sabato 5 gennaio 2008

Ricordi di un comunista italiano 1

Di Graziano Zappi "Mirco"

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1945 ... DOPO L'APRILE

Di nuovo sui banchi di scuola

La guerra partigiana è finita. Abbiamo vinto. I tedeschi sono tornati sconfìtti oltre le Alpi, ed il fascismo italiano è crollato. In Italia si è formato un Governo di unità nazionale antifascista. Io sono ritornato in famiglia a Bubano, il mio piccolo paese nella Bassa Imolese. Ed ora che farò?

Quando nel gennaio '44, all'età di anni sedici, mi unii al gruppo partigiano che si insediò a Cortecchio sul Monte Faggiola, stavo frequentando la seconda classe del Liceo Classico "Benvenuto Rambaldi" di Imola. Ed ora mio padre, un artigiano addetto alla lavorazione della canapa presso le famiglie dei contadini, dice che come "partigiano smobilitato" devo assolutamente riprendere gli studi. Lui è un socialista erede dell'insegnamento di Andrea Costa, secondo il quale "il riscatto del lavoro" si deve ottenere mediante le lotte sindacali e politiche ma soprattutto con l'istruzione.

Così nell'estate del '45 ho preso lezioni private di greco e di latino, di filosofia, di fisica e matematica, e nella sessione autunnale mi sono presentato agli esami di riparazione ottenendo la promozione in terza classe. Devo ammettere che la Commissione d'esami non fu particolarmente severa, considerando che si trattava di uno dei pochi studenti del Liceo Classico d'Imola che aveva preso le armi per combattere l'occupante straniero e la dittatura fascista. Il Preside, il professor Mario Mariani, che avevo sempre visto "in camicia nera" nelle varie ricorrenze del regime fascista, si era ora iscritto al partito socialista ed incontrandomi nei corridoi mi elargiva un ampio sorriso di benevolenza.

Ho dunque preso posto sui banchi della terza classe del Liceo Classico "Benvenuto Rambaldi" di Imola e sono oggetto della curiosità dei compagni di scuola essendo l'unico di loro ad essere stato un partigiano di montagna e un gappista di città.

C'è chi mi osserva con simpatia, chi con antipatia e chi con indifferenza. Quasi tutti provengono da famiglie benestanti. Sono figli di medici, avvocati, insegnanti, commercianti, agricoltori. Pochi provengono da famiglie di operai, artigiani e bottegai.

La vita politica democratica è appena agli inizi. I sindacati si stanno formando, i partiti si stanno costituendo, e ci sono i primi tentativi di associarsi in cooperative. Oltre a me, c'è solo Corso Bacchilega a parteggiare per i comunisti. C'è poi qualche simpatizzante dei socialisti, ma per lo più le simpatie sono indirizzate verso i democristiani, i repubblicani, i liberali. Naturalmente c'è anche chi nutre nostalgie per il passato regime fascista ma per il momento non si schiera e fiuta l'aria che spira attorno a sé.

Gli insegnanti si attengono alla cosiddetta "regola del buonsenso" e nell'esercizio delle loro funzioni si considerano "homines super partes". Non parlano di politica fra di loro e tanto meno osano farlo con gli studenti. Svolgono i loro programmi senza esprimere giudizi né sul fascismo né sull'antifascismo né sul movimento partigiano. Dal fascismo sono stati educati, e di antifascismo non se ne sono occupati.

L'ex docente di greco, il professor Corso Buscaroli, che s'era compromesso con la Repubblica fascista di Salò, è ora in carcere in attesa di processo, mentre l'ex docente di filosofia, il professor Giovanni Murgia, che aveva collaborato con la Resistenza aderendo al Movimento di Giustizia e Libertà, se ne è andato alla metà dell'anno scolastico per tornarsene ai patri lidi in terra Pugliese.

Il docente di letteratura italiana, di nuova nomina, è un giovane appena laureato originario di Castel Del Rio. Tiene le lezioni sbirciando di continuo i foglietti di un taccuino dove sono gli appunti da lui presi sui banchi universitari. Si professa seguace di Benedetto Croce e simpatizza per la Democrazia Cristiana. Il suo eloquio è spesso per noi troppo eccelso e talvolta dobbiamo nascondere uno sbadiglio.

Ci ha dato un tema da svolgere in classe: La Patria!

Un tema impegnativo dopo quanto era accaduto: il fascismo, la guerra, l'occupazione tedesca, la repubblica sociale fascista, il movimento partigiano. Io scrissi alcune considerazioni sugli eventi pregressi concludendo che per me "la Patria" era la terra ed il popolo che io avevo difeso coi miei compagni partigiani in montagna e in pianura ed in città combattendo contro l'occupante tedesco e contro la dittatura fascista.

Fu così che in fondo allo "svolgimento" trovai che il professore aveva scritto in rosso la cifra "quattro". Riconsegnando il compito chiesi qualche delucidazione sul perché di quella insufficienza. Mi risposte garbatamente che probabilmente non avevo compreso che si trattava non di un articolo giornalistico, ma di un tema di italiano da svolgere come "studente di terza classe di un Liceo Classico". Avevo dunque parlato eccessivamente di politica omettendo l'insegnamento di Dante, Petrarca, Foscolo e Carducci, che "quanto a Patria ne sapevano molto più di me".

Anche con il nuovo docente di greco e di latino, il professor Spadoni, faticavo a collimare. Egli non nascondeva di provare simpatia per certuni ed indifferenza per cert'altri. E' vero che io non sopportavo il suo "odor di sacrestia", ma è anche vero che zoppicavo alquanto nel decifrare Omero e Virgilio e spesso naufragavo tra i flutti degli "aoristi" greci ed i "piedi" latini.

Il docente più disponibile verso gli studenti era il professore di storia dell'arte, il pittore Anacleto Margotti. Entrava in aula e mostrava le riproduzioni dei dipinti che poi illustrava, e la settimana dopo esigeva che fossimo noi a dire il titolo e l'autore di quelle riproduzioni. Il voto dipendeva dal numero delle risposte più o meno esatte.

Il docente di chimica, il professor Bortolotti, era invece da noi considerato "un dimezzato" essendo la sua vita divisa a metà fra la farmacia di sua proprietà e la cattedra al Liceo. Entrava in classe, firmava il registro e s'accostava alla lavagna, e bofonchiando e bofonchiando, scriveva formule, formule e formule. Noi lo osservavamo riportando sui quaderni quelle lettere e quelle cifre: H, CO, Na, 2, O, Bi, Fe, ecc., ecc. Poi ci interrogava e sempre bofonchiando ci chiedeva di riscrivere quelle formule. Soltanto più tardi nella vita mi resi conto che H2O era l'acqua, che NaCl era il sale da cucina, che NaHCO3 era il bicarbonato di sodio, che CO2 era l'anidride carbonica, che C2H5OH era l'alcool, e che c'era quindi un nesso fra le formule chimiche e la vita circostante, tra i simboli e la realtà.

Con interesse maggiore seguivo le lezioni del professor Galassi docente di matematica e fisica, anche se la mia attenzione era rivolta agli esperimenti che lui eseguiva con i suoi strumenti per spiegare la forza di gravità, il magnetismo, l'elettricità e altri fenomeni fisici, e non alle lunghe equazioni algebriche che comparivano alla lavagna.

Agli esami del giugno '46 non ottenni la promozione e dall'ottobre '46 al giugno '47 dovetti rifrequentare la terza classe del Liceo Classico "Benvenuto Rambaldi" di Imola, questa volta con promozione finale.

La mia vita di studente liceale continuò a scorrere come l'anno precedente. Percorrevo al mattino in bicicletta i nove chilometri della via Selice che separano Bubano da Imola e li ripercorrevo nel tardo pomeriggio per tornarmene a Bubano.

Per il pranzo mi fermavo talvolta in una "osteriola" del centro cittadino consumando un paio di panini imbottiti, preparati da mia madre, innaffiandoli con una "gazzosa" il cui costo compensava l'oste per il posto che occupavo. Il giorno che volli risparmiare i soldi della "gazzosa" per pagarmi l'ingresso al Cinema Centrale dove c'era un film di guerra, fui redarguito dall'ostessa: "Ehi, muratore, che si fa il muro a secco?".

