come mandante dell'omicidio, viene assolto dalla maggioranza dei commentatori.

Fa presa sulle pagine dei giornali russi la dichiarazione fatta ieri dal consigliere presidenziale per gli affari europei Sergej Jastržembskij, secondo il quale "ci sono coincidenze inquietanti fra le morti di persone che criticavano il potere in Russia e gli avvenimenti internazionali ai quali Putin è invitato a partecipare.

L'impressione è che ci si trovi davanti a una campagna bene orchestrata, o a un piano per screditare Mosca e la sua leadership". Jastržembskij ha ricordato l'uccisione il 7 ottobre della giornalista Anna Politkovskaja, proprio il giorno del compleanno del leader del Cremlino e alla vigilia di un suo importante viaggio in Germania; la morte dell'immigrato illegale Tengiz Togonidze, che era fra i deportati della 'guerra fredda' con Tbilisi, mentre il presidente era in partenza per il vertice informale dell'Ue a Lahti, in Findlandia; il drammatico decesso di Litvinenko in coincidenza con un cruciale incontro sull'energia fra Putin e l'Unione europea.

La tesi è sposata in pieno da 'Komsomolskaja Pravda', e ulteriormente elaborata dal giornale del governo 'Rossijskaja Gazeta', che analizza l'eterna domanda del 'cui prodest'. Arrivando alla conclusione che quella morte ruota comunque attorno a Berezovskij, o perché ne è il maggiore beneficiario - avalla le sue critiche alla deriva autoritaria e passatista del Cremlino - o perché alcuni gruppi criminali hanno voluto vendicarsi del tycoon. Per Nikolaj Kovalëv, ex capo dell'FSB (i servizi segreti russi) interpellato da Kommersant, "c'è la calligrafia di Berezovskij" nel delitto: "Sono certo che nessun servizio di intelligence abbia a che vedere con questa vicenda. E' opera di nemici personali del presidente russo, per metterlo sotto scacco".

Il giornale interpella anche altri personaggi di opinione ben diversa: da Andrej Kozyrev, ministro degli esteri all'epoca di Boris El'cin, che chiede a Jastržembskij di "rivelare cosa sa del presunto complotto"; all'attivista Aleksandr Osovcov, del Fronte civile unito, per il quale il mandante è "Putin e nessun altro"; alla deputata liberale Irina Chakamada, che vede "due possibili regie: una che vuole sostenere Putin, una che vuole abbatterlo".

Quest'ultima tesi è fatta propria da un esperto straniero consultato dal quotidiano, l'ex capo del consiglio per lo spionaggio della CIA americana Fritz Hermart: "potrebbe trattarsi di una lotta interna fra vari gruppi del Cremlino, gli uni pronti allo scontro con l'Occidente, gli altri propensi alla mediazione".

L'analista statunitense identifica i 'falchi' nell'entourage di Igor' Sečin, vicecapo dell'amministrazione presidenziale. Vladimir Ryžkov, deputato liberale indipendente, lega l'uccisione di Litvinenko a quella della Politkovskaja, affermando che dietro "c'è la stessa mano".

Evgenij Jašin, ex ministro dell'economia del periodo el'ciniano, liquida la tesi del complotto contro il Cremlino con una secca battuta: "Non c'è alcun bisogno di screditare la leadership russa, lo fa già per conto suo". Infine, c'è una minoranza che parla di servizi deviati: radio "Eco di Mosca" non esclude la possibilità che dietro alla morte dell'ex colonnello del KGB vi siano semplicemente gli antichi colleghi adirati contro il 'traditore', che avrebbero deciso di agire di propria iniziativa.

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venerdì 24 novembre 2006

La Russia vista dall'Occidente

da: Komsomol'skaja Pravda, Dni, Pravda

Komsomol'skaja PravdaMark Aims, redattore capo della rivista "The eXile", pubblicata in Russia in lingua inglese, ha raccontato al quotidiano russo "Komsomol'skaja Pravda" su come la Russia viene vista dagli abitanti dei Paesi occidentali.

DniMark Aims lavora e vive in Russia già da 15 anni: "Potrei tornarmene negli States in qualsiasi momento, ma non voglio farlo. Io sono venuto qui non per denaro o per sesso, a differenza di molti altri, bensì per vivere. E devo ammettere che vivere in Russia è un qualcosa di decisamente interessante", ha raccontato Aims.

PravdaEssendo a conoscenza della cultura e della mentalità di due paesi completamente diversi, Aims si è rivelato essere lo specchio ideale per raffigurare ciò che "loro" pensano di "noi".

Il giornalista americano ha iniziato il suo racconto con una storia che illustra alla perfezione gli stereotipi venutisi a creare nella concezione occidentale della Russia e della sua popolazione. "Ho inventato una lotteria televisiva, - racconta Aims. - Per cui ho deciso di rivolgermi telefonicamente ad un'agenzia di vigilanza americana passandomi per un conoscente del famoso attore David Schwimmer, protagonista della telenovela "Friends". Dopo qualche tempo mi hanno risposto che l'attore era letteralmente terrorizzato dall'idea di venire a Mosca e, in maniera molto seria, mi hanno proposto due guardie del corpo armate, due giubbotti antiproiettile nonché, cosa che mi ha letteralmente sconvolto, due cani da difesa con i quali io e Schwimmer avremmo dovuto andare in giro per Mosca".

