lunedì 4 settembre 2006

I nostalgici disoccupati dell’antiberlusconismo

Dal Giornale del fratello di Silvio Berlusconi del 28 giugno 2006, a firma dell'illustre sconosciuto Angelo Mellone, apprendo di essere annoverato tra i "nostalgici disoccupati dell’antiberlusconismo", in compagnia di persone che personalmente reputo per bene e molto al di sopra del sottoscritto: da Curzio Maltese a Marco Travaglio, da Paolo Flores D'Arcais ad Enzo Biagi, da Giorgio Bocca a Paul Ginsborg, da Alexander Stille ad Umberto Eco, da Elio Veltri a Serena Dandini, da Fabio Fazio a Nanni Moretti, da Enrico Deaglio a Piero Pelù, da Antonio Tabucchi a Sabina Guzzanti. La tesi sostenuta è che siamo stati tutti antiberlusconiani per soldi ed alla ricerca di quella notorietà che ad Angelo Mellone, evidentemente, non è data, e che conseguentemente dopo l'11 aprile siamo rimasti tutti disoccupati, non essendo capaci di far altro nella vita. A supporto della tesi, Mellone constata che il sito del sottoscritto, quello delle immagini "taroccate" della propaganda berlusconiana, "è fermo da fine maggio".
Potrei obiettare che il sito in questione l'ho fatto gratis, a differenza di Mellone, che deve giocoforza imbonire l'azionista di riferimento del Giornale del fratello di Silvio Berlusconi e che perciò percepisce uno stipendio. Potrei anche ricordare che Mellone sbaglia a parlare di "comunità noberluska", che invece continua a discutere da sei anni al ritmo di centinaia di messaggi al mese. Infine, potrei rammentare che il mio impegno mi è costato, dopo decenni di vita - molto - relativamente agiata, quantomeno senza particolari problemi economici, senza però poter mettere da parte alcunché, disoccupazione, sfratto fulmineo e finalmente emigrazione forzata. Invece, stigmatizzo l'obiettivo dichiarato dalla prima ora sul sito: mandare Berlusconi a casa. No, non la rivoluzione d'Ottobre, o quella cubana, o quella culturale maoista. Sommessamente, mandare a casa colui che cambia le regole del gioco democratico in corsa. Obiettivo raggiunto, che altro dire?
Come è noto, Al Capone andò in galera per non aver pagato le tasse, non disponendo di avvocati quali i principi del foro Cesare Previti e Carlo Taormina, né di giornali di proprietà di suo fratello Paolo Capone, di televisioni di proprietà di sua sorella Marina Capone e di altre finzillacchere editoriali e mediatiche di proprietà di suo figlio Piersilvio Capone.
Se la memoria non mi falla, fu l'avvocato Agnelli, capitalista di ben altro calibro e lignaggio, a dire che non c'è modo migliore di far passare leggi di destra che affidarle ad un governo di sinistra. In questi primi cinque mesi talvolta si ha l'impressione che sia quanto si vada attuando, e che Berlusconi sia tutt'altro che all'opposizione. E' per questo che il nostro sito, di tanto in tanto, continuerà ad essere aggiornato. Gratis.

domenica 3 settembre 2006

I crimini di Modesto

Almudena Grandes

Modesto ripensa alla propria vita. Si è seduto a un tavolo accanto alla finestra e ha ordinato una bottiglia di acqua minerale frizzante invece del caffè di ogni mattina. Quando Modesto rinuncia al caffè è perché non è una buona giornata per lui, oppure perché nel suo palato riaffiora l’amarezza di una vita intera, quel retrogusto soffocante, polveroso, che non cede all’apparente allegria delle insipide bollicine in tumulto. Modesto si rassegna, allontana il bicchiere, pensa alla propria vita.