Dovetti ordinare la "gazzosa" e rinunciare al film, ma da quel giorno, quand'era bel tempo, rinunciai all'osteriola sostituendola con una panchina presso la Fontanella del Parco delle Acque Minerali al Monte Castellacelo. Prendevo freddo, ma in compenso potevo pagarmi il biglietto d'ingresso al Cinema Centrale.

Al "Fronte della Gioventù"

Nei primi tempi del Dopoguerra, oltre ad occuparmi degli studi, mi impegnai in quella che successivamente è stata chiamata "la società civile". Fui eletto segretario del Circolo del Fronte della Gioventù del Comune di Mordano e come tale facevo parte del Comitato di Liberazione Nazionale che assolse le funzioni della Pubblica Amministrazione fino alle elezioni comunali del 10 marzo 1946.

Il Fronte della Gioventù organizzava giovani e ragazze indipendentemente dalla loro appartenenza partitica e doveva occuparsi della loro educazione alla vita democratica promuovendo iniziative tendenti a coltivare ideali di libertà politica e di giustizia sociale. Ma dopo il cataclisma della guerra, dopo tante rovine, dopo tanti lutti, dopo tanta fame, dopo tante privazioni, la gioventù desiderava una cosa soltanto: divertirsi, impegnarsi nel ballo, nello sport e nell'amore. Dovetti perciò promuovere prevalentemente iniziative tendenti a realizzare tali aspirazioni. Per le feste da ballo dovevo stipulare i contratti con le orchestre, far stampare i manifesti in tipografia, assicurare le provviste del buffet, garantire le pulizie della pista da ballo nella sala adiacente alle scuole elementari.

C'era dunque molto da fare, e per fortuna c'erano le compagne dell'UDI, l'Unione Donne Italiane, e dell'ARI, l'Associazione Ragazze Italiane, che mi davano una mano. Le feste da ballo riuscivano bene, e durante le feste nascevano gli amori.

Sul piano propriamente culturale organizzai dei corsi serali per chi era arrivato solo alla terza classe e voleva ottenere la licenza di quinta elementare. Riuscii inoltre a far soggiornare in paese per una decina di giorni la Filodrammatica ambulante della famiglia Sarzi, proveniente da Reggio Emilia, che riscosse uno strepitoso successo mettendo in scena drammi sociali come "I figli di nessuno" dello scrittore anarchico Pietro Gori e "Povera Gente" dello scrittore russo Massimo Gorki.

Sul piano sportivo promossi un incontro di pugilato, uno di lotta grecoromana ed una gara ciclistica. Riuscii pure a mettere assieme una squadra di calcio. Giocammo una sola partita: Bubanesi contro Mordanesi. Il campo sportivo era presso il fiume Santerno ed era dissestato dalle bombe sganciate dagli aerei alleati. Io mi adoperai al massimo come "attaccante", ma la Squadra Bubanese fu vergognosamente sconfitta dalla Squadra Mordanese.

Per molti anni ho ricordato quella mia attività di "impegno civile " come Segretario del Fronte della Gioventù. E non potevo davvero dimenticarmene. Ogni volta che in vita mia ho dovuto richiedere in Tribunale un Certificato Penale, vi ho trovato registrata una "sanzione" risalente a quell'epoca: una contravvenzione "per aver organizzato una pubblica festa da ballo senza la preventiva autorizzazione dell'Autorità di Pubblica Sicurezza".

Quanto all'amore, non posso tacere che un gruppo di esperti amici bubanesi decise di "svezzare l'inesperto ragazzino-partigiano" portandolo un pomeriggio "a casino" in quel di Massalombarda. Un'andata e ritorno in bicicletta.

Fu quella "la prima volta", e non fu un'esperienza molto esaltante.

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DUE GIUGNO 1946: UNA RIUNIONE IN DIALETTO

La mia prima riunione la tenni nell'Aprile 1946 nel corso della campagna per l'elezione dell'Assemblea Costituente e per il Referendum su Monarchia o Repubblica. Il voto era fissato per il 2 giugno 1946.

Ero stato nominato di recente segretario della Sezione del PCI di Bubano, e come tale dovevo parlare in una casa di campagna ad un pubblico di contadini. Si trattava di mezzadri e coltivatori diretti di orientamento cattolico ed era quindi un compito di grande responsabilità.

A persone con appena la terza o al massimo la quinta classe elementare, appena uscite dal regime fascista e dalla guerra, dovevo spiegare che cos'era una Assemblea Costituente, che cos'era una Costituzione, perché bisognava votare comunista, ed infine perché una Repubblica era meglio di una Monarchia.

Furono per me giorni di grande tensione intellettuale. Lessi molti articoli su "l'Unità" e su "Rinascita". A pranzo e a cena, senza assaporare il cibo, sbirciavo il giornale sotto le occhiate esterrefatte della nonna e i brontolìi della madre. Presi tanti e tanti appunti. E numerai accuratamente i foglietti.

Giunse finalmente la sera della riunione.

Il cuore mi batteva forte quando arrivai nella grande casa colonica di Via Canale dei Molini. Lo stanzone che serviva da cucina e da sala da pranzo era strapieno di gente: uomini • e donne, vecchi e giovani, bambini d'ogni età. Nell'enorme focolare scoppiettavano le scintille e la fiamma ravvivava la fioca luce sparsa dalla lampada a petrolio pendente dal soffitto.

Mi fu data la parola. Cominciai a rigirare fra le mani le numerose paginette degli appunti ma distinguevo a stento le parole che vi erano scritte.

Rigiravo i foglietti ed osservavo i volti dei miei ascoltatori. Era tutta gente che parlava in dialetto, nel locale dialetto romagnolo, mentre le parole dei miei foglietti erano tutte in italiano.

Capii che se avessi voluto farmi comprendere da quella gente, se avessi voluto ottenere la loro fiducia, se volevo farmi considerare uno di loro, avrei dovuto parlare come loro, e cioè in dialetto.

Misi allora i foglietti in tasca, guardai i volti presenti nello stanzone, volti segnati dalla fatica dei campi e delle stalle, e cominciai a parlare, a parlare in dialetto romagnolo.

Non fu certo facile pronunciare in dialetto parole come Referendum, Elezioni, Assemblea, Costituzione, Monarchia, Repubblica, Democrazia, Dittatura, Libertà, Giustizia, Pace. Bisognava tradurre quelle parole dall'italiano nel dialetto romagnolo, spiegarne il significato perché durante il fascismo tali parole non erano di uso comune.

Molte di quelle parole le avevo incontrate al Liceo Classico in lingua greca. Attraverso il latino esse erano passate nella lingua italiana, ed ora io le dovevo far trasmigrare nel dialetto romagnolo. Spiegai che occorreva votare il simbolo del PCI per eleggere all'Assemblea Costituente quelli che avrebbero fatto scrivere nella legge costituzionale i sacrosanti diritti dei "lavoratori del braccio e della mente". Cercai pure di far comprendere cosa significava la "democrazia progressiva" di cui aveva parlato il nostro capo, che si chiamava Palmiro Togliatti e che era arrivato da Mosca, la capitale dell'Unione Sovietica.

Ricordai le responsabilità di Casa Savoia nell'aver favorito l'ascesa del fascismo al potere e nello scatenamento della guerra che aveva causato tanti disastri e tanti lutti. Aggiunsi che un Presidente della Repubblica si poteva sostituire alla scadenza del mandato, mentre per cambiare un Re occorreva una rivoluzione. E poi c'era il principio ereditario che avrebbe potuto portare sul trono un figlio di Re di scarso comprendonio.

Al termine della mia mezz'oretta di discorso restarono tutti in silenzio.

Nessuno interloquì.

Il capofamiglia si alzò, sussurrò "con permesso" e uscì rientrando poco dopo con due fiaschi di vino. Le donne si affrettarono a distendere una grande tovaglia di lino bianco sul lunghissimo tavolone ed a predisporre i bicchieri.

Bevemmo alla salute dei presenti ed alle fortune del popolo italiano. In dialetto romagnolo, naturalmente. E volli concludere con un appello all'unità tra chi lavora, fra operai, braccianti, mezzadri, coltivatori diretti. Ricordai loro il brano manzoniano dei capponi, recati da Renzo all'avvocato Azzeccagarbugli, che per strada si beccavano tra loro ignari della sorte che li attendeva. Non si doveva fare come loro.