Tanto più che su ammissione dello stesso giornalista "il numero di omicidi a Mosca è notevolmente inferiore a quello medio di qualsiasi città americana. Qui da voi, se una ragazza alle tre di notte fa l'autostop, è un qualcosa di assolutamente normale, mentre per quanto riguarda l'America la sola idea mi fa venire i brividi. Là nessuno arriva a tanto! A Mosca si può andare tranquillamente in giro la sera. Sì, c'è il rischio di imbattersi in qualche delinquente, ma se alla stessa ora andrete in giro per una qualsiasi città americana, il rischio che vi rapinino sarà decisamente maggiore".

Tuttavia tale verità sulla Russia agli americani non interessa affatto: "Là non vogliono modificare lo stereotipo venutosi a creare", dice Mark Aims tentando di spiegare la mentalità del giornalismo occidentale: "ad occidente la gente è convinta che i mass-media locali siano assolutamente trasparenti ed obiettivi, ma io a volte penso che se ad esempio gli americani dovessero venir privati della convinzione di essere a conoscenza della verità, l'America crollerebbe in un istante, dal momento che il livello di convinzione dell'americano medio non è per niente inferiore a quello del fanatismo di un qualsiasi terrorista musulmano".

Inoltre il giornalista americano una volta si è ripromesso "di non potere scrivere nei mass-media occidentali tutta la verità sulla Cecenia, ad esempio sul fatto che là la vita sta riprendendo il suo normale corso. Tale affermazione distruggerebbe una volta per sempre la mia immagine e mi creerebbe grossi problemi".

"E non si tratta per niente di una questione di censura - dice Aims. - Si tratta bensì di cose assai peggiori. Iniziamo col fatto che i giornalisti occidentali che vengono inviati qui sono lungi dall'essere i più accreditati... Il loro compito in sostanza è uno solo: vendere materiale inedito sulla Russia al redattore, il quale da parte sua già da tempo ha assimilato "la verità" secondo la quale la Russia è un paese totalitario e che Putin è un tiranno. E per far giungere da Mosca materiale di carattere positivo, come minimo andrà a consigliarsi con i suoi capi... Allora ci si chiede: perché complicarsi così la vita? Secondo me farebbe assai meglio a scrivere qualche porcheria sulla Russia che ad occidente farebbe furore. E in tutto questo le censura non c'entra. Il redattore non teme Bush poiché lo stato non lo mette sotto pressione ed in strada la polizia non gli chiede i documenti".

E cambiare radicalmente tale situazione rappresenta un compito assai difficile, se non impossibile: "Anche se a Mosca darete una bustarella ai giornalisti occidentali, questi somari non capiranno niente lo stesso, - ride divertito Mark Aims. Bisogna capire fondalmente una cosa: ad occidente sono tutti indignati per il fatto che la Russia non è diventata l'Arizona di turno, come ad esempio hanno fatto la Polonia e la Repubblica Ceca. I polacchi ed i cechi ci ubbidiscono ciecamente, loro amano l'America... Ma i russi! I russi con una mentalità ed una cultura così se ne fregano dell'America e l'America s'incazza dal momento che la cultura americana è basata proprio sul fatto che altre culture ne riconoscano la supremazia".

Aims sottolinea il fatto che "la Russia si preoccupa molto di ciò che possa pensare di lei l'Occidente e recepisce le critiche in maniera decisamente dolorosa, mentre l'America di tutto questo se ne frega altamente. Negli States l'opinione critica sul paese da parte di uno straniero non viene nemmeno valutata, dal momento che non interessa a nessuno. Al contrario, lo fisseranno come se fosse un marziano. Forse gli americani dimostrano qualche interesse se li elogiate?".

Il consiglio principale che Mark Aims dà alla Russia è quello di preoccuparsi il meno possibile di piacere all'Occidente. "Tanto è perfettamente inutile, - dice il giornalista. - Ad Occidente in ogni caso penseranno ancora a lungo che in Russia al potere ci sono i comunisti, la gente fa la fila davanti ai negozi e per le strade girano gli orsi. Ad essere sinceri fino in fondo, agli europei e soprattutto agli americani, non frega assolutamente niente di quello che succede in Cecenia e della morte della Politkovskaja.

