martedì 1 dicembre 1987

Il ritorno di Sucharev

di Vladimir Ščerbakov

A guardarlo, sembrava dormisse beatamente, semicoricato in poltrona, tanto era sereno il suo volto, regolare il respiro e naturale la posizione. Ma dopo un paio di minuti risuonò il segnale d'allarme. L'uomo si risvegliò lentamente, si allungò verso lo schermo e fissò con palese sforzo i puntini che vi apparivano e sparivano: l'astronave stava attraversando una nube di meteoriti. I suoi occhi arrossati, irritati, rivelavano meglio di qualsiasi parola quanto fosse stata fallace la prima impressione. Poi si accasciò pesantemente in poltrona e fece in tempo a rientrare nel suo dormiveglia da incubo prima che risuonasse nuovamente l'impietoso segnale.

Erano tre o quattro giorni, non rammentava con precisione, che quasi non chiudeva occhio, dato che il segnale suonava in continuazione. Ma sì, probabilmente era da cinque giorni che il pilota automatico si era rotto. Se solo fosse riuscito a resistere fino alla fine… a sostituire gli elementi danneggiati. O forse era meglio farsi prima un sonno?…

Non poté determinare neanche approssimativamente quanto altro tempo fosse passato, quando l'impulso elettrico lo risvegliò per l'ultima volta. Senza aprire gli occhi, alzò con fatica il braccio e strappò svogliatamente il filo dell'allarme.

Nelle fantasticherie del suo sonno entrarono solo per un istante la nave, un guscio d'uovo indifeso nell'oceano del tempo e dello spazio, ed il puntino vertiginoso del meteorite che gli aveva attraversato la strada nel suo volo mortale.

Accordo in maggiore

C'era una strana sensazione che non abbandonava Sucharev: i quadrati verdi dei campi, i fiumi e gli edifici, bianchi come la neve del cosmodromo, spuntavano d'improvviso dalle nuvole, e vedeva tutto questo come dipinto sulla tela da un maestro che gli abbia dato vita. Non credeva che tutto sarebbe finito propria ora, in quell'istante.

L'ammortizzatore ricevette un colpo, ed egli sentì una leggera nausea in gola.

Un'automobile si avvicinò alla scaletta. Vol'd vide una donna. Capelli castani ondulati, volto aperto, felice, gambe slanciate: era Anna. L'aria azzurra primaverile era piena di suoni: si udivano in lontananza i clacson delle macchine, voci umane, i1 canto degli uccelli; da qualche parte qualcosa ronzava e rombava metallicamente. In dieci anni si era disabituato a tutto ciò.

Lei gli corse incontro. Lui era rimasto fermo, un po' vacillante, sul primo gradino della scaletta: il venticello primaverile e l'odore dell'erba gli avevano dato alla testa come se fosse stato un po' brillo.

I tacchetti di lei risuonarono svelti sulla scaletta. “Caro… Vol'd…” – pronunciò a fatica. Solo allora lui si accorse che i suoi occhi erano pieni di lacrime. Voleva dirle qualcosa, ma continuo a guardare, a guardare…

E c'era anche un'altra cosa che avrebbe voluto dirle… Le sue labbra si torsero in una smorfia e, come un bimbo, cacciò la testa nell'impermeabile di lei, un po' più giù del collo.

La strana ipotesi del professor Nevadago

Il professor Nevadago lo salutò senza sentimento, lo fece entrare nello studio ed affrontò la questione senza parole superflue.

– Sono importanti i particolari. Di fatto abbiamo già un'ipotesi su cui lavorare, per quanto possa sembrarle assurda. Ma i dettagli sono sempre convincenti, specialmente in questo caso… Sì… Lei ha detto che al momento del risveglio è corso allo schermo, che era vuoto. Beh, è possibile che questo sia stato reale… realistico… Possibile che non vi sia stato nulla che lei abbia reputato degno di nota, eccetto questa piastrina? Allora? – Nevadago prese a fissare con aria di attesa il suo interlocutore.

– No, nulla. Intendo, ovviamente, nulla di notevole, glielo avrei detto prima. Oltre ad una sensazione di leggera debolezza e ai giramenti di testa, di cui le ho già parlato. No, era tutto come sempre. Mi sono svegliato ed ho proseguito il volo. Poi ho trovato in tasca questo, – Vol'd toccò la piastrina sul tavolo, – e mi ha interessato al punto da informarvene…

– Va bene, – Nevadago si accostò al tavolo, nascose la piastrina e guardo con attenzione Vol'd da dietro gli occhiali. – Bene. Adesso mi ascolti con attenzione, tanto deve comunque venirne a conoscenza. La nave è stata perforata dalle meteoriti in vari punti. – Il professore fece una pausa, accentuando involontariamente l'ultima frase. I suoi occhi studiavano attentamente l'interlocutore, mentre la mano si protendeva verso il portasigarette. – La nave è stata crivellata, ed è tornata nuova di zecca. Come spiega questo piccolo paradosso? Tra poco mi crederà, Vol'd. Abbiamo trovato i segni delle riparazioni. E' stato molto difficile, quasi impossibile… Quelli che ci hanno lavorato sono stati dei cesellatori: nove squarci, pensi… No, tranquillo, Vol'd, mi ascolti, le spiego tutto con ordine. Tanto, deve saperlo comunque. Naturalmente, otto dei nove squarci sono stati la diretta conseguenza del primo. Il primo meteorite ha messo fuori uso una serie di apparecchiature, e poi è cominciato… un colpo dopo l'altro. Immagino lo spettacolo… Ma lei, Vol'd, a quel punto, in base alla mia ipotesi, non esisteva più. Era morto.

Nevadago avvicinò premurosamente all'interlocutore il portasigarette, prevenendo con uno sguardo freddo ed intelligente le inutili domande dell'altro.