Il 2 giugno 1946 ci furono le elezioni ed il referendum.

Con nostra grande sorpresa il PSIUP ottenne più voti del PCI. Eppure i comunisti erano stati molto più numerosi dei socialisti sia nelle carceri fasciste sia nelle formazioni partigiane! E i tanti voti raccolti dalla Monarchia ci gettarono in uno stato di sconforto. La Repubblica si affermò di stretta misura. I suggerimenti bisbigliati dai parroci nelle sacrestie e nei confessionali erano stati più efficaci dei discorsi da noi pronunciati in dialetto o in italiano nelle riunioni tenute nelle case coloniche o sulle pubbliche piazze.

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DAGLI LAMPO, DAGLI AL COMUNISMO!

Anche a Bubano, piccolo paese con un migliaio di abitanti, si ripercuoteva tutto ciò che accadeva nel mondo e in Italia.

Tra il '46 e il '48 l'inglese Churchill parlò di "cortina di ferro", l'americano Truman denunciò "il pericolo comunista", il sovietico Stalin istituì il "Cominform", e fu l'inizio della "guerra fredda".

In Italia la DC di De Gasperi si schierò con gli Stati Uniti d'America ed i comunisti ed i socialisti furono esclusi dal Governo. Il PSIUP si divise dando vita al PSI di Nenni favorevole all'unità d'azione con il PCI, ed al PSLI di Saragat fiero avversario del comunismo. Nel PCI si manifestarono tendenze dialoganti "di tipo togliattiano" ispirate dalle idee del segretario generale Palmiro Togliatti e tendenze settarie "di tipo secernano", ispirate da certe convinzioni del vice segretario generale Pietro Secchia.

Ed ecco quanto accadde a Bubano.

Nell'estate '46 la sezione socialista promosse un comizio nella piazza centrale del paese.

Noi comunisti, dando prova di spirito unitario, accorremmo numerosi sotto il balcone dell'Ufficio Postale dal quale parlava Anselmo Martoni, sindaco di Molinella.

L'oratore si era evidentemente schierato con Saragat ma noi non lo sapevamo.

Grande fu perciò la nostra sorpresa quando lo sentimmo rivolgere aspre critiche al Paese del Socialismo, all'Unione Sovietica, dove secondo lui c'era una dittatura che privava i cittadini del grande bene della libertà. E non si fermò lì. Aggiunse anche che noi comunisti italiani praticavamo una politica succube del Cremlino moscovita.

Noi, sempre per lo spirito unitario, non lo fischiammo, ma neppure lo applaudimmo. E ce ne andammo senza rivolgere all'oratore le solite parole di elogio al momento del commiato.

Ma la cosa non poteva finire lì. Nel Comitato di Sezione ci arrovellammo per alcune sere in accalorate discussioni alla ricerca di un qualche modo d'esprimere il nostro punto di vista su quanto detto dal sindaco di Molinella.

E finalmente, a me, segretario di sezione, venne un'idea. Chiamai il compagno Paolino, di professione barbiere, ma anche ottimo pittore, e gli suggerii di realizzare una vignetta. Durante la Resistenza Anselmo Martoni aveva assunto il nome di battaglia di "Lampo"-. Ebbene, Paolino avrebbe dovuto disegnare un cane mastino, con il nome di Lampo scritto sul collare, mentre ringhiava contro un manifesto su cui c'era una bandiera rossa con la falce e martello. Paolino aggiunse di suo il guinzaglio tenuto dalle mani inanellate di un panciuto capitalista con in capo un cilindro su cui appariva il simbolo del dollaro.

Sotto la vignetta scrivemmo "Dagli Lampo, dagli al comunismo!" e la fissammo sul Giornale Murale collocato sulla Casa del Popolo, assieme ad un mio articoletto di commento.

I comunisti bubanesi si sentirono rincuorati, mentre i socialisti se ne lagnarono presso la Direzione Imolese del PSI, la quale formulò una vibrata protesta al Comitato della Zona Imolese del PCI, dandone notizia sul proprio settimanale "La lotta".

Fu così che al segretario della Sezione comunista di Bubano cioè al sottoscritto, giunse una lettera su carta intestata "Zona Imolese del PCI", datata 27.08.46, firmata dal segretario Veraldo Vespignani, in cui si criticava il settarismo che impregnava sia la vignetta che il commento sottostante, e invitava a togliere immediatamente il tutto dal Giornale Murale, a cessare le polemiche e ad uniformarsi alla politica unitaria perseguita dal PCI nei confronti dei socialisti.

Nell'Attivo di Sezione noi discutemmo allora di tutto l'accaduto, leggemmo la lettera del Segretario di Zona, ci facemmo l'autocritica, e ci adeguammo alle direttive dell'istanza superiore. E del resto non si poteva fare altrimenti, perché la vita delle organizzazioni comuniste era allora tassativamente regolata dal principio del "centralismo democratico".

Quando però nel 1947 giunse la notizia che Anselmo Martoni, sindaco di Molinella, aveva seguito Saragat, operando la scissione del PSIUP e dando vita al PSLI, e che stava muovendosi verso la scissione della CGIL, qualcuno commentò: "Beh, forse, però, non avevamo tutti i torti".

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1947 - DAL BORGO ALLA CITTA'

Nell'autunno del '47, all'età di vent'anni, si verificò nella mia vita il grande evento dell'iscrizione alla Facoltà di Filosofia dell'Università di Bologna.

Perché proprio filosofia? Al liceo, da studente, avevo letto Hegel. In montagna, da partigiano, avevo letto Marx. E meditando sulle opere di Dante e di Leopardi, m'ero posto interrogativi sulla vita e sulla morte, su Dio e l'Universo, su l'Eterno e l'Infinito, e sulle vicende della storia umana. E così avevo scelto filosofia e non ingegneria, come avrebbe desiderato mio padre.

Fu un evento importante non solo per me, ma per l'intero mio paese, per Bubano, perché ero il terzo giovane della borgata a iscriversi all'Università. Ero stato preceduto dal figlio di un mediatore di poderi e dalla figlia di un mediatore di bovini.

Tale evento poneva alla mia famiglia notevoli problemi. Bologna distava da Bubano quaranta chilometri ed era raggiungibile solo con l'autocorriera. Il soggiorno sarebbe stato assai costoso. Per fortuna giunse in soccorso il mio "ruolo" di segretario di una sezione comunista. A quei tempi tutte le sezioni comuniste facevano direttamente capo alla Federazione provinciale di Bologna. Il responsabile d'organizzazione, Giorgio Scarabelli, al termine di una riunione, probabilmente su suggerimento dei compagni bubanesi, mi propose di frequentare un corso di due mesi alla Scuola di Partito situata a Bologna in via Santo Stefano 56 e io accettai.

Alla scuola comunista di Via Santo Stefano

L'ingresso di un grande palazzo antico immetteva in uno spazioso cortile ove al sabato e alla domenica si tenevano gli spettacoli del Teatro "Arena del Corso". Sulla sinistra entrando c'era il magazzino di bevande e dolciumi che il Comitato Provinciale del Fronte della Gioventù forniva ai Circoli locali ottenendo un margine di guadagno per finanziare la propria attività politico-culturale. Sulla destra erano ubicate le aule e i dormitori della Scuola provinciale del PCI in grado di ospitare una ventina di allievi per turno. I pasti si consumavano alla Mensa della Federazione Comunista in via Barberia, 4.

I corsi avevano una durata mensile o bimensile, e consistevano in una serie di lezioni sulla storia d'Italia: il Risorgimento, la Questione meridionale, il Fascismo, la Seconda guerra mondiale, la Resistenza. C'erano inoltre lezioni sulla storia del PCI, su come organizzare il partito di tipo nuovo, sui suoi rapporti con le organizzazioni di massa intese come cinghie di trasmissioni, e c'erano conferenze sulle questioni dell'attualità politica italiana ed internazionale. Per lo studio individuale ci si serviva di dispense e poi si teneva una discussione collettiva coordinata dal relatore.