Fonte: http://www.dni.ru/

22.11.2006 Source: Pravda.ru URL: http://italia.pravda.ru/russia/3847-0

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lunedì 20 novembre 2006

Anna Politkovskaja 3

di Mark Bernardini

La Pravda, per sfatare tanti ennesimi luoghi comuni occidentali, italiani e sinistrorsi, non è (non è più da quindici anni) l'organo ufficiale del PCUS. L'organo ufficiale del PCFRAnzi: di Pravde (nel senso di Verità) ce ne sono almeno due. Una è l'organo ufficiale del Partito Comunista della Federazione Russa (PCFR, quello di Zjuganov, per intenderci). L'altro, è un giornale di sinistra non legato ad alcun Partito. In entrambi lavorano molti (ma non solo) redattori della Pravda sovietica. Per dirla con parole loro: [...] più del novanta per cento dei giornalisti che sino al momento del tentato golpe dell'agosto 1991 lavoravano per la "Pravda", ha lasciato la redazione. Hanno fondato la loro "Pravda" la quale, sotto pressione delle istituzioni, è stata costretta piuttosto in fretta a chiudere i battenti. I collaboratori della "Pravda" sono stati così costretti a passare al mondo virtuale: nel gennaio 1999 ha iniziato la propria attività il primo giornale-Internet in Russia, la "PRAVDA On-line". Pravda on-lineRiteniamo che oggigiorno abbiano lo stesso diritto morale di proseguire la storia della testata chiusa su ordine del presidente della Russia nell'agosto del 1991, sia il giornale nuovamente registrato, che la "PRAVDA On-line". Tanto più che lo staff di ambe le edizioni è composto da un eguale numero di giornalisti che lavoravano per la "Pravda" prima che essa venne chiusa. Nonostante il fatto che i giornalisti di ambe le testate continuino a mantenere contatti reciproci, la concezione relativa al modo di informare in merito agli avvenimenti sia livello nazionale che mondiale è totalmente diversa. Il giornale "Pravda" li analizza da un punto di vista di interessi di partito, mentre "PRAVDA On-line" parte da un approccio “pro-russo” nella formazione della propria politica. Diciamoci la verità, in questo modo il mondo diventa meno monotono.

Con questa lunga ma doverosa premessa, vi riporto quanto pubblicato dalla versione italiana della Pravda il 15 novembre:

Sono passati esattamente 41 giorni dall'assassinio della giornalista Anna Politkovskaja e i suoi assassini sono ancora in libertà. Ma per quanto increscioso possa sembrare di primo acchitto, va detto che il ritratto postumo della giornalista uccisa disegnato a tinte dorate pare sia assai lontano dalla verità dei fatti, cosa confermata dalla misteriose circostanze che hanno permesso alla giornalista uccisa di ottenere a suo tempo la cittadinanza americana.

Come è comunemente noto, secondo la legislazione americana attualmente in vigore, qualsiasi bambino venuto alla luce sul territorio degli Stati Uniti, anche se in una famiglia di immigrati illegali, ottiene automaticamente la cittadinanza americana. Ma Anna Mazela (vero cognome di nascita della Politkovskaja) nacque in una famiglia di diplomatici sovietici che all'epoca lavorava a New York, e tali diritti non sono previsti nei confronti di questa categoria di bambini nati sul territorio americano.

Per questo motivo, il fatto di essere venuta al mondo sul territorio degli Stati Uniti non dava alla Politkovskaja nessun diritto di ottenere la cittadinanza americana, cosa che però in qualche modo ottenne ugualmente nel 1990, quando non era altro che una sconosciuta giornalista di una rivista settoriale a bassa tiratura chiamata "Trasporto aereo".

In che modo e in quali circostanze sia riuscita ad ottenere la cittadinanza, quali servizi possa aver reso al governo degli Stati Uniti e quali obblighi abbia preso nei confronti della propria persona, tutto questo resta ancora un mistero, sebbene, però, alcuni di essi possono essere stabiliti basandosi su informazioni ottenute da fonti prettamente americane.

Prendiamo ad esempio il giuramento di fedeltà nei confronti degli Stati Uniti che ogni persona che acquista la cittadinanza americana è tenuto a prestare. Ecco lo storico testo scritto ancor dai Padri fondatori degli Stati Uniti d'America, l'originale del quale viene tuttora conservato nella biblioteca del Congresso: "Giuro solennemente, di mia spontanea volontà e senza alcuna esitazione di rifiutare la fedeltà nei confronti di qualsiasi altro stato. Da questo giorno la mia dedizione e la mia fedeltà sono indirizzate nei confronti degli Stati Uniti d'America. Mi impegno a sostenere, rispettare ed essere fedele agli Stati Uniti e alla loro Costituzione e legislazione. Mi impegno altresì a forma di legge a difendere la Costituzione e la legislazione degli Stati Uniti contro tutti i nemici, interni ed esterni, sia in servizio civile che militare. Lo giuro solennemente nel nome di Dio".

In questo modo, il giuramento di fedeltà nei confronti degli Stati Uniti comporta il rifiuto di fedeltà nei confronti di un secondo Paese, nel caso specifico della Politkovskaja, nei confronti della Russia, tanto più che negli Stati Uniti la cerimonia di giuramento per ottenere la cittadinanza avviene effettivamente in maniera assai solenne e viene considerata un momento serissimo nella vita di tutti coloro che prendono tale decisione.