– Lei non esisteva più, – ripeté pensoso. – Certo, ammetto che sia solo una mia ipotesi, ma non poteva essere altrimenti. Assolutamente, Vol'd, – ripeté con tranquillità. – Dopo, quando il pilota si è risvegliato e l'astronave, tutta bella e sana, ha ripreso il suo percorso, si è trattato già di un altro pilota. E di un'altra nave. L'astronave era stata riparata, come le ho già detto, ed il pilota… Calmo, Vol'd, non sono vaneggiamenti, deve saperlo… il pilota era stato sostituito con una copia identica. Lei non è Vol'd, e colui che fa più fatica a crederlo è proprio lei. Ma allo stesso tempo lei è quel Vol'd che in quella nube maledetta voleva tanto dormire, e questo facciamo fatica noi a crederlo…

Terminato di parlare, Nevadago prese una sigaretta, ed a Vol'd parve di vedere qualcosa di nuovo nella sua espressione, che prima non aveva notato. Egli reputava un malinteso tutto quello che il professore gli aveva detto sino ad allora, anche se era lontano dal pensare che uno dei due potesse aver perso il senno.– Queste sono le copie dei protocolli di analisi della nave dopo il suo ritorno, – Nevadago fece cigolare il cassetto di una scrivania fuori moda e gli porse alcuni fogli dattiloscritti. – Non abbia fretta, se li studi con attenzione, in particolare le conclusioni. Non la disturberò.

Il professore andò verso la libreria. Vol'd prese a sfogliare i protocolli. L'analisi chimica, l'analisi strutturale, tutto in regola. Snervamento del metallo… diagrammi… il contorno dell'astronave e le macchie su di essa… Vol'd contò nove macchie, tutte zone di composizione identica, ma con piccole differenze nei parametri fisici. Sì, erano delle otturazioni, roba da matti. Poi guardò i pannelli delle apparecchiature e di nuovo nei diagrammi vide le macchie, i segni delle riparazioni.

– Senta, – Vol'd chiamò debolmente il professore, che faceva finta di cercare un libro nella libreria, – è riuscito a sapere cosa sia quell'oggetto che mi sono trovato in tasca? Perché, se ho capito bene, e cominciato tutto con la piastrina, vero?

– Non sia ingenuo, Vol'd. Non sappiamo assolutamente di cosa si tratti. Vol'd, l'ho chiamata qui proprio per questo, anche se ammetto che senza di me non si sarebbe certo annoiato. Vede, è molto difficile comprendere la destinazione di quest'oggetto. Certo, era evidente sin dall'inizio che la cosa più probabile era che le fosse rimasta in tasca casualmente: non potevano mica avergliela lasciata di proposito. Sarebbe in contrasto con tutto il resto. Non legherebbe con il loro compito fondamentale. Nove squarci ed il pilota… Gli autori hanno voluto rimanere sconosciuti. Hanno fatto di tutto per celare l'accaduto. Ed hanno quasi raggiunto l'obiettivo. La piastrina è stata dimenticata nella sua tasca. Ma per noi, Vol'd, ciò è stato sufficiente.

Conosciamo benissimo i nostri limiti. Sappiamo di cosa sono capaci le nostre mani ed i nostri cervelli, abbiamo costruito l'edificio armonioso della scienza, abbiamo generato nel dolore macchine ed automi perfetti. Ma mai mano umana ha potuto tenere un oggettino simile. Nessuna mano. Mai. Perché vede, Vol'd, siamo riusciti ad analizzare solo un picco1issimo settore della superficie esterna della piastrina, micron per micron. I suoi atomi sono allineati come mattoni. Gli atomi più differenti. Non posso esemplificare con alcuna analogia adatta, Vol'd. E' una costruzione architettonica elaborata, composta di elementi uniti in base alla legge di un qualche codice complesso. Un bizzarro mosaico di molecole ed atomi. Mi scusi, mi sono infervorato, avrei dovuto tacere, tanto per ora è impossibile descriverlo con parole. Abbiamo trovato una traccia, Vol'd, e lei deve aiutarci, visto che ha avuto tanta fortuna.

– E incredibile, professore… Lei disporrà pure di fatti… di prove… O in questo caso non sono necessari?

– Nessuna. Nulla, oltre quello che le ho già detto, – si corresse il professore, dopo una pausa di riflessione. Tacque e giro a lungo tra le dita la sigaretta spenta.

– Che nube era, Vol'd? – chiese di punto in bianco il professore. – Voglio dire, cos'erano quelle meteoriti? La configurazione, il peso, anche se molto approssimativamente?

– Non saprei. Ma è cosi importante, professore?

– Chi lo sa… – borbottò piano Nevadago. – Semplicemente non possiamo metterci al loro posto, mentre loro… beh, inutile fantasticare.

… Il buio creava l'illusione della solitudine. La sera era così silenziosa e le stelle luminose splendevano così pacatamente che se Vol'd si fosse concentrato non avrebbe sentito altro che il rumore dei propri passi.

Continuava mentalmente la discussione. Ad un tratto, si convinse improvvisamente che nel ragionamento del professore c'era una lacuna. Ma quale? La sgradevole voce metallica del professore continuava a disputare con lui, cercava di convincerlo, di tranquillizzarlo… Certo, aveva ragione lui. Ci volevano fatti. Una logica. Conclusioni inconfutabili. Allora, era andata proprio così? La lacuna non si trovava. Ma da dove gli veniva allora quell'inspiegabile convinzione che ci fosse?… Da dove?