Il direttore della Scuola fu in un primo tempo Lanfranco Bugatti. Aveva una trentina d'anni. Durante il fascismo era stato costretto ad interrompere gli studi di Ingegneria a causa della condanna a tre anni di carcere e a due anni di vigilanza speciale inflittagli dal Tribunale Speciale per "attività comunista" all'interno dell'Università. Aveva preso parte attiva al movimento partigiano e nel dopoguerra gli era stata affidata la responsabilità della Sezione Stampa Propaganda della Federazione comunista. Si distingueva per la notevole preparazione culturale, la disponibilità umana e la modestia. In seguito sarebbe divenuto assessore nella Giunta comunale del sindaco Giuseppe Dozza, ma poi, a metà degli anni sessanta, con il subentro del sindaco Guido Fanti, avrebbe lasciato l'attività politica per occuparsi della gestione di un distributore di benzina. Quando morì, l'orazione funebre fu pronunciata dal compagno Angelo Piazzi, ex sindaco di Casalecchio di Reno. "Dovresti chiedergli scusa a nome del Partito" - gli suggerii io. "E perché?"- chiese lui. "Meritava qualcosa di più di un distributore di benzina" - mormorai. "Eh sì... hai ragione tu" - borbottò Angelo. Ma non chiese scusa.

Collaboratore di Bugatti nella conduzione della Scuola era Andrea Bentini che gli successe poi come direttore. Della medesima età, aveva dovuto anch'egli abbandonare gli studi universitari di Farmacia in seguito alla sentenza del Tribunale Speciale che lo aveva condannato per "costituzione del partito comunista" a otto anni di carcere, dal quale era uscito dopo la "caduta del Fascio" del 25 luglio '43. Durante la Resistenza era stato ufficiale di collegamento del CUMER. Nel dopoguerra fece parte del Comitato Federale e venne impegnato dapprima nella "Stampa Propaganda" e quindi nella "Formazione Quadri". Poi d'un tratto nella sua carriera politica si verificò uno strappo. Nel giugno '49 fu escluso dal Comitato Federale e dalla direzione della Scuola dì Partito e fu spostato alla Cooperativa di Consumo "La Bolognese" di cui era presidente il professor Ersilio Colombini, che poco tempo dopo venne espulso dal PCI con motivazioni risalenti al suo comportamento durante gli estenuanti interrogatori da lui subiti in carcere durante il fascismo.

Negli anni successivi incontrai più volte Andrea Bentini per strada, ma egli non mi parlò mai delle sue vicissitudini partitiche. Si era iscritto al PSI. Quanto alla sua rottura con il PCI qualcuno disse che non aveva condiviso l'espulsione del Colombini, qualcun altro affermò che aveva biasimato le critiche rivolte dal Cominform e dal PCI al Maresciallo Tito quando questi si era reso autonomo dall'Unione Sovietica, e infine ci fu chi sostenne che aveva fornito "notizie riservate su esponenti del PCI" ai Servizi d'informazione jugoslavi.

Alcuni anni dopo lo trovai in condizioni di grave disagio economico. Si era addentrato in alcune operazioni commerciali malriuscite, aveva dovuto svendere l'appartamento della madre e la ricca biblioteca dello zio Genuzio Bentini, un famoso avvocato del Foro bolognese di idee socialiste che era stato presidente della Provincia e deputato al Parlamento. E a tutte queste tristi peripezie Andrea Bentini non sopravvisse a lungo.

La Scuola comunista di via Santo Stefano era frequentata da compagni e compagne che in genere provenivano dall'esperienza resistenziale: operai, braccianti, mezzadri, impegnati nell'attività di partito, delle leghe sindacali, delle cooperative, delle amministrazioni comunali. Il grado d'istruzione oscillava in genere fra la terza e la quinta elementare. Qualcuno possedeva una licenza o un diploma di una Scuola o di un Istituto di avviamento professionale. La voglia d'apprendere era tanta, la sete di cultura era enorme. E si studiava, si discuteva, si imparava a leggere, a scrivere, a parlare. Da quei Corsi di Partito sono scaturiti sindaci, assessori, dirigenti di sindacati, di cooperative, di organizzazioni democratiche.

Guardiano notturno

Al termine del corso appresi che il Fronte della Gioventù cercava un guardiano notturno per il proprio magazzino di Via Santo Stefano. Mi feci avanti e fui accettato. I gestori furono ben lieti di poter disporre per l'occorrenza di un ex partigiano, tanto più gappista, ed io fui contento di poter usufruire di un alloggio gratuito. Mi mostrarono la branda con il materasso e le coperte e mi consegnarono una pistola Beretta calibro sette e quarantacinque da tenere sotto il cuscino "per ogni evenienza", nel caso ci fossero stati tentativi di rapina.

Mi mostrarono i valori da custodire: bottiglie di vini e di liquori, scatole di cioccolata e di caramelle, pacchi di caffè, di biscotti e pasticcini.

L'alloggio notturno l'avevo dunque assicurato e per i pasti mi arrangiavo con quanto portavo con me da casa il lunedì, e con ciò che offrivano a buon mercato le mense della Federazione Comunista e dell'Università . Per le tasse ed i libri mi venne in soccorso un decreto legge approvato dal Governo, quello di unità nazionale antifascista antecedente alla cacciata dei comunisti e dei socialisti, con il quale si concedeva un sussidio di lire 40.000 all'anno per la durata di un corso di laurea agli studenti in possesso del Certificato di combattente partigiano rilasciato dal Distretto Militare.

Potevo così frequentare l'Università senza pesare eccessivamente sul bilancio famigliare.

Una pagina del "Diario"

Dicembre. Mi trovo nel Magazzino della Cooperativa del Fronte della Gioventù di Via Santo Stefano a Bologna. Ho consumato la cena sul tavolo del Direttore, ricoperto di scartoffie. Giunge il rombo delle auto in transito sulla strada, il suono vespertino delle campane delle chiese circostanti e dal piano di sopra arriva la voce di un radiocronista sportivo.

Stamattina all'Università ho assistito a una lezione di economia politica sulla teoria ricardiana della rendita. A uno studente che illustrava la tesi del Professor Del Vecchio, liberale, secondo cui il valore di una merce è determinato dal bisogno più o meno grande che ne hanno gli uomini, il Professor Paolo Fortunati, comunista, opponeva la tesi marxiana che la genesi del valore va ricercata nell'attività lavorativa degli uomini.

Ho ascoltato pure una lezione di Filosofia Teoretica. Il Professor Giuseppe Saitta, seguace di Giovanni Gentile, ha parlato dell'Atto, del rapporto Indeterminato - Determinato, Infinito - Finito, Dio - Mondo, e poi ha chiesto a uno studente: "Le è chiaro? Lei che ne pensa?". E lo studente ha risposto: "Non mi è chiaro chiaro". Al che il professore ha borbottato: "Lei non deve amare la filosofia. Ma che Facoltà fa?" "Lettere" - ha sussurrato lo studente. Ed il professore, implacabile: "Credevo facesse Veterinaria". Io ho preso il coraggio a quattro mani ed ansimando ho bisbigliato: "Ma professore, è il non aver chiaro queste cose che fa amare la filosofia". E tutto è finito lì. Il gentiliano professor Saitta è sceso dalla cattedra e se ne è andato.

Nel pomeriggio mi sono recato all'Istituto dei Ciechi in Via Arienti da due compagni d'Università, ambedue non vedenti dalla nascita. Vasco è figlio di un mezzadro di Pistoia, è un giovane tranquillo, paziente. E' cattolico e comunista. Agostino ha il padre impiegato statale a Roma, ed è nervoso, iroso, ironico, a volte offensivo. Ha scritto un romanzo, da lui ritenuto un capolavoro, che non è altro che un groviglio di amori boccacceschi. Ho stretto con loro rapporti d'amicizia e leggo loro a voce alta qualche testo relativo alle lezioni che assieme frequentiamo.

Qui nel Magazzino del Fronte della Gioventù le scaffalature sono semivuote. Forse è vero quel che si dice, e cioè che quest'attività del Fronte della Gioventù è in via di esaurimento.

Prima di coricarmi sfoglio le pagine di "Rinascita", del "Calendario del Popolo", e del "Politecnico". La branda mi ricorda che ieri sera è stata qui con me G., una compagna del Sindacato Coloni Mezzadri che ho conosciuto alla Scuola di Partito.