Ma a proposito del modo in cui Anna Politkovskaja abbia ripudiato sia la Russia che la cittadinanza russa, la storia al momento tace. Tuttavia è lecito pensare che l'abbia fatto in maniera pienamente convincente, altrimenti la cittadinanza americana non l'avrebbe ottenuta. E a questo proposito è indispensabile sottolineare il fatto che la legislazione americana non si limita solo a non prevedere la doppia cittadinanza ma addirittura la proibisce.

Che poi tali leggi non vengano praticamente applicate e che il secondo passaporto venga considerato semplicemente un ammasso di foglietti inutili è un altro discorso. In ogni caso sarà meglio comportarsi in maniera assai accorta dal momento che si deve essere fedeli all'America e solamente all'America.

Nel caso in cui le autorità americane sospettino o di infedeltà o del fatto che un qualsiasi neocittadino abbia mentito nel momento in cui prestava fedeltà alla sua nuova patria, questo può costare al neocittadino in questione la privazione della cittadinanza americana. Per cui i "nuovi americani" faranno bene a comportarsi in maniera assai accorta, dimostrando dedizione e fedeltà nei confronti del tipo di vita, della Costituzione e della bandiera a stella e strisce americane.

Sulla base di quanto detto finora, l'intensa attività di Anna Politkovskaja sul territorio della Federazione Russa assume una sfumatura un attimo inattesa. Si tratta quindi di una cittadina americana che a suo tempo ha rinnegato di sua spontanea volontà la cittadinanza russa e che lavorava in Russia grazie al sostentamento di stati stranieri in una regione infiammata dal separatismo. E non è da escludere il fatto che lo facesse negli interessi degli Stati Uniti, trovandosi, come recita il giuramento di fedeltà, in "servizio civile".

Di conseguenza sorgono spontanee alcune domande per niente prive di logica da porre rispettivamente al ministero degli Esteri, al ministero della Difesa nonché ai Servizi di sicurezza della Federazione Russa: in che modo questa giornalista straniera si spostava liberamente lungo il territorio della Federazione Russa sino alla zona teatro dei combattimenti incontrandosi per giunta con i rappresentanti delle forze separatiste? Ed in che modo viene regolata per legge la presenza di cittadini stranieri nelle zone definite a stato di emergenza? Perché gli americani in Iraq sin dall'inizio delle ostilita' belliche hanno rigidamente limitato la presenza di giornalisti fra le truppe, mentre in Cecenia si poteva recare chiunque lo desiderasse? Ed infine l'ultima domanda, probabilmente la più importante: qualche funzionario del ministero degli Esteri russo ha mai per caso letto il testo del giuramento che dà diritto ad ottenere la cittadinanza americana? E se per caso l'ha letto non ha forse capito che tutti i cittadini russi in possesso della doppia cittadinanza americana, a loro tempo hanno ufficialmente ripudiato quella russa?

A questo di mio posso aggiungere solo un'esperienza personale. Sono cittadino italiano dalla nascita, ovvero dal 1962. Sono stato cittadino sovietico sempre dal 1962 al 1978: a sedici anni, quando in URSS veniva consegnato ufficialmente il passaporto, io ero a fare cortei con la FGCI a Roma. Ho riacquisito la cittadinanza, ormai russa, solo nel 1996, trentaquattrenne, sicuro di essere ormai militesente (farlo due volte, no grazie).

La legge italiana manco menziona l'eventualità della doppia cittadinanza. In uno Stato di diritto, quale dovrebbe essere l'Italia, ciò che non è espressamente proibito è automaticamente e tacitamente lecito. La Russia, invece, non si è limitata ad una legge qualsiasi, lo ha affermato nell'art. 62 della Costituzione: [...] Il cittadino della Federazione Russa può essere cittadino di altro Stato [...].

Nessuno, a parte la naja, in Italia o in Russia, si è mai sognato di pretendere da me ipocriti giuramenti di fedeltà, né tantomeno di ripudiare Paesi terzi. Perché, giova ricordarlo, la democrazia non è nata in un saloon tra un whisky ed una sfida all'OK Corral, né sui galeoni che trasportavano pezzi di formidabili delinquenti con cui espropriare nel sangue i legittimi abitanti di un continente cosiddetto nuovo.