Non è un compito facile, perché il suo primo ricordo è come un puzzle al quale manchino dei pezzi. Non ha ricordi d’infanzia di suo padre, e nemmeno di sua madre prima dei sei anni. Più avanti, ricorda soltanto sua nonna, che in casa era sempre vestita di nero, ma che si metteva vestiti colorati quando lo portava alla mensa dell’Auxilio Social. Adesso si commuove, ricordando quel lutto proibito, segreto, clandestino, ma allora gli sembrava normale. Abbiamo già abbastanza problemi, diceva sua nonna, e lui. che non capiva nulla a parte il fatto che loro avevano troppi problemi, non si azzardava neppure a domandare.

Quando sua madre uscì dal carcere non la riconobbe. Aveva passato tanto tempo aspettandola, immaginandola, guardando le sue fotografie tutte le notti, che credeva che il suo incontro sarebbe stato come la scena di un film. Invece non poté evitare che quella donna delicata, stanca, anziana, che lo prese in braccio con difficoltà e con gli occhi pieni di lacrime, gli apparisse un’estranea. Otto anni dopo, quando uscì suo padre, tutto fu più facile. Egli era già quasi un uomo e aveva avuto molto tempo, troppo, per prepararsi a quell’incontro.

Allora, Modesto sapeva già che loro erano comunisti: comunista sua madre sin dall’adolescenza, comunista suo padre dai tempi della guerra, comunista suo nonno finché non lo fucilarono al muro del Cimitero dell’Est, comunista sua nonna per la quale era pericoloso portare il lutto per il marito. Erano comunisti, e per questo lui non sapeva mai quanta gente sarebbe venuta ogni giorno a mangiare a casa sua; né per chi fossero i biscotti, le ciambelle che le donne preparavano al ritorno dal lavoro; né chi potesse trovare addormentato nel suo letto a metà del pomeriggio. Perché loro erano comunisti, ed essere comunisti era questo, dare e dedicarsi, aiutare, spartire con gli altri, rischiare. Questa era, almeno, la vita di Modesto.

Se loro fossero stati cattolici, pensa adesso, sarebbero stati beatificati. Se fossero stati anarchici, sarebbero risultati molto simpatici. Se fossero stati fascisti, nessuno avrebbe avuto il cattivo gusto di ricordare il loro passato. Se fossero stati socialisti, sarebbero stati ammirevoli. Ma erano comunisti, e furono, ed erano, e sono, e continuano ad essere, e sempre saranno colpevoli. Com’è curiosa la vita, pensa Modesto, e pensa alla sua, e a quella di coloro che un tempo portavano la stessa camicia, lo stesso berretto, la stessa uniforme degli assassini di suo nonno e che adesso sono più innocenti, più comprensibili, meno pericolosi dei cadaveri delle loro vittime. Com’è curioso il destino, pensa Modesto, e pensa alla propria vita, e a quella di tanti altri, assassinati, imprigionati, esiliati, rovinati, soggiogati dalla storia, condannati a portare sulla cicatrice eternamente aperta della loro memoria il peso di crimini che non hanno mai commesso. Com’è curioso questo paese, pensa Modesto, dove il bilancio di una vita intera vale meno di un istante di pentimento e dove l’etichetta nazionale, usata persino per contrassegnare le arance, non si utilizza mai per distinguere coloro che si sono battuti per il proprio paese contro un tiranno straniero.

Modesto pensa alla sua vita, quella di un uomo che non ha mai ammazzato nessuno, che non ha ricordi di sua madre prima dei sei anni né di suo padre prima dei quattordici, che non ha conosciuto suo nonno né ha visto sua nonna vestita a lutto fuori di casa, che non sapeva mai quanta gente sarebbe venuta a mangiare a casa sua né chi stesse dormendo nel suo letto a metà pomeriggio; che mai dubitò del nome, dei cognomi del nemico né di una fede che sarebbe convenuto a tutti loro non avere e alla quale, naturalmente, non avevano mai rinunciato. Aveva speranze, da molti anni sperava che qualcuno raccontasse l’altra parte della storia, quell’unica parte che lui può raccontare, l’unica che ha vissuto, l’unica che conosce. Dare e dedicarsi, aiutare, spartire con gli altri, rischiare, ed entrare e uscire, e tornare a entrare e tornare a uscire, e passare la vita entrando e uscendo dal carcere. Ma vede la televisione, legge i giornali, guarda le vetrine delle librerie e impara, alla sua età, che questa è la parte della storia che, a quanto pare, a nessuno interessa raccontare.