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1948 - UN ANNO DENSO DI EVENTI

L'anno 1948 viene ricordato nella storia d'Italia per due date significative: il 18 Aprile, giorno delle elezioni che segnarono la schiacciante vittoria della Democrazia Cristiana sul Fronte Democratico Popolare, ed il 14 luglio, giorno dell'attentato a Palmiro Togliatti segretario generale del PCI.

Nella mia vita personale il 1948 fu segnato dai soggiorni politici e culturali nelle città di Genova in marzo, di Firenze in Aprile, di Venezia in Giugno, di Roma in settembre e di Napoli in Novembre. Fu anche l'anno dell'appassionante lettura delle "Lettere dal carcere" di Antonio Gramsci, della morte del nonno e di un soggiorno lavorativo al mare.

Ma procediamo con ordine seguendo il "Diario".

Gennaio

Sono stato sostituito nel ruolo di segretario della Sezione comunista di Bubano. Mi sono iscritto a Bologna alla Cellula comunista universitaria che ha sede in via Altabella. Sono stato cooptato nella Commissione Giovanile della Federazione Provinciale del PCI, diretta da Aroldo Tolomelli, chiamato da partigiano col nome di battaglia "Ernesto" entro la città di Bologna e con il nomignolo di "Fangein" nella Bassa Bolognese.

Frequento raramente le lezioni universitarie. Sono molto impegnato nella campagna elettorale a favore del "Fronte Democratico Popolare". Si parte al pomeriggio da Bologna con una vecchia auto Lancia denominata "La Contessa" perché era appartenuta ad una vera contessa. Essa riesce a contenerci in otto oltre all'autista.

Percorriamo le strade delle vallate dell'Appennino bolognese o della pianura e in ogni centro comunale o frazionale l'auto s'arresta per far scendere uno dei passeggeri. Teniamo le riunioni dei giovani comunisti discutendo della situazione politica, del significato delle elezioni del 18 aprile, della necessità di coinvolgere i giovani con adeguate iniziative nel campo della scuola, del lavoro, dello sport, del divertimento. Il rientro, in successione logistica, avviene molto tardi, oltre la mezzanotte. Se di riunioni ce n'è una sola, il designato parte con un motorino Ducati. Con quel mezzo che marcia a 30-40 chilometri orari io giro e rigiro l'intera provincia. Spesso sono impegnato anche di domenica, dal mattino al pomeriggio, e alla sera, al ritorno a Bologna, mi reco immancabilmente a vedere un film.

E' la stagione del cinema neorealista segnata dai film di Rossellini, Visconti, Lattuada, De Sanctis, De Sica, Germi, Zavattini.

Risparmiando sul mangiare e sul bere non me ne lascio scappare neppure uno... E non mi sono nemmeno lasciato sfuggire la rappresentazione del dramma

"Madre Coraggio e i suoi figli" di Bertold Brecht, presentata al Teatro Comunale di Bologna dal Teatro dei Satiri di Roma con la regia di Lucignani ed i costumi disegnati da Renato Guttuso.

Marzo

Siamo riusciti ad ottenere una grande partecipazione di giovani bolognesi alla manifestazione nazionale tenuta a Genova all'insegna delle "Avanguardie Garibaldine".

L'emblema elettorale del "Fronte Popolare" è il volto di Giuseppe Garibaldi racchiuso entro una Stella a cinque punte. E quel "faccione" noi bolognesi lo abbiamo portato in corteo per le strade di Genova avendo al collo un fazzoletto rosso e cantando "Bella ciao".

Il discorso l'ha tenuto Enrico Berlinguer, segretario del Fronte della Gioventù, in un Piazzale dei Cantieri Navali Ansaldo di fronte al mare.

1 Aprile

Mi trovo a Firenze al Congresso dell'"Alleanza della Cultura".

Sono partito da Bologna con il treno delle 11,20 dopo aver trascorso la mattinata in Federazione a preparare pacchi di manifesti, volantini e coccarde del "Fronte Popolare" per i Comuni dove domenica prossima si terranno i Congressi locali delle "Avanguardie Garibaldine".

Per il soggiorno a Firenze ho ricevuto lire 1.000 dalla Federazione e lire 1.000 dalla Sezione di Bubano. Devono servire per il viaggio e per il vitto. Si pernotterà a casa di compagni. La mia situazione finanziaria è davvero precaria. Alla famiglia non posso chiedere ulteriori sacrifici. Dovrò trovare una qualche occupazione se vorrò proseguire gli studi.

Il treno era affollatissimo. Nella mia carrozza ferroviaria, in piedi nel corridoio, c'erano alcuni uomini di mezz'età impegnatissimi in una accalorata discussione su Benito Mussolini ed il fascismo. Uno sosteneva che il fascismo aveva significato un progresso per l'Italia, specie per il Meridione, ma che purtroppo il Duce aveva commesso l'errore di mettersi con Adolf Hitler e di fare la guerra... Un altro soggiungeva che "in fondo in fondo andava meglio quando andava peggio"... Un altro ancora, in disaccordo, ribatteva e ribatteva... Ho conosciuto anche un compagno che era marinaio su una nave militare, la "Ardimento", con 120 uomini d'equipaggio. Aveva formato una cellula comunista ed era riuscito ad organizzare un'agitazione per il vitto giungendo perfino a fermare i motori per ottenere dagli ufficiali l'impegno di migliorare la mensa...

Io ascoltavo... e rimiravo il paesaggio. Verdi colline, borghi, gallerie. Una di queste, molto lunga, aveva una stazioncina a metà percorso. Era quella che separa l'Emilia dalla Toscana.

All'uscita dalla galleria il mutato paesaggio mi ha fatto ricordare il verso carducciano su "i cipressi che a Bolgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar". Una sosta a Prato e poi l'arrivo a Firenze. La Stazione era stracolma di gente. Una folla immensa d'ogni sesso ed età veniva convogliata da preti e suore verso i vagoni di un treno in partenza per Roma. Sulle carrozze stava scritto: "Pellegrinaggio cristiano". Andavano alla Cattedrale di San Pietro a pregare per il buon esito delle elezioni del 18 aprile. E' da molti giorni che Padre Lombardi "il microfono di Dio" sta incitando freneticamente il devoto popolo cattolico italiano a salvare la Patria dal "demone bolscevico", mentre statue di Madonne miracolose muovono gli occhi e versano lacrime implorando i fedeli a votare Democrazia Cristiana.

Sui muri dei palazzi campeggiano i manifesti del "filone di pane" con la scritta: "Il pane che noi mangiamo è per il 60% americano e per il 40% italiano". Il ricatto è palese: "fai attenzione a come voti se vuoi continuare a ricevere il filone di pane".

Ho trascorso il pomeriggio in giro per Firenze. Ho ammirato il Battistero dove Dante da bambino rischiò di annegare, il Campanile con le piastrelle pentagonali disegnate da Giotto, la Cupola del Brunelleschi. Nel descriverla l'insegnante liceale di Storia dell'arte ricordava immancabilmente la frase di Michelangelo "Vado a Roma a costruire tua sorella, più grande sì ma non più bella" ed aggiungeva "Così almeno dice la leggenda". Sono entrato in Santa Maria del Fiore aggregandomi ad una comitiva di turisti ai quali una guida spiegava la differenza fra gli stili classico, gotico e romanico.

Ho poi raggiunto Palazzo Vecchio dov'è installata la Segreteria del Congresso. A far gli onori di casa c'è Emilio Sereni. Di bassa statura, paffutello, affabile, occhi mobilissimi dietro le lenti. Si dice che conosca tutti i dialetti d'Italia oltre a varie lingue europee. E' un'autorità in economia agraria e in questioni meridionali. Le dispense di Storia d'Italia usate nelle Scuole di Partito non hanno autore, ma si dice siano sue. Assieme a lui ci sono Mario Socrate, giornalista de "Il Progresso d'Italia" e poeta, ed Enzo Muzii, mio compagno d'Università. Socialista, cultore di cinema, dirige il giornalino studentesco "Il trivello" su cui sta ora pubblicando a puntate una sua inchiesta sui postriboli bolognesi, da quelli a buon prezzo di via delle Oche a quelli più costosi di Via dell'Orso. Una giovanissima segretaria mi ha detto di togliere dall'occhiello il distintivo del Fronte Popolare perché l'Alleanza della Cultura non ne fa parte, e mi ha assegnato l'alloggio presso la famiglia di un compagno operaio delle Officine Galileo.