giovedì 9 novembre 2006

Anna Politkovskaja 2

di Mark Bernardini
Come è noto, sono stato ai funerali della Politkovskaja.
Cosa ne pensi personalmente, l'ho già scritto tempo addietro.
Ho saputo che in Italia c'è chi, come sempre "a sinistra", propone di intitolare alla Politkovskaja tutte le vie d'Italia dove siano presenti Ambasciata, Consolati e Rappresentanze Commerciali della Federazione Russa. Nella pratica del "re-intitolamento" di vie preesistenti finora hanno eccelso Stalin, Mussolini e El'cin. Se non si ritene imbarazzante siffatta congrega, ci si accomodi. Voglio ora riportare alcune voci "fuori dal coro", giuntemi in queste settimane.
Anna Politkovskaja, pur esaltata come martire della verità a destra e sinistra, non era che una spia al servizio dell'imperialismo. Intima di Eltsin e della sua banda di criminali mafiosi, non ha mai denunciato il minimo malaffare di quei distruttori dell'URSS e della Russia, nè dell'ubriacone venduto a Washington, nè dei suoi oligarchi che si sono mangiati i russi vivi e si sono venduti perfino i cimiteri. Regolare collaboratrice del circuito radio "Liberty" (ricordate Radio B-92 e Otpor???) gestito dalla Cia fin dal 1948 per destabilizzare i paesi socialisti, è stata il megafono dei terroristi ceceni finanziati e armati dalla Cia e dal Mossad per sottrarre il petrolio caucasico alle rotte e al controllo dei russi. Pessima scrittrice, non è accettabile che una sinistra non corrotta come quella di Bertinotti o di parte del manifesto si allinei passiva e acritica agli sterotipi falsi della propaganda imperialista gestita dai gangster di Washington, Tel Aviv e UE. La Politkovskaja era la Fallaci o il Magdi Allam russo. Niente di più. Una vera schifezza.
Fulvio Grimaldi
A me personalmente, Grimaldi non è mai piaciuto: inutilmente maleducato e violento verbalmente, ottiene lo scopo opposto a quello che si prefigge. Tuttavia, "deflorato" delle intemperie lessicali, ha ragione da vendere: i morti non hanno sempre ragione per il solo fatto di essere morti. E radio Svoboda (Liberty), che in URSS era ascoltata da tutti sulle onde corte, di nascosto in cucina, analogamente alla radio "Voice of America", era finanziata apertamente ed ufficialmente dal Congresso statunitense e trasmetteva da Berlino Ovest, per poi spostarsi a Praga dagli anni '90 e fino ai nostri giorni.
A proposito dell’assassinio di Politkovskaja di Movisol.org L’assassinio della giornalista russa dissidente Anna Politkobvskaya va inquadrato nel contesto della serie di assassinii avvenuti nelle ultime settimane, evidentemente miranti a ledere la stabilità politica del presidente Vladimir Putin. Tutti gli assassini in questione sono stati condotti da “professionisti”. E’ noto che il crimine organizzato russo è collegato con i vari oligarchi latitanti dalla giustizia russa. Il più famoso degli oligarchi è Boris Berezovsky che ha ottenuto “asilo politico” in Inghilterra. * Il 14 settembre è stato assassinato Andrei Kozlov, vice presidente della banca centrale russa. Deciso sostenitore della politica del governo, Kozlov era impegnato contro il riciclaggio del denaro ed aveva ordinato il ritiro di alcune licenze bancarie. * Il 30 settembre è stato assassinato Enver Zighashin, ingegnere capo della TKN BP, la sussidiaria russa della British Petroleum. Si tratta di un assassinio che certamente non ha risolto gli attriti tra Russia e imprese petrolifere occidentali ma li ha piuttosto aggravati. * Il 7 ottobre è stata assassinata Anna Politkovskaya. * Il 10 ottobre è stato assassinato Alexander Plokhin, direttore della branca moscovita della Vneshtorgbank, banca di stato che riveste un ruolo importante nei rapporti economici che la Russia intrattiene con Africa, Asia, America Latina ed Europa, in particolare quelli promossi dallo stesso Putin. La Vneshtorgbank ha recentemente acquistato il 5% del gigante aerospaziale europeo EADS, proprietario di Airbus. L’acquisto ha suscitato una notevole controversia, sia a motivo delle implicazioni economiche che quelle di sicurezza. * Il 16 ottobre è stato assassinato Anatoly Voronin, esperto immobiliare della Itar-Tass. Alexander Lebedev che è comproprietario, con Michail Gorbaciov di Novaya Gazeta, il giornale su cui scriveva la Politkovskaya, ha pubblicato un commento intitolato: “Chiunque abbia sparato alla Politkovskaya mirava ai suoi avversari” — in altre parole mirava al regime di Putin. La Politkovskaya era così nota come oppositrice del regime, scrive Lebedev che è fin troppo facile sospettare coloro che lei criticava. “Ma non dobbiamo considerare attentamente la possibilità che chi ha ordinato l’assassinio voleva che noi facessimo proprio questo? Forse un’ondata di rabbia contro coloro che la giornalista criticava è proprio l’effetto su cui contavano i