“Sono Vol'd. Ricordo perfettamente tutto quello che è successo, – tentò per l'ennesima volta di confutare mentalmente le ipotesi del professore. – Mi sono addormentato e poi mi sono svegliato. Era tutto a posto. Mi sentivo benissimo. Mi ricordo tutto perché sono Vol'd Sucharev, e nessun altro. Sono io che a scuola marinai la lezione di biologia per andare al cinema con Kol'ka Utrilov. E mi regalarono per il compleanno l'orologio con la bussola, ed io lo mostravo alle ragazzine. Una mi chiese di provarselo e lo ruppe, mentre la bussola rimase intatta. Lei quella volta si spaventò terribilmente. Mi fece pena. "Basta piangere, – le dissi, – tanto l'orologio non mi piaceva, e un bene che tu lo abbia rotto". In seguito diventammo amici…”.

Un epilogo realistico

Camminavano lungo un viale che sembrava un corridoio: a destra e a sinistra vi erano dei cespugli curati, un po' più in là file di alberi con delle stelle luccicanti che erano rimaste impigliate nelle loro chiome. Gli occhi vivaci del professore che lo guardavano fissi da dietro i grossi occhiali marrone emersero nuovamente nella sua memoria. Il “Metallo snervato” faceva parte del protocollo. Diagrammi, tabelle, fotografie… La sua nave: i due occhi neri degli oblò, le curve dell'astronave che riflettevano irregolarmente la luce con i resti dello strato protettivo, su un lato c'era la macchina bassa del servizio tecnico, la scaletta era appoggiata all'uscita di sicurezza, le cabine foderate... Era difficile credere che una costruzione cosi ridicola avesse potuto volare fino a poco tempo prima… Strinse più forte il braccio di Anna. Sembrava che il sogno continuasse. Prima di farla finita con tutta quella storia, disse:

– Anna, sembra proprio che la parola “ipotesi” vada sostituita con la parola “realtà”. Credo che Nevadago…

– Non dirlo, – lo interruppe lei dolcemente, – non posso più udire quel cognome terribile. E' tutto a posto, credimi.

– Bada, Anna, che sembra sia vero.

Lei si fermò d'improvviso, si voltò verso di lui e gli sfiorò il volto con la mano.

– Stupido, stupido, – prese a ripetere velocemente, – i tuoi ragionamenti sono privi di logica. Pensi forse che ci crederei, anche se fosse vero? Dimmelo, pensi davvero che potrei crederci?

[Da “Fantastika 1964”, Moskva, Molodaja gvardija, 1964, pp. 277-283. Traduzione di Mark Bernardini, pubblicata in “Rassegna Sovietica”, N°6 1987]

L'operazione "Cunami" è rinviata

di Il'ja Varšavskij

Gli intermediari stavano terminando gli ultimi preparativi al quartier generale. L'Aiutante entrò nella stanza ed avvisò che la ridislocazione delle truppe era terminata.

Il Generale diede un'occhiata ai presenti.

– Signori, vi ricordo le condizioni delle manovre per l'operazione “Cunami”. Le manovre avranno luogo a livello di divisioni, le squadre dei fucilieri verranno appoggiate dai carri armati, dai plotoni paracadutisti e dall'artiglieria. Inoltre, ciascuna parte avrà a disposizione batterie di missili atomici. La peculiarità di queste manovre consiste nel fatto che i “Giaguari” verranno comandati da un calcolatore elettronico. Scopo delle manovre è conquistare le postazioni detenute dagli “Orsi”. Prego, Sir, può immettere nel suo calcolatore i dati sulle posizioni di partenza.

– Okay! – gridò il Professore.

Fece un cenno all'Assistente e questi si mise a praticare sulla scheda i fori in una bizzarra successione.

Per un po', a partire dal momento in cui vennero immessi i dati necessari nel calcolatore, il quadro di questo si illuminò di varie lampadine colorate. Poi, sul quadro principale comparve una croce rossa luminosa.

– E' pronto? – chiese il Generale.

– Il calcolatore non è d'accordo sulla dislocazione proposta e chiede la redistribuzione, – rispose il Professore.

– E cosa vuole?

– Adesso vediamo.

Il Professore schiacciò un bottone verde sul quadro principale e dal calcolatore uscì un nastro di carta pieno di zeri ed unità.

– Curioso, – disse il Colonnello che fungeva da intermediario dei “Giaguari”.

L'Assistente contò i segni sul nastro e prese appunti sul suo taccuino.

– Chiede l'eliminazione delle riserve sui fianchi. Otto squadre fucilieri debbono occupare le postazioni lungo la linea del fronte.

– L'inizio lascia a desiderare, – disse il Generale. – Vuole lasciare i “Giaguari” senza nessuna copertura sui fianchi?

– Insiste perché due gruppi di carri armati da sfondamento si portino sui fianchi ed occupino le postazioni retrostanti i fucilieri.

– Geniale! – disse il Colonnello.

– C'è altro? – chiese il Generale.

– La bandiera della divisione deve essere collocata al centro, accanto alla batteria missili atomici, dietro i fucilieri.

– Stupendo! – esclamò il Colonnello. – Ha tenuto conto persino della bandiera!

Il Generale corrugò la fronte, ma non disse nulla.

– Sulla loro destra e sulla loro sinistra si debbono dislocare due batterie leggere, – continuò l'Assistente. – Accanto alle batterie vuole che si collochino i paracadutisti d'assalto.

– Spero che sia tutto?

– No: vuole che l'ospedale da campo sia tolto di mezzo.

– Per metterlo dove?

– Non deve partecipare affatto alle manovre.

Il Professore portò la mano al cuore ed emise un gemito.

– Cos'ha? – chiese il Generale.

– Una crisi cardiaca, – mormorò il Professore, accasciandosi sulla sedia. – Per favore, rimandiamo le manovre a domani. Vi prego!