All'uscita da Palazzo Vecchio ho incontrato un vecchio compagno di Liceo, Guido Panerai.

Siccome agli esami di maturità a Imola l'han bocciato ben due volte, ora sta ritentando qui a Firenze per la terza volta. Non ha preoccupazioni economiche, suo padre possiede un forno e alcuni poderi a Coniale nella vallata del Santerno. Mi ha accompagnato alla fermata del tram che mi condurrà al mio alloggio. Non ha fatto che parlare di sport e di ragazze. Mi ha riassunto il suo ideale di vita: quattrini e belle figliole.

Di tutt'altro tono la conversazione con il compagno che mi ospita. Mi ha parlato dei partigiani che han salvato il Ponte Vecchio minato dai tedeschi, dell'eroico comandante "Potente", del discorso fatto da Togliatti al Teatro "La Pergola" nel '44 sulla "democrazia progressiva"...

2 Aprile

Oggi al Congresso dell'Alleanza della Cultura ci siamo sorbiti diciotto relazioni. Sono presenti i nomi di maggior prestigio delle riviste di sinistra. Molti i docenti universitari. Ci sono anche due monaci dalla lunga barba bianca. Uno rappresenta una rivista francese di studi sociali e l'altro viene dalla Certosa di Padule. A Palazzo Vecchio siamo stati accolti dai valletti in costume con le alabarde che con squilli di tromba hanno annunciato l'ingresso del sindaco di Firenze che ha recato il saluto della città.

Ho ascoltato con attenzione gli interventi del Professor Giuseppe Petronio sulle novità letterarie e di Giulio Trevisani, direttore del "Calendario del Popolo", sulla necessità della diffusione della cultura fra le masse popolari.

Nell'intervallo del pranzo sono salito a Piazzale Michelangelo dove ho sgranocchiato un panino e ho bevuto a una fontanella. Vi ho incontrato Giorgio Fanti del "Progresso" di Bologna. Era con un uomo alto e robusto coi battetti e con un dente d'oro. Era lo scrittore Elio Vittorini. L'ho riconosciuto per la foto stampata sulla copertina di un suo romanzo, "Uomini e no".

"Io ero un assiduo lettore del "Politecnico" quando Lei ne era il direttore" -ho detto. Lui ha sorriso e mi ha stretto la mano.

Alla sera sono stato al Concerto offerto dal Comune ai congressisti nel Teatro della Pergola.

Applauditissima l'esecuzione della "Semiramide" di Gioacchino Rossini.

3 Aprile

Il Congresso s'è trasferito a Palazzo Strozzi suddividendosi in varie Commissioni. Nel recarmici ho attraversato Piazza della Signoria rimirando il Biancone del Bandinella la Loggia dei Lanzi con il Perseo del Celimi e la Giuditta di Donatello, il David di Michelangelo.

Gli Uffici son chiusi per restauro. Costeggiando i busti delle tante celebrità di Toscana ho raggiunto il Ponte Vecchio e ho ricordato il verso del Foscolo sull'Alfieri "a questi marmi venne spesso Vittorio ad ispirarsi..." e la frase del Manzoni sul suo "risciacquare i panni in Arno...".

A Palazzo Strozzi ho scelto la Commissione di letteratura, editoria, giornalismo, radiofonia".

Alla Presidenza c'erano Giorgio Mondadori, un uomo grande e grosso dai folti baffi, Giacomo De Benedetti, dai modi raffinati, Giuseppe Raimondi, dall'espressione serena, Corrado Alvaro, sprizzante energia. La seduta è iniziata con alcune battute tra Mondadori e Vittorini.

– Dica qualcosa Lei, Vittorini!

– Che devo dire? – ha risposto quello stringendosi nelle spalle.

– Dica quel che vuole sul giornalismo. Ha pur fatto tale lavoro! – ha continuato ironicamente Mondadori.

– Oh, sì... Ma ora non più.

– Ecco, spieghi perché non più.

A questo punto è intervenuto Raimondi: Mi pare che Lei un tempo dirigesse "Il Politecnico", no?

– Era un lavoro, era un lavoro – ha biascicato Vittorini.

Enzo Muzii s'è intromesso: " Ma gli abbonati son rimasti fregati".

Vittorini ha sorriso impacciato: "Proprio me dovevate scegliere. Perché non interpellate qualcun altro?".

Io avevo seguito la polemica fra Vittorini ed il PCI. Togliatti s'era pronunciato contro la tesi crociana dell'arte per l'arte affermando il nesso fra politica e cultura che spesso veniva negato in certi articoli che comparivano sul "Politecnico".

Vittorini si era professato "comunista non marxista" sostenendo l'autonomia della cultura rispetto alla politica, perché "altrimenti non resterebbe che suonare il piffero per la rivoluzione".

E così "Il Politecnico – settimanale di cultura contemporanea" edito da Einaudi dal 1945 aveva chiuso le pubblicazioni nel dicembre 1947.

Al Politecnico io dovevo la conoscenza di Hemingway, di Majakovskij, di Sartre e di Brecht.

Giacomo De Benedetti ha cercato un diversivo rivolgendosi al filosofo Remo Cantoni: "E Lei che ne dice?" E quello: "Beh, anch'io non faccio più il giornalista". La sua firma appariva spesso sul Politecnico.

E' poi iniziata una discussione impegnatissima sui rapporti tra letteratura, società ed editoria.

Sono intervenuti Corrado Alvaro, Franco Fortini, Italo Calvino, Giansiro Ferrata, Felice Balbo, Elio Vittorini.

All'uscita da Palazzo Strozzi ho incontrato il bolognese Leonildo Tarozzi.

Negli anni venti aveva collaborato alla rivista "Ordine Nuovo" ed aveva conosciuto Antonio Gramsci. Era qui con una bella signora dai capelli bianchi e dai modi gentili.

Era la poetessa Sibilla Aleramo che avevo conosciuto a Bologna in una serata promossa in suo onore dal "Gruppo Intellettuali Antonio Labriola". In una sala di Via D'Azeglio lei aveva letto le sue poesie.

Ho pranzato con un panino nel Parco delle Cascine presso una fontana sul cui basamento era scritto:

Eterno basamento in questo loco generosa pietà fondò a Narciso che vagheggiando alla fonte il proprio viso morì consunto d'amoroso foco.

Un auto s'è fermata qui vicino. Ne è scesa una ragazza. S'è avvicinata alla fontana, ha tolto dalla borsetta uno specchietto, s'è dipinta le labbra, s'è incipriata il viso, s'è acconciata i capelli... e s'è mirata e rimirata...

Sono stato tentato dal ricordarle quanto accadde a Narciso, ma mi sono trattenuto. La ragazza era affascinante...

Nel pomeriggio si è svolta l'ultima seduta del Congresso in Palazzo Strozzi. Padre Placido, il monaco della Certosa di Padule, ha affermato di non essersi sentito come "Daniele nella fossa dei leoni" e che occorre conoscersi meglio per trovare le fondamenta comuni su cui assieme progredire.

Le conclusioni son state tratte da Emilio Sereni.

Di sera uscendo da Palazzo Strozzi son capitato in un comizio elettorale del Partito Monarchico. Nell'assordante frastuono di chi applaudiva e di chi fischiava non si capiva nulla di quanto affermava l'infervorato sostenitore di Casa Savoia.

Ho cenato in casa del compagno operaio delle Officine Galileo. Mi ha mostrato il grande prato del Campo di Marte. Su un muro diroccato c'era una lapide con una corona d'alloro. Qui i fascisti della Brigata Nera avevano fucilato cinque giovani fiorentini che s'erano rifiutati di prestare servizio nell'esercito della Repubblica di Salò, unendosi ad una formazione partigiana.

Il mio soggiorno fiorentino è così terminato. Tornerò a Bologna domattina.

18 Aprile

Le elezioni han segnato la vittoria della Democrazia Cristiana che ha ottenuto circa tredici milioni di voti contro gli otto del Fronte Popolare. Non ce l'aspettavamo. Ci siam rimasti malissimo. Noi bolognesi abbiamo capito che l'Italia è più grande dell'Emilia Romagna e che è molto diversa...