killer? Così sparando alla giornalista miravano ai suoi avversari”. Nel corso della sua visita in Germania, tra il 10 e l’11 ottobre, il presidente Putin ha fatto due volte riferimento al grave episodio. A Dresda il presidente ha detto, secondo quanto riferito dalla Pravda: “Non molto tempo fa fu ucciso un altro giornalista, Paul Khlebnikov. Dopo la pubblicazione del libro intitolato «Conversazioni con un barbaro», in cui i personaggi principali sono posti in cattiva luce, lui è stato ucciso. Non so chi l’abbia uccisa [Anna Politkovskaya], ma è chiaro che chi si sta sottraendo alla giustizia ha valutato l’opportunità di sacrificare qualcuno per incoraggiare i sentimenti anti russi nel mondo”. Nell’intervista concessa l’11 ottobre al Sueddeutsche Zeitung, pubblicata integralmente solo sul sito Kremlin.ru, Putin ha detto: “Saprete che diversi anni fa un giornalista americano di origini russe, Paul Khlebnikov è stato ucciso in Russia. Si era occupato dei problemi della Repubblica di Cecenia ed aveva scritto un libro intitolato «Conversazioni con un barbaro». Stando alle indagini, i protagonisti del libro non erano contenti di come Khlebnikov li ha presentati e lo hanno distrutto”. Il “barbaro” in questione è Khodj-Akhmed Nukhayev, il finanziatore del separatismo del Caucaso Settentrionale: Oggi Nukhayev vive in Israele, fa affari con il lord inglese McAlpine ed è sospettato di collegamenti con Boris Berezovsky. Khlebnikov era il genero di John Train, personaggio di Wall Street impegnato nelle operazioni contro Lyndon LaRouche. Nel 2005 Anna Politkovskaya ha ricevuto il “Premio per il coraggio civile” del Northcote Parkinson Fund di John Train.
Ecco un guizzo di genio dall'impareggiabile Michele Serra, a proposito delle dichiarazioni stizzite di Putin sulla mafia:
L'amico Putin, seppure coi suoi modi da steppa, per una volta ha detto una cosa ahimé giusta: quanto a mafia, l'Italia non ha le carte in regola per dare lezioni agli altri. Ma la politica dev'essere davvero una specie di droga se è vero, come è vero, che le reazioni italiane sono state perfino più stonate del prevedibile. La sinistra, che di mafia parla da quando è nata come di un cancro che corrode il paese, e da Portella della Ginestra fino a noi conta tra i suoi uomini la grande maggioranza delle vittime di mafia, si è inalberata come se Putin avesse detto chissà quale enormità. Viceversa Berlusconi e molti dei suoi soci, che in cinque anni di governo hanno stabilito un vero e proprio record di omertà politica rispetto alla questione mafiosa (e stendiamo un velo pietoso su Mangano e Dell'Utri), ha difeso a spada tratta l'amico Putin. Cioè: se a dire "mafia" è un pm italiano, che magari rischia la pelle, nel centrodestra si grida al giustizialismo. Se lo dice Putin, allora è una verità da applaudire. Non saprei proprio, in questo quadro insieme penoso e stravagante, quali delle due parti politiche si sia maggiormente distinta per incoerenza. Diciamo solo che, come spesso accade, la sinistra immalinconisce, la destra fa morire dal ridere. Michele Serra, Repubblica, 25 ottobre 2006
Ma proprio l'Unità, unico giornale italiano ad avere indicato in Putin il mandante dell'omicidio della Politkovskaja fin dal primo giorno, riporta pochi giorni fa, inconsapevole delle proprie contraddizioni interne:
Rispetto al 2005, siamo scesi di altre cinque posizioni nella classifica della corruttibilità, passando dal 40° posto al 45°, dopo il Botswana, la Giordania, la Corea del Sud. A fotografare l´amara situazione, il Rapporto 2006 di Transparency International (Ti), l´organizzazione non governativa che è impegnata nella lotta alla corruzione e che ogni anno stila una classifica che registra la percezione della corruzione in 163 paesi del mondo. Nella scala di voti, da 1 a 10, l´Italia non sfiora nemmeno la sufficienza, fermandosi al 4.9. Al primo posto, con un 9.6, la Finlandia, seguita dagli altri paesi scandinavi (Danimarca, Svezia, Norvegia) ma anche da Nuova Zelanda, Singapore e Australia. Il resto dei paesi europei ci distacca di molto: il Regno Unito si posiziona all´11° posto, la Germania al 16°, la Francia due postazioni più in basso. I cittadini statunitensi percepiscono un grado di corruzione che fa classificare gli Usa al 20° posto, ancora lontanissimo dall´aria corrotta che si respira in Italia. L'Unità, 7 novembre 2006
Insomma, pongo retoricamente per la terza volta una domanda. In certi esercizi ginnici eccelle in particolare l’Unità, probabilmente per un malcelato (e male interpretato) senso di peccato originale, protesa spasmodicamente a dover dimostrare di essere più antisovietica dei sovietici. Legittimo. Purtroppo, finisce regolarmente col trascendere in russofobia. [...] Quali sono gli obiettivi della sinistra italiana e dell’Unità?