***

Le luci della città erano ormai visibili quando il Professore, in ottima forma, ma con voce piuttosto scontenta, chiese all'Assistente:

– Ieri ha giocato di nuovo con lui a scacchi?

– Sì, Sir, perché?

– E il programma non l'ha più sostituito?

– N-n-non ricordo, – rispose imbarazzato l'Assistente.

– Me ne sono accorto! “N-n-non ricordo”! Non ha notato forse che stava dislocando i reparti militari come i pezzi sulla scacchiera?!

Il primo ad interrompere il silenzio che seguì fu l'Assistente:

– Comunque, peccato che non l'abbia fatto proseguire. Ieri funzionava a meraviglia. C'è mancato poco che non perdessi.

[Da “Fantastika 1964”, Moskva, Molodaja gvardija, 1964, pp. 226-228. Traduzione di Mark Bernardini, pubblicata in “Rassegna Sovietica”, N°6 1987]

Nuove notizie su Sherlock Holmes

di Il'ja Varšavskij

La domenica londinese è sempre piena di noia, ma se a questa si aggiunge la pioggia, diventa insopportabile.

Io ed Holmes stavamo trascorrendo la giornata domenicale nel nostro appartamento in Backer street. Il grande segugio guardava dalla finestra, tamburellando con le dita lunghe ed esili sul vetro. Nonostante tutti i miei sforzi, il pollice gli si piegava più lentamente delle altre dita.

Finalmente interruppe il silenzio che si protraeva da troppo tempo.

– Non ha mai pensato, Watson, alla non equipollenza delle perdite umane?

– Non la capisco del tutto, Holmes.

– Ora mi spiego. Quando una persona perde i capelli, li perde e basta. Quando perde un cappello, perde l'equivalente di due cappelli, poiché uno l'ha perso, e l'altro deve acquistarlo. Quando perde un occhio, non si sa se ha perso qualcosa: in fondo, con un occhio vede due occhi in tutte le altre persone, mentre queste ultime, pur avendone due, gliene vedono uno solo. Quando perde la ragione, il più delle volte perde ciò che non possedeva. Quando perde fiducia in se stesso… Ma se non erro, ora vedremo una persona che ha perso tutto quel che ho elencato. Sta suonando alla porta!

Poco dopo nella stanza entrò un uomo obeso e calvo, senza cappello, che si asciugava le gocce di pioggia sulla testa tonda con un fazzoletto. L'occhio sinistro era coperto da una benda nera. Tutto il suo aspetto esprimeva smarrimento totale.

Holmes fece un inchino di circostanza.

– Se non vado errato, ho l'onore di vedere in casa mia il duca di Montmorency? – chiese con raffinatezza incantevole.

– Mi conosce, mister Holmes?! – chiese il grassone stupito.

Holmes allungò una mano verso la libreria e prese un libro rilegato in percalle nero.

– Qui, eccellenza, sono raccolti i miei umili lavori di censimento di tutti gli anelli gentilizi. E non sarei un detective se non avessi riconosciuto a prima vista il famoso anello dei Montmorency. Allora, in cosa posso esserle utile? Non si faccia problemi per il mio amico e parli di tutto esplicitamente.

Il duca tentennò un po', evidentemente non sapendo da dove iniziare.

– E' in ballo il mio onore, mister Holmes, – disse, cercando a fatica le parole adatte. – E' una questione molto delicata. Mia moglie è fuggita. Per una serie di ragioni non posso rivolgermi alla polizia. La scongiuro, mi aiuti! Mi creda, sono mosso da qualcosa di più nobile che non la gelosia o l'amor proprio ferito. La questione potrebbe prendere una piega molto sgradevole da un punto di vista politico.

Dal luccicare degli occhi semichiusi di Holmes compresi che tutto questo lo interessava alquanto.

– Vuole essere così gentile da narrarci le circostanze in cui ha avuto luogo la fuga? – chiese.

– E' accaduto ieri. Eravamo nella cabina del “Mauritania”, in procinto di salpare per la Francia. Sono uscito un minuto per andare al bar, mentre mia moglie rimaneva in cabina. Dopo aver bevuto un bicchierino di whisky, sono tornato, ma la porta era chiusa. Dopo averla aperta con la mia chiave, ho scoperto che mia moglie era scomparsa con tutta la sua roba. Mi sono rivolto al capitano, la nave è stata rovistata da poppa a prua, ma purtroppo senza esito.

– Milady aveva una cameriera?

Il nostro ospite esitò.

– Vede, mister Holmes, eravamo in viaggio di nozze, dunque difficilmente degli estranei potevano esserci d'aiuto…

Conoscevo bene il tatto del mio amico in queste cose e non mi stupii del fatto che chiedesse con un gesto al duca di non proseguire oltre il suo racconto.

– Spero di poterla aiutare, eccellenza, – disse Holmes, alzandosi per porgere il cappotto all'ospite. – L'attendo domattina alle dieci.

Holmes tolse con garbo un capello dal bavero del duca e lo accompagnò alla porta.

Tacemmo per alcuni minuti. Holmes, seduto al tavolo, guardava attentamente qualcosa con la lente d'ingrandimento.

Alla fine non resistetti.

– Sarebbe interessante, Holmes, sapere cosa lei pensa di questa storia.

– Penso che la duchessa di Montmorency sia uno sporco animale! – rispose con un'asprezza inusuale per lui. Del resto, era sempre stato molto severo per ciò che riguarda la morale.– Ed ora, Watson, a letto! Domani sarà una giornata dura. A proposito, spero abbia con sé la sua pistola. Potrebbe servire.

Capii che non gli avrei cavato nulla di più, e gli augurai la buonanotte. Il mattino seguente il duca non si fece attendere. Alle dieci in punto suonò alla nostra porta.