18 giugno

Sono a Venezia per visitare la Biennale d'Arte, la prima del dopoguerra. Sono con me Paolino e Irmo, due bubanesi che hanno la passione del dipingere.

Paolino s'è portato l'occorrente e ha riprodotto in un quadretto un pezzo della laguna. Il talento sembra essergli innato. Non ha frequentato alcuna scuola d'arte. È bravo sia nel paesaggio che nel ritratto. S'è fatto la guerra su vari fronti, poi in Africa s'è arreso e gli inglesi l'hanno spedito in un campo di prigionia in India. È tornato "nudo e crudo" ed io l'ho aiutato a costruirsi un capanno di legno vicino alla Casa del Popolo. Di notte ci dorme e di giorno acconcia barbe e capelli. Ha mani d'oro. Oltre ad essere parrucchiere sa aggiustare qualsiasi tipo d'orologio e da quando è riuscito a comprarsi una macchina fotografica si è messo a scattar foto ai battesimi, cresime, comunioni, matrimoni e funerali.

Irmo è il più tranquillo. È stato operaio nella locale fornace di laterizi. Poi s'è messo a fare l'imbianchino. Questo per campare. Ma l'interesse primo di sua vita è la pittura. Di domenica si fa in bicicletta i quaranta chilometri che separano Bubano da Ravenna per frequentare la Scuola d'Arte. Il suo maestro d'arte è il pittore romagnolo Umberto Folli di Massalombarda.

Di quella visita a Venezia serbo il ricordo della laguna, di Piazza San Marco, dei manichini e dei cavalli metaforici di Giorgio De Chirico esposti alla Biennale, e del pergolato nel cortile della trattoria che ci fornì il vitto e l'alloggio per una notte.

30 giugno

Nonno Paolo ci ha lasciato. Era sofferente da alcuni mesi. Una paresi cerebrale gli aveva immobilizzato metà del viso, poi un braccio, poi il corpo. Anche se lui, autentico anticlericale romagnolo, non aveva mai frequentato la Chiesa, nonna Nunziata ha voluto chiamare il prete. Poco prima del suo arrivo il nonno m'ha guardato: "Ti meravigli? Vedi, a me, "la sottana nera" non importa nulla, ma la nonna ci tiene, e allora che sia contenta almeno lei".

Il prete è venuto, l'ha confessato e comunicato. Una visita brevissima. Non credo che il nonno avesse molti peccati da espurgare. Era stato un onesto instancabile lavoratore per tutta la vita. Gli unici piaceri che si permetteva erano le partite domenicali di briscola e tresette con qualche quarto di vino pagato da chi perdeva la partita. E qualche bestemmia di tanto in tanto, quando ci voleva, diceva lui.

Quella visita del prete non fu la sola, però. Il nonno era già in coma quando irruppe nella stanza una vicina di casa, zia di un giovane prete. Guardò il nonno e proclamò: " Qui ci vuole la Estrema Unzione, c'è in gioco l'aldilà, o l'inferno o il paradiso... e per l'eternità!". La nonna scoppiò in un pianto dirotto. Noi eravamo affranti di dolore. Il nonno era oramai più di là che di qua. E la vicina di casa chiamò suo nipote prete.

Così il nonno ricevette il viatico per l'aldilà, per l'eternità.

Da ragazzo io ero stato un convinto cattolico, avevo frequentato il catechismo, avevo ricevuto i sacramenti, avevo creduto nell'esistenza di Dio creatore del cielo e della terra e di tutti gli esseri viventi. Non avevo dubbi sull'immortalità dell'anima nella vita dell'aldilà. Poi col passare degli anni la fede era scomparsa. Nel corso della guerra partigiana avevo conosciuto e stimato tanti compagni non credenti e nell'immediato dopoguerra avevo letto Marx ed Engels, m'ero appassionato alla politica, ed il problema dell'esistenza di Dio non me l'ero più posto. Solo qualche volta, nel dormiveglia mattutino, mi chiedevo quale potesse essere stata l'origine dell'Universo dal momento che non era stato creato da un Essere Supremo. Le teorie evoluzionistiche m'avevan offerto delle risposte, ma era rimasta in me la coscienza del mistero dell'origine dell'Universo, dell'apparire della vita, della comparsa degli animali e dell'uomo.

La scienza indaga, indaga, indaga, e trova risposte, risposte, risposte... Ma resta pur sempre il mistero. La religione lo assume come Dio ed invita ad un atto di fede. La scienza si sforza di svelarlo.

7 Luglio

Mi trovo in una colonia di Milano Marittima sull'Adriatico dove il Comune di Mordano ospita una trentina di ragazzi. L'edificio, opera del regime fascista, ha la forma di un aeroplano.

Sono stato assunto come "economo" ma sono piuttosto un "magazziniere". Devo tenere in ordine due registri. Su un registro segno i prodotti che mi vengono riforniti settimanalmente e sull'altro annoto quanto consegno alla Cucina quotidianamente. Resterò qui due mesi e potrò così racimolare una piccola scorta finanziaria per il prossimo anno accademico a Bologna.

Oltre a svolgere le mie mansioni in magazzino, do una mano in spiaggia nel far giocare i ragazzi sulla sabbia e nell'acqua di mare. Mi resta parecchio tempo per la lettura. Sfoglio le pagine del libro "Lettere dal carcere" di Antonio Gramsci, che ha ricevuto quest'anno il Premio Viareggio.

Riporto le frasi più attinenti alle mie attuali riflessioni: "Se ci pensi bene, tutte le questioni dell'anima e dell'immortalità dell'anima e del paradiso e dell'inferno non sono poi in fondo che un modo di vedere questo semplice fatto: che ogni nostra azione si trasmette negli altri secondo il suo valore di bene e di male, passa di padre in figlio, da una generazione all'altra in movimento perpetuo". (Lettera alla madre).

"Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi, e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa. (Lettera a Delio).

"I libri e le riviste danno solo idee generali, abbozzi di correnti generali della vita del mondo (più o meno ben riusciti), ma non possono dare l'impressione immediata, diretta, viva, della vita di Pietro, Paolo, Giovanni, di singole persone reali, senza capire i quali non si può neanche capire ciò che è universalizzato e generalizzato. (Lettera a Julia).

"Ah, capisco, non è una cosa nuova, è una cosa ben vecchia. Si tratta di fare un'istanza di grazia, non è vero? Ora questa è una forma di suicidio, e se si vuole scegliere una forma piuttosto che l'altra si fa presto, ma è una cosa ben vecchia". (Lettera a Tania).

"Ero un combattente che non ha avuto fortuna nella lotta immediata, e i combattenti non possono e non devono essere compianti, quando essi hanno lottato non perchè costretti, ma perché così hanno essi stessi voluto consapevolmente. (Lettera alla madre).

"Ognuno elabora e sgomitola ogni giorno la propria personalità e il proprio carattere, lotta con istinti, impulsi, tendenze deteriori e antisociali e si conforma a un sempre superiore livello di vita collettiva. Ognuno impara dai suoi prossimi e affini, cede e acquista, perde e guadagna, dimentica e accumula nozioni, tratti e abitudini. Mi pare importante la forza di volontà, l'amore per la disciplina e per il lavoro, la costanza nei propositi". (Lettera a Teresina).

14 Luglio

La radio ha dato notizia di un attentato a Palmiro Togliatti mentre usciva da Montecitorio.

Gli hanno sparato e le sue condizioni sono gravi. Mi corico preoccupato per quanto accadrà nel paese.

15 Luglio

Sono corso a comprare "L'Unità". Ho letto che l'attentatore è un certo Pallante di origine siciliana. Il giornale ricorda che la CIA aveva pubblicato un elenco di capi comunisti da eliminare e tra essi c'era pure il nome di Palmiro Togliatti. La CGIL ha proclamato lo sciopero generale. Qui in colonia la gente teme la guerra civile.

16 Luglio

"L'Unità" presenta i resoconti delle manifestazioni che si svolgono nelle varie città italiane e pubblica un elenco dei messaggi che da ogni parte del mondo giungono alla Direzione del PCI. Si mette in risalto che prima di perdere i sensi Togliatti ha sussurrato ai compagni: "Non perdete la testa. Mi raccomando il Partito".