giovedì 2 novembre 2006

Scampoli di memoria 3

di Dino Bernardini

A partire dal 1976 sono stato per qualche anno responsabile dei rapporti del PCI con i partiti comunisti dei paesi socialisti. Non avevo accettato con entusiasmo quel nuovo incarico perché avrei preferito restare alla redazione di Rassegna Sovietica, dove ricoprivo l’incarico di vice-direttore e direttore responsabile (direttore era Umberto Cerroni, che però da anni era tutto preso dal suo lavoro all’università di Lecce e mi aveva lasciato carta bianca). Ma il mio amico Gianni Cervetti, che il quel momento era il numero 2 a Botteghe Oscure, insistette e mi convinse promettendomi che dopo un paio di anni, se non fossi stato soddisfatto del mio lavoro, avrei potuto tornare a tempo pieno alla mia amata Rassegna Sovietica, che nel frattempo, se me la sentivo, avrei potuto continuare a dirigere. Rimasi invece a Botteghe Oscure fino alla pensione. I miei capi diretti alla Sezione Esteri del PCI furono all’inizio Sergio Segre, responsabile, e Antonio Rubbi, viceresponsabile. Al di sopra di loro c’era Giancarlo Pajetta, che, in quanto membro della Direzione e presidente della Commissione Esteri del Comitato Centrale, faceva da supervisore della politica estera. Credo che Giancarlo Pajetta ritenesse all’epoca di essere lui il vero amico dell’URSS dentro il PCI, amicizia invero non ricambiata giacché i sovietici non è che si fidassero molto di lui e non lo amavano perché Pajetta ogni tanto si permetteva, anche contro di loro, una di quelle sue battute fulminanti che facevano sobbalzare i gerontocrati del PCUS. Ebbene, penso che Pajetta diffidasse di me per il semplice fatto che avevo studiato a Mosca, e che mi ritenesse un potenziale confidente del KGB. Ma forse, più probabilmente, ce l’aveva un po’ con me perché la mia nomina non era stata caldeggiata da lui. Mi rendo conto che tutti questi particolari sulla vita interna del PCI possono non risultare interessanti per il lettore, ma ne parlo per far capire la situazione in cui avvenne l’episodio che sto per raccontare. Comunque, i miei rapporti con Pajetta non furono sempre facili, fin dall’inizio, salvo imprevedibili – com’era nel carattere dell’uomo – momenti di bonaccia in cui arrivava persino a manifestarmi il suo affetto. Tant’è che quando, nel corso degli anni successivi, Paolo Bufalini si alternò per due volte con Pajetta alla presidenza della Commissione Esteri del Comitato Centrale, io venni nominato ogni volta membro di quella Commissione, come tutti gli altri funzionari della Sezione Esteri, mentre poi, quando il presidente tornava ad essere Pajetta, io ne venivo escluso. Io solo.

E veniamo all’argomento di questo Scampolo di memoria, suggeritomi dal necrologio di Schafik Handal che ho letto il 26 gennaio 2006 nel País (p. 45). Schafik Handal è stato Segretario Generale del Partito Comunista Salvadoreño, leader del Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale, negoziatore della pace raggiunta nel 1992 dopo decenni di guerriglia contro la dittatura. Nel momento in cui è morto ricopriva la carica di presidente del gruppo parlamentare del Fronte Farabundo Martí, trasformatosi nel frattempo in partito politico. Aveva 75 anni, ed è deceduto all’aeroporto di San Salvador subito dopo il suo ritorno dalla Bolivia, dove era stato invitato ad assistere all’insediamento di Evo Morales, il leader del MAS (Movimento al Socialismo) eletto plebiscitariamente dai diseredati indios boliviani, il presidente che al momento del giuramento ha levato in alto il pugno chiuso e che come suo primo atto di governo ha dimezzato gli stipendi dei ministri e ha stabilito che il suo personale emolumento presidenziale non deve superare una cifra corrispondente a circa 1.500 euro.

Nella seconda metà degli anni Settanta Handal, pur considerato un comunista moderato, era costretto alla clandestinità in patria e a frequenti viaggi e soggiorni all’estero. Di passaggio a Roma, aveva chiesto di incontrare qualcuno del nostro partito. Pajetta mi chiamò e mi disse di invitarlo a pranzo per sapere che problemi avesse.

– Ma Pajetta, io non so nulla del Salvador, abbiamo agli Esteri chi si occupa del Sud-America. E poi parlo abbastanza male lo spagnolo, riesco appena a farmi capire…

Non so se Pajetta conoscesse su Handal quello che io scoprii soltanto un anno dopo, forse voleva soltanto mettermi alla prova o magari divertirsi a mie spese, oppure non si fidava del nostro addetto all’America Latina, o forse quest’ultimo, adesso non ricordo, era assente da Roma, Fatto sta che non riuscii a convincerlo e dovetti prendere un appuntamento. Durante il pranzo Schafik Handal si confidò con me su molti argomenti e scoprimmo di pensarla allo stesso modo sull’URSS e sul cosiddetto “socialismo reale”. La conversazione fu lunga, anche perché spesso non ero sicuro di aver capito bene, a causa del mio spagnolo, e lo costringevo a chiarire meglio il suo pensiero con altre parole. Alla fine ci lasciammo da amici e in seguito ci capitò di incontrarci affettuosamente altre volte. Ma, come vedremo, senza più la difficoltà della lingua. E non perché nel frattempo il mio spagnolo fosse migliorato.