Holmes aveva già prenotato un cab, e partimmo per l'indirizzo che indicò.

Il viaggio fu lungo, tanto che il nostro cliente iniziò a spazientirsi. Improvvisamente Holmes ordinò al cabman di fermarsi nei pressi dei Docks. Fece un fischio, e da dietro l'angolo spuntò un omaccione con un canguro rosso al guinzaglio.

– Eccellenza, – si rivolse Holmes al duca, – la prego di consegnarmi quindici sterline, tre scellini e quattro pence in presenza del mio amico dottor Watson. Di questa somma, devo dieci sterline al padrone del serraglio per la duchessa di Montmorency, mentre il resto lo verserò come multa alle autorità doganali per il tentativo di trasportare illegalmente animali dall'Inghilterra.

Il duca rise con allegria.

– La prego di perdonarmi, mister Holmes, per il piccolo inganno, – disse, estraendo il portafoglio. – Non potevo dirle che sulla nave si nascondeva un canguro sotto le sembianze di una lady. Non avrebbe mai intrapreso le ricerche. Sono stato costretto ad infrangere la legge ed a portare quest'animale in Francia per una stupida scommessa. Spero non mi serbi rancore.

– Assolutamente no! – rispose Holmes, tendendogli la mano.

Un attimo dopo nelle mani di Holmes luccicarono le manette, che scattarono con precisione ai polsi del duca.

– Ispettore Letard! – disse Holmes rivolgendosi al nostro cabman. – Può arrestare il professor Moriarty con l'accusa di omicidio del duca e della duchessa di Montmorency. Ha commesso questo crimine per rubare un carbonchio azzurro che si trova attualmente nel marsupio di questo canguro. Non si disturbi, professore, il mio amico Watson sparerebbe per primo!

***

– Mi dica, Holmes, – chiesi la sera al mio amico, – come ha indovinato che era un canguro anziché una lady?

– Al nostro primo incontro tolsi di dosso dal nostro cliente un capello rosso. Dalle informazioni che ho preso, milady era bruna, di conseguenza il capello poteva appartenere o alla cameriera o all'animale. Come lei sa, la cameriera si esclude. Il fatto che il marsupiale fosse femmina l'ho stabilito con la lente d'ingrandimento. Ed ora, Watson, – concluse, – ho intenzione di abbandonare tutti gli affari per ampliare la mia monografia sui merli neri.

– Un'ultima domanda! – lo supplicai. – Come è riuscito a sapere che sotto le sembianze del duca si nascondesse Moriarty?

– Non saprei, – disse con disappunto. – Può darsi… E se lo avessi tenuto d'occhio durante tutti questi anni?

Sospirai, misi una mano sulla spalla di Holmes e premetti l'interruttore nascosto sotto la giacca. Poi, asportato da Holmes il pannello posteriore, cominciai a rifare le saldature dei circuiti di programmazione. In quelle condizioni, era inutile persino tentare di venderlo a Scotland Yard.

[Da “Fantastika, 1964 god”, Moskva, Molodaja gvardija, 1964, pp. 222-225. Traduzione di Mark Bernardini, pubblicata in “Rassegna Sovietica”, N°6 1987]

sabato 1 agosto 1987

Un colpo casuale

di Anatolij Dneprov

Tutti hanno appreso dai giornali come è morto il dottor Glorian. Pare che poco prima di partire per una battuta di caccia stesse pulendo il fucile, che accidentalmente ha fatto fuoco. Dicono che qualunque arma spari almeno una volta indipendentemente dalla volontà del suo proprietario. Ed è proprio così che i cronisti hanno descritto la fine di Glorian.

Non avrei mai scritto questo documento, se poco dopo la morte di Glorian non fosse apparso sui giornali l'annuncio che il suo avvocato Victor Bomp non avrebbe indagato, su richiesta della moglie e dei parenti stretti, sulle circostanze della fine dello scienziato. “La gente decida da sola, avrebbe detto Victor Bomp, se si sia trattato di suicidio o di disgrazia”.

Io non so cosa sia stato. Ma visto che la gente dovrà optare per una delle due ipotesi, delle quali solamente una è quella giusta per il mio amico Glorian, mi sento in dovere di rendere di dominio pubblico alcuni fatti.

Dunque, Robert Glorian è morto tre ore esatte dopo che ci siamo salutati all'uscita del caffè “Malta”. Ricorderò finché vivrò l'espressione del suo volto. Era pallido, come se fossimo stati di notte ed il suo volto fosse stato illuminato dalla luna. Stringendomi la mano mi disse:

– In trent'anni non mi sono mai sbagliato. In matematica, ovviamente. Gli errori nella vita sono un'altra cosa…

Mi venne in mente sua moglie, Eugene, ed annuii con comprensione. Mi era sempre sembrato che Glorian fosse infelice con lei. Spesso li osservavo da spettatore esterno: vi era una certa ostilità fra loro, ma del resto è una cosa piuttosto diffusa quando un marito ed una moglie sono intelligenti entrambi. Più volte ho sentito Eugene dire:

– Al giorno d'oggi, questi matematici mettono il loro naso in ogni cosa. Hanno rovinato l'esistenza umana.

Nelle sue parole vi era una dose di verità.

Quella sera eravamo seduti a sviluppare il teorema di Von Neuman e Morgenstern relativo ai giochi con le somme nulle. In matematica si può rigorosamente dimostrare come nei cosiddetti giochi da salotto ciascuno perda esattamente tanto quanto un altro vince. Il teorema di Von Neuman è una sorta di legge di conservazione della puntata iniziale nel gioco. Poi io e Robert ci siamo messi ad analizzare situazioni più complesse, ed in ogni caso giungevamo sempre alla stessa conclusione: il gioco delle somme nulle è riscontrabile ovunque. Quando siamo passati alla teoria matematica dei conflitti umani, ci si avvicinò Eugene:

– Sapete che vi dico? Mi ripugna ascoltarvi. Voi scomponete i pensieri ed i sentimenti in coefficienti di una matrice non degenere. Se permettete, Robert, vado al “Malta”.