Modesto pensa alla propria vita, alla vita dei comunisti spagnoli, che mai hanno avuto altro potere che quello di arrendersi e che mai lo hanno fatto. Sa che in altri paesi le cose sono andate diversamente, ma quella storia non è la sua. Sebbene nessuno voglia saperlo.

(Da EPS, supplemento settimanale di El País, 17 aprile 2005, p. 126. Si pubblica per gentile concessione dell’Autrice. Traduzione di Dino Bernardini. Slavia, N°2 2006)

Nota del traduttore

Nel panorama della grande letteratura contemporanea di lingua spagnola Almudena Grandes è oggi una delle voci più originali, nota in tutto il mondo. Nata nel 1960 a Madrid, dove risiede, ha esordito nel 1989 con Las edades de Lulú, che ottenne subito un notevole successo di pubblico e di critica, seguito da una serie di romanzi e raccolte di racconti e di articoli molto apprezzati, fino al grande successo del suo ultimo libro di racconti Estaciones de paso. E’ stata insignita di vari premi letterari ed è una firma prestigiosa del quotidiano El País.

Il protagonista del breve racconto che presentiamo in questo numero di Slavia è un personaggio che contrasta decisamente con l’immagine del comunista quale ormai il martellamento mediatico è riuscito ad accreditare, quasi che nella storia del mondo i comunisti possano essere tutti identificati con gli aguzzini dei lager staliniani, dimenticando che in paesi come l’Italia o la Spagna gli aguzzini erano di segno politico diverso, dove i comunisti erano, sì, coinvolti anche qui nella tragedia dei lager, ma nel senso che ci stavano dentro, erano le vittime. Del resto, chiudere gli occhi sulla realtà non è un atteggiamento nuovo. Raccontava molti anni fa Harold Pinter: “Una sera mi trovavo a una festa. Mi avvicino a due signore turche che stavano chiacchierando tra di loro:

– Cosa dire delle torture che avvengono tutti i giorni nel vostro paese?

Mi guardano sbalordite.

– Torture? Quali torture?

– Ma come? Non sapete che ogni giorno vengono torturati decine e decine di uomini nel vostro Paese?…

– Ma no, vi sbagliate, solo i comunisti vengono torturati...”

[Harold Pinter, Teatro, vol. I, Torino, Einaudi, 1996, p. XI].

Il vecchio comunista spagnolo del racconto sa oggi, certo, dei lager staliniani, sa dei crimini orrendi commessi dalla sua parte in nome di quello che per Marx avrebbe dovuto essere il “regno della libertà”, così come i suoi avversari dovrebbero sapere – anche se, in buona o mala fede, ignorano – che i crimini fascisti e franchisti sono stati commessi da gente della loro parte. Modesto ha conosciuto di persona le atrocità del regime franchista, quel regime che ancora decenni dopo la vittoria faceva “garrotare” gli avversari sconfitti. Però la vicenda sua e della sua famiglia non gli impedisce di riconoscere che “in altri paesi le cose sono andate diversamente, ma quella storia non è la sua. Sebbene nessuno voglia saperlo”.

Il racconto ha avuto recentemente un seguito (vedi EPS/País, 13 novembre 2005, p. 164), in cui il vecchio Modesto è di nuovo il protagonista, ma di vicende legate soprattutto all’attualità politica spagnola.

Dino Bernardini, Slavia N°2 2006