La prima volta fu un anno dopo, a Mosca, nell’albergo del PCUS per le delegazioni comuniste. Pochi sapevano che si chiamasse Oktjabr’skaja, giacché fuori non c’era scritto nulla [l’attuale Prezident Otel’, NdR], neanche che fosse un albergo. Ma ci si stava benissimo. Mentre ero a pranzo nella sala ristorante, vidi non lontano da me Schafik Handal che parlava liberamente in russo con un interlocutore sovietico. Rimasi stupefatto. Ci abbracciammo calorosamente e questa volta parlammo in russo, felici di capirci bene e recriminando di non aver saputo, un anno prima, di avere una lingua in comune per conversare. Eh, Pajetta!

***

Visto che nel capitolo precedente ho parlato di Rassegna Sovietica, voglio raccontare di come ne divenni il vicedirettore tuttofare, dove “tuttofare” significava veramente fare tutto, cioè scegliere gli articoli, commissionare le traduzioni, tenere i contatti con la tipografia (si era ancora all’epoca delle linotype), fare il lavoro di redazione dei testi e di editing, correggere le bozze nei vari passaggi fino al “visto si stampi”, preparare il borderò di ogni numero per pagare i collaboratori, rispondere alle telefonate ecc. La situazione nel 1972 era la seguente.

Come ho già detto, il direttore Umberto Cerroni era ormai tutto preso dalla sua cattedra all’università e formalmente la rivista era affidata alla vicedirettrice Irina Colletti, ex moglie di Lucio Colletti, donna all’epoca bellissima, di origine russa, intelligente e gentile, ma priva di polso nei suoi rapporti con i collaboratori. La rivista aveva ormai accumulato un ritardo cronico di tre o quattro numeri, che per una rivista trimestrale come era allora Rassegna significava un anno. Questo, perché, se un professore universitario prometteva a Irina Colletti un suo saggio per il prossimo numero, quel numero non poteva uscire finché il saggio non fosse pronto, ma nel frattempo un altro professore, che aveva consegnato il suo saggio qualche mese prima, chiedeva di fare qualche aggiornamento bibliografico o di sostanza, giacché nei mesi intanto trascorsi era uscita qualche nuova pubblicazione sull’argomento. Così gli aggiornamenti si rincorrevano a vicenda e la rivista accumulava mesi di ritardo. Inoltre c’erano pressioni da parte dell’ambasciata sovietica affinché il materiale tradotto dal russo e pubblicato in Rassegna Sovietica non si limitasse, come era da qualche anno, quasi esclusivamente agli inediti delle avanguardie sovietiche degli anni Venti e Trenta del Novecento, ma rispecchiasse anche la realtà contemporanea. A dire la verità, c’era anche il fatto che il nostro editore, e cioè l’Italia-URSS, Associazione Italiana per i Rapporti culturali con l’Unione Sovietica, pubblicava anche un mensile, Realtà Sovietica, in formato rotocalco, con molte fotografie, e che questo mensile era più gradito ai sovietici, ai quali non sarebbe dispiaciuto vedere la chiusura di Rassegna Sovietica.

Il senatore Gelasio Adamoli, Segretario Generale dell’Italia-URSS, mi propose di prendere in mano la direzione operativa di Rassegna. Concordammo la linea editoriale, mi illustrò i problemi e mi mise in guardia contro i possibili rischi. Alla fine del colloquio mi apprestai ad accomiatarmi, ma lui mi fermò con un certo imbarazzo.

– Abbiamo parlato di tutto, – disse, – ma non del tuo stipendio.

Si deve sapere che a quell’epoca ero uno dei pochi italiani a conoscere il russo ed ero ricercato continuamente come interprete, ben pagato. Avevo accumulato così un discreto gruzzoletto e mi consideravo una persona quasi ricca. Quanto a Rassegna Sovietica, era stata il mio sogno fin dagli anni in cui studiavo letteratura russa alla facoltà di filologia dell’Università Lomonosov di Mosca. Naturalmente le mie speranze di studente si limitavano a una eventuale collaborazione, non certo alla carica di direttore. Ed ecco che mi si offriva di colpo la direzione.

“Caro Adamoli”, – gli risposi scherzando, “Rassegna Sovietica è una rivista unica nel panorama editoriale italiano e mi piacerà moltissimo lavorarci. Quanto ai soldi, la penso così: quando uno va al cinema per vedere un film che gli piace, paga per entrare, non gli passa neanche per la testa che qualcuno possa dargli dei soldi. Ora tu mi chiedi quanto voglio per dirigerla, ma a me la cosa piace a tal punto che ti potrei chiedere quanto devo pagare io per farlo”. Dopo questa mia bella battuta ci accordammo per la favolosa somma di 30 mila lire al mese.

Fu l’inizio di un’avventura per me affascinante che spero di poter raccontare in futuro, a poco a poco.

Slavia, rivista trimestrale di cultura

Dino Bernardini, "Slavia" N°3 2006