Robert sorrise penosamente ed annuì. Allora ebbi l'impressione che, lasciando andare la moglie al night club, egli cercasse semplicemente di non pensare a lei. Prese a parlarmi di un libro appena pubblicato, di Louis e Raff, in cui la teoria matematica dei conflitti era elevata al massimo grado di perfezione.

Eugene uscì, e noi restammo nello studio di Robert fino alle tre di notte. Non mi ricordo tutti i particolari della nostra discussione. Ricordo soltanto che, passando in rassegna gli indirizzi fondamentali dei conflitti nella nostra società, dichiarai:

– La nostra economia, come tu stesso mi dimostri, altro non è che un gioco originale tra imprenditori e consumatori. Posso dimostrarti con un semplice esempio come questo gioco sia ormai condannato. Tu, Robert, sai come tutti i nostri industriali tendano all'automazione completa. Essi la attuano con successo nella realtà. Ad ogni nuova linea automatizzata, migliaia, decine di migliaia di persone vengono gettate per la strada. E divengono dei disoccupati. Volendo pagare di meno ed ottenere di più, i padroni delle aziende prima o poi arriveranno all'automazione completa della produzione.

– E allora? – chiese sarcasticamente Robert.

– Allora, caro mio, l'automazione totale consentirà agli imprenditori di liberarsi completamente del lavoro e delle prestazioni dei lavoratori e di produrre qualsiasi quantità di beni di consumo, ma nessuno potrà acquistarli. Le persone private del loro lavoro non possiedono soldi e di conseguenza non possono acquistare ciò che viene prodotto dalle macchine automatiche.

Robert Glorian si morse il labbro inferiore, si passò lentamente la mano sulla testa imbiancata e disse con convinzione:

– Da ciò si deduce solo una cosa: l'automazione non sarà mai completa. Un gioco del genere non è vantaggioso per i nostri imprenditori, così dotati di iniziativa.

– E qual è quello vantaggioso? – chiesi.

– Un'automazione intelligente, che non escluda, ma al contrario proponga una partecipazione sempre maggiore della gente nella produzione…

Secondo me, era la frase più nebulosa che avesse mai pronunciato Robert Glorian. Egli era un acceso sostenitore del “darwinismo sociale”, secondo cui l'evoluzione ed il progresso dell'umanità dipendono completamente dall'iniziativa privata di ciascuno dei suoi componenti, mentre l'iniziativa stessa viene determinata unicamente dalla propensione dell'uomo all'arricchimento.

Di natura sono scettico e non sopporto i dogmi. Anche se Glorian era il mio migliore amico, sopportavo con fatica gli assiomi a cui era inspiegabilmente giunto. “Questo è vero, questo è falso”, amava dire, ma sia il suo vero che il suo falso stentavano ad entrarmi in testa. I suoi assiomi erano in egual misura comprensibili ed indimostrabili. Probabilmente, tre secoli fa, allo stesso modo gli scienziati ritenevano esatto l'assioma galileiano per cui in tutto l'universo il tempo scorre alla stessa velocità.

La teoria matematica dei conflitti, la teoria dei giochi, la programmazione lineare e dinamica, l'economia matematica erano i cavalli di battaglia di Robert. Egli era sempre presente in tutte le commissioni e comitati addetti ad elaborare le linee economiche e militari per il governo. Ormai non è più un segreto che Robert Glorian fu uno degli autori della relazione sulle basi economiche della produzione di armi atomiche nei tempi in cui la possibilità tecnica e scientifica di creare simili armi non era ancora stata dimostrata.

– Perché la tua Eugene se ne va da sola al night club? - chiesi di punto in bianco.

– Siamo due persone molto diverse. Lei non ama la mia tesi secondo cui ogni comportamento sociale della collettività umana e persino di un singolo individuo può essere descritto con delle equazioni matematiche.

– Ha ragione. Per una persona intelligente ed onesta credo che essa sia ripugnante.

– Eugene è innamorata di Seady While e del suo jazz. Non so di chi altro, – mormorò frettolosamente. Dopo aver fatto un lungo respiro, aggiunse: – Le leggi della natura sono impietose. Ad esempio, a me non piace la legge di Bieau e Savarre sull'interazione dei conduttori lungo i quali scorre la corrente elettrica. Non mi è molto chiaro perché il campo magnetico di un conduttore agisca “da dietro l'angolo” su di un altro. Ma cosa ci vuoi fare: è la natura. Eugene cerca di contestarmi in base al cosiddetto buonsenso. Ridicolo, vero?

– Perché, hai tentato di affrontare il problema dell'automazione completa della produzione anche coi lei?

Robert corrugò la fronte.

– Ha detto che se questo dovesse accadere, moriremmo tutti di fame.

Scoppiai a ridere, e Robert di colpo si fermò in mezzo alla strada ed esclamò:

– Se la pensi come Eugene, affrontiamo il problema seriamente. Viviamo in un'epoca in cui l'ultima parola spetta sempre alla scienza…

Eugene era uscita alle otto di sera e tornò alle quattro di notte. Era un po' euforica, ed il rossetto viola sulle sue labbra carnose era semicancellato. I suoi occhi erano ironici e cattivi.

– Robert, – disse, – ho un'eccezionale dimostrazione del fatto che hai maledettamente ragione! Il jazz di Seady While non suonerà più al “Malta”. Al posto della sua orchestra, in pista hanno installato un organetto elettronico “Époque”, dentro al quale un'orchestra inesistente esegue qualsiasi motivo richiesto esattamente come lo eseguivano Seady While ed i suoi ventisette ragazzi. Immagino quanto maledicano l'ingegnere che ha inventato questa schifezza.

Robert faticò abbastanza per riuscire ad apparire allegro e contento della vita. Sollevò il capo dai fogli sui quali riportavamo con diligenza le nostre equazioni di “bilancio sociale”, e disse:

– Nel nostro Paese non tutti sono così idioti come il proprietario del club “Malta”. Alla fin fine, se non lui, suo figlio o suo nipote comprenderanno che a questo mondo sopravviverà solo chi raggiungerà un equilibrio calcolato con precisione tra l'attività delle macchine e quella dell'uomo. Andrà pur considerato il fatto che se Seady While e la sua orchestra non trovano un lavoro, essi semplicemente rapineranno il padrone del “Malta”!

Robert mordicchiò un po' l'estremità della matita e trascrisse un'altra equazione del “bilancio”.

– Verrà un tempo, – disse Eugene, – in cui saranno proprio quelle scatole elettriche che adesso suonano il jazz al posto di Seady While ad occuparsi della composizione di quei bilanci ed equazioni matematiche.

Robert non l'ascoltava e scriveva rapidamente qualcosa su di un foglio di carta. Eugene sbirciò da dietro la sua spalla le file ordinate di formule matematiche.

– Seady While trova che l'organetto elettronico “Époque” riproduce genialmente le sue esecuzioni. Puoi esserne felice. – L'ultima frase la pronunciò con rabbia palese.

– Era al club? – chiese con indifferenza Robert, proseguendo i calcoli.

– Sì, – rispose Eugene.

– Sarei curioso di sapere cosa ha intenzione di fare per autoconservarsi e lottare. Ha una sola via d'uscita. Superare la macchina ed inventare qualcosa per cui necessiti inventare un'altra macchina. Il progresso della società futura consisterà nella continua competizione degli uomini con le possibilità della macchina. Ciò è facilmente calcolabile con questa equazione…

La moglie di Robert Glorian si calò nella poltrona con un leggero lamento. Mi fece compassione.

– Cosa ne pensate della seguente soluzione: le macchine producono tutto ciò che è necessario per l'uomo, che poi viene distribuito gratuitamente a seconda delle esigenze? – chiesi sottovoce.

Eugene sorrise con sarcasmo, si strinse nelle spalle e fece un cenno verso Robert.

– Allora cesserà il progresso umano. Così almeno afferma mio marito. Affinché la civiltà fiorisca, occorre che gli uomini cerchino sempre di tagliarsi la gola l'un l'altro. Non lo sapeva, forse?

Ora ero sicuro che Eugene odiasse suo marito.

– E' un fatto noto a qualsiasi studente di qualunque college, – borbottò Robert senza distogliersi dai suoi appunti. – Beh, ho finito. Ottantaquattro equazioni lineari.

Si alzò dal tavolo e levò in aria trionfalmente la mano con cinque fogli di carta.

– Domani decideremo chi ha ragione.

– Dimmi un po', sii buono: anche l'amore e l'odio di una persona nei confronti di un'altra persona è possibile esprimerli con l'aiuto di equazioni matematiche? – chiese Eugene guardando Robert dritto negli occhi. Le sue labbra tremavano nervosamente, pronte forse a scoppiare in una risata, o forse in un pianto.

– Sì, è possibile, – rispose categorico Robert. – E' un caso piuttosto limitato e privato. Non riveste importanza sostanziale per l'economia di uno Stato. Anche se…

Ci pensò per un attimo e si rimise alla scrivania.

– Oggi While mi ha detto che se la produzione degli organetti elettronici “Époque” assumerà un carattere di massa, nel nostro Paese non nascerà mai più un buon compositore.

Robert scoppiò in una risata sonora e innaturale.

– Spero che non sarai molto scontenta del fatto che da noi da tempo non ci sia più bisogno di ciabattini geniali, visto che le scarpe che ti piacciono vengono prodotte con successo dalle macchine.

Robert è sempre stato un lavoratore instancabile. Quando Eugene andò a dormire, mi propose con un'aria da cospiratore di elaborare immediatamente un programma per la soluzione delle ottantaquattro equazioni che aveva creato.

– Per mezzogiorno dovremmo farcela. Tra mezzogiorno e le tre la macchina del centro atomico di calcolo è libera. Ci penserà lei a risolvere il problema.

– Cosa vuoi risolvere? – chiesi.

– Voglio calcolare una politica razionale a lungo termine per il nostro Stato nel campo dell'immissione delle nuove tecniche e dell'automazione. In questo gioco ho previsto tutto. Persino l'amore. Persino il tradimento. In fondo, non possiamo non tenere in considerazione questi elementi. L'amore è una fonte che arricchisce lo Stato di nuovi produttori e nuovi consumatori di risorse naturali ed energetiche.

Non badai al cinismo di Robert e mi buttai con foga nella composizione dell'algoritmo e del programma di soluzione del suo sistema di equazioni. Eugene ci portò il caffè, e quando lo bevemmo era ormai giorno. Poi uscimmo ed attraversammo il parco.

Robert, socchiudendo gli occhi, guardò il sole.

– Parola mia, la temperatura di irradiazione di questo astro oggi è superiore ai seimila gradi.

Cercai di immaginare quanto deve essere noioso e rivoltante vivere con un matematico fin nel midollo come Robert. Desiderai di gettare in mare tutti i nostri calcoli e mandare al diavolo il mio amico.

Eric Hanson, l'operatore del computer, dopo aver visto i nostri appunti ed il programma disse che la soluzione del problema poteva essere pronta dopo due-tre ore.

– Siamo al caffè del club “Malta”. Quando è tutto pronto, ci telefoni, – lo istruì Robert.

Dopo la seconda tazza di caffè Robert disse trasognato:

– Com'è bizzarra la vita. Un tempo si pensava che fosse piena di misteri e di percorsi impraticabili. Mentre ad analizzarla bene la si può trasporre in ottantaquattro equazioni differenziali. Stupendo, vero?

Mi strinsi nelle spalle.

Quando terminammo la terza tazza di caffè, apparve Seady While, il direttore dell'orchestra jazz sostituita dalla macchina “Époque”. Non l'avevo mai visto prima, e lo conoscevo solo dalle foto dei giornali. Era decisamente più anziano di come me lo immaginavo.

– Permettete? – chiese, e si sedette al nostro tavolo senza attendere risposta.

Robert, fissando il portacenere di cristallo, borbottò:

– Prego.

– Vorrei parlarle in privato, disse While.

– Non ho nulla da nascondere al mio amico, – rispose netto Robert.

– Come preferisce… Io amo sua moglie, e lei ama me.

– Lo so.

Non un muscolo tradiva Glorian.

– Sono stato licenziato, e dovremo cambiare città, – disse While.

– Dovrete cambiarne molte. Presto la macchina “Époque” verrà prodotta in serie.

– E' probabile che passino alcuni anni prima che il jazz automatico penetri nei villaggi abbandonati.

La voce di While era un poco tremolante.

– Mi occuperò io stesso della produzione massiccia delle macchine “Époque”, – disse Robert con nonchalance.

– Ho alcune idee concernenti la musica che lei e la sua maledetta matematica non potrete trasformare in macchine. Robert si animò e mi guardò fisso negli occhi.

– Non è forse una dimostrazione convincente delle mie opinioni? Il progresso quale risultato della lotta per la sopravvivenza, per l'autoconservazione, per la continuazione della specie, quale competizione tra l'uomo e la macchina. Bravo, While, è degno di Eugene!

Dopo queste parole avrei voluto colpire Glorian con un pugno in faccia, ma in quel momento giunse il cameriere per avvisare Robert che era desiderato al telefono.

– Ecco la soluzione! Sentiremo ora il responso inesorabile della logica!

Si alzò e fece per andare. Poi d'improvviso si sedette di nuovo, si appoggiò allo schienale della poltrona e ridendo si rivolse a me:

– Senti, vai tu, mentre io chiarisco una serie di piccolezze di carattere pratico con il signor While.

Sollevai la cornetta nello studio del direttore del club, e a lungo non mi rispose nessuno. Si sentivano rumori, urla, imprecazioni, qualcuno accusava qualcun altro di qualcosa, qualcuno cercava di dimostrare qualcosa con decisione e fermezza. Sentii più volte il nome “Robert Glorian”. Poi sentii la voce arrabbiata di Eric Hanson, l'operatore del computer.

– Pronto, Glorian, è lei? Vada al diavolo!

– Non sono Glorian. Mi ha incaricato di sapere cosa ha risposto la macchina.

– Che sia maledetto quel vostro problema! Per colpa sua dovremo stare fermi nuovamente per ventiquattr'ore!

– Perché? – chiesi stupito.

– La macchina si è rotta.

– Non capisco. Cosa c'entra il problema?

– La macchina si rompe ogni qualvolta il problema non presenta soluzione. Lei mastica un po' di matematica? Esistono problemi insolubili… Rompere le macchine calcolatrici ed elettroniche usando questi problemi è la cosa più semplice. Glorian avrebbe dovuto saperlo…

– Eugene mi lascia oggi, – dichiarò impassibile Robert al mio ritorno al tavolino. – E' persino un bene che tutto sia finito così rapidamente e con semplicità. Non ci siamo mai capiti, noi due.

Beveva il cognac a piccoli sorsi e pasteggiava col caffè.

– Robert, non ti pare che a volte anche tu non capisca tutto?

Mi sedetti.

– Ti hanno comunicato la soluzione del problema dell'automazione ottimale? – chiese. La sua voce suonava fredda ed ufficiale.

– La soluzione non esiste.

Robert si fece scuro in viso. Io ripetei:

- La soluzione non esiste, per cui la macchina si è rotta.

– Non stai scherzando?

– Nient'affatto… Voglio del cognac.

Rimanemmo a lungo seduti in silenzio. Dietro le finestre imbruniva. Qualcuno accese il giradischi “Époque” e questo, esattamente come l'orchestra jazz di Seady While, iniziò ad eseguire varie danze e melodie popolari. L'orchestra non c'era. La musica fluiva dai recessi dell'anima di fibre di vetro di una lucida scatola nera collocata su uno zerbino rosso in mezzo alla pista deserta. Robert fissò la scatola e poi disse:

– In trent'anni non mi sono mai sbagliato. In matematica, ovviamente. Gli errori nella vita sono un'altra cosa… Vado a prendere una boccata di aria fresca.

Non ricordo quanto tempo rimasi ad ascoltare quella musica morta. Quel giorno non avevo mangiato nulla ed avevo bevuto molto. Quando il caffè si vuotò, mi si avvicinò il cameriere e mi sfiorò la spalla.

– Oggi anticipiamo la chiusura. Siamo in lutto…

– Chi è morto? – chiesi con indifferenza.

– Due ore fa è capitata una disgrazia al famoso scienziato Robert Glorian, nostro cliente abituale.

Il mattino seguente lessi nei giornali ciò di cui vi ho parlato all'inizio di questo racconto.

[Da “Fantastika, 1964 god”, Moskva, Molodaja gvardija, 1964, pp. 179-189. Traduzione di Mark Bernardini, pubblicata in “Rassegna Sovietica”, 1987]