17 Luglio

"L'Unità" informa che il ministro degli Interni Mario Scelba ha ordinato alla polizia di intervenire contro chi costruisce barricate od ostruisce strade od occupa posti di lavoro. La CGIL ha sospeso lo sciopero generale.

20 Luglio

"L'Unità" ha pubblicato un articolo di Lenin in cui si parla delle condizioni oggettive e soggettive necessarie per il successo di una insurrezione popolare. Il giornale afferma che in Italia tali condizioni non esistono.

25 Luglio

Abbiamo finalmente appreso che Togliatti è stato operato e che l'intervento è pienamente riuscito. Togliatti è fuori pericolo. Tiriamo tutti un respiro di sollievo.

28 Settembre

Sono stato a Roma al Festival Nazionale de "L'Unità" con il treno speciale stracolmo di compagni bolognesi. Ha parlato Palmiro Togliatti, per la prima volta dopo l'attentato. Ho approfittato del viaggio per "dare un'occhiata" alla "città eterna" che non avevo ancora visto. Ho fatto una veloce camminata nei luoghi che mi ricordano quanto letto sui libri di storia al Ginnasio-Liceo: il Colosseo, l'Arco di Tito, il Foro Romano, l'Altare della Patria, Piazza Venezia, il Campidoglio, Castel Sant'Angelo, la Cattedrale di San Pietro...

15 Ottobre

Ho ripreso la mia attività nella Commissione Giovanile di Federazione e usufruisco ancora del pernottamento nel Magazzino del Fronte della Gioventù in Via Santo Stefano, 56. Alla scuola di Partito c'è un corso bimensile riservato ai giovani ed io offro il mio aiuto nelle discussioni di gruppo che si tengono dopo la lezione e lo studio individuale e prima della discussione generale.

Un allievo, un giovane di Persiceto, è venuto stamane nel magazzino ed ha combinato un guaio. Ero nel bagno quando ho sentito lo sparo. Sono accorso ed ho visto che il giovane, bianco in viso, si stringeva un polpaccio da cui scendeva sangue. La mia rivoltella era per terra. Balbettando mi ha detto che l'aveva vista sullo scaffale, l'aveva esaminata per curiosità ed all'improvviso, senza volerlo, era partito un colpo. Sono corso alla Scuola, c'era Lanfranco Bugatti. Ha telefonato in Federazione a Memo Gottardi, responsabile dell'Ufficio Quadri. Poco dopo è giunto un medico, Giorgio Sternini, un compagno ex partigiano. Ha detto che il giovane doveva essere immediatamente ricoverato all'Ospedale Sant'Orsola. Per fortuna il proiettile era uscito. Occorreva la disinfezione, un'iniezione. Avrebbe fatto tutto lui senza registrare nulla all'Ospedale. L'arma non era denunciata e la polizia non doveva saperne nulla...

Le scaffalature del magazzino sono oramai vuote. Il Fronte della Gioventù si sta dissolvendo e con esso sta scomparendo anche questo Centro di Rifornimento di bevande e dolciumi per le feste da ballo organizzate per richiamare i giovani e per l'autofinanziamento.

22 Ottobre

Sono stato alla Mostra Nazionale di Pittura Moderna allestita dall'Alleanza della Cultura a Bologna nel Palazzo del Podestà. Mi hanno colpito i paesaggi siciliani di Renato Guttuso, le fabbriche di Ernesto Treccani, le periferie urbane di Renzo Vespignani. Ho ascoltato una discussione fra Armando Pizzinato e Aldo Borgonzoni su cubismo e neorealismo. Il primo diceva: "Il pubblico non comprende l'astrattismo e gli artisti soffrono del loro isolamento. Ora non si può dire che la nostra sia l'arte d'un mondo che muore o di un mondo che nasce. Eppure durante la rivoluzione russa l'astrattismo comparve in manifesti che eran capiti dalla gente". Il secondo ribatteva: "L'arte deve essere compresa dal popolo, da chi lavora, deve esprimere la realtà, le aspirazioni, le lotte degli operai, dei braccianti, delle mondine. Noi pittori dobbiamo interpretare temi pungenti, pizzicanti, con tinte altrettanto pungenti e pizzicanti".

25 novembre

Siamo partiti in treno da Bologna all'una di notte e siamo arrivati a Napoli a mezzogiorno.

Undici ore di viaggio ammucchiati nelle carrozze ferroviarie, giovani e ragazze, dormicchiando, chiacchierando e cantando. Siamo venuti al Congresso dell'Alleanza Giovanile. Ho stretto amicizia con Francesco Bonazzi, studente di Lettere. È del Direttivo Provinciale e come "indipendente di sinistra non comunista" viene mandato spesso a rappresentare l'organizzazione bolognese nei Convegni nazionali ed internazionali in Italia e all'estero.

Ridendo e scherzando mi confida che ci tiene molto a conservare il suo "status" di "intellettuale indipendente di sinistra" per continuare ad essere inserito "come un fiore all'occhiello" nelle varie delegazioni destinate all'estero.

Durante il viaggio abbiamo stretto amicizia con un gruppo di giovani provenienti da Forlì. Forse tra Francesco ed una ragazza forlivese è sbocciato l'amore.

Alla Stazione siamo stati accolti dal Comitato Organizzatore. Resteremo a Napoli tre giornate e dormiremo nelle camerate di una ex caserma militare.

29 novembre

Il treno mi sta riportando a Bologna. Ho preso diretta conoscenza della Napoli che avevo conosciuto nei film del cinema neorealista: la città degli sciuscià, del mercato nero, dei soldati americani bianchi e negri che offrivano sigarette e cioccolate, la città delle canzoni e del mandolino.

Del Congresso m'è rimasto il ricordo del Teatro San Carlo, dove ho ascoltato i discorsi di Enrico Berlinguer, segretario di Alleanza Giovanile, e di Marisa Musu in rappresentanza delle ragazze.

Ricordo l'escursione a Pompei con il trenino della Circumvesuviana, le file di bancarelle con bambini, uomini e donne a vendere sigarette, noccioline, croccanti e fichi d'india.... Ricordo il giro in via Forcella e nei vicoli con la biancheria appesa in alto e le prostitute e i mendicanti situati in basso... Ricordo la salita in funicolare al Vomero, il quartiere dei benestanti, dalla cui terrazza abbiamo ammirato le luci della città e delle navi alla fonda nel golfo, mentre alcuni giovani napoletani del Comitato Organizzatore cantavano le loro canzoni strimpellando un mandolino.

Ricordo infine il Palazzo Reale, il Maschio Angioino, la Galleria Umberto. Ho fatto un salto anche alla Federazione Comunista dove ho incontrato Loris Gallico che mi ha parlato dei Corsi di Partito e mi ha offerto le dispense che qui si utilizzano.

Naturalmente porto via con me da Napoli anche il ricordo della portaerei statunitense ancorata nel porto... Simboleggiava "la guerra fredda" che era oramai una realtà in atto.

5 Dicembre

Il Magazzino del Fronte della Gioventù è stato chiuso. La gloriosa organizzazione fondata da Eugenio Curiel durante la Resistenza è stata sciolta. Anche la Commissione Giovanile di Federazione è in via di scioglimento. Si discute della ricostituzione di una Federazione Giovanile Comunista autonoma dal Partito mentre si dovrebbe irrobustire l'Alleanza Giovanile con l'afflusso di giovani che siano un poco più giovani di noi che siamo "i reduci" della guerra di Liberazione.

Il responsabile della Commissione Giovanile di Federazione Aroldo Tolomelli è scomparso.

Il giorno dopo l'attentato a Togliatti aveva tenuto un comizio a Bentivoglio e nella notte avevano sparato ad un agrario locale. Lui era stato accusato di istigazione all'odio... La polizia lo stava cercando per metterlo in galera e processarlo. La sua compagna, responsabile delle ragazze comuniste, Nilde Pezzoli, è stata trasferita a Milano nel lavoro sindacale.

20 Dicembre

Stamattina il responsabile della Sezione Quadri della Federazione, Memo Gottardi, mi ha comunicato che potrò dormine nei locali della Scuola di Partito. In cambio darò una mano per il buon andamento dei corsi.

Nel pomeriggio ho assistito ad una lezione di Arturo Colombi sulla politica internazionale del PCI. Sostanzialmente ha detto questo:

"Noi siamo schierati con l'Unione Sovietica, patria del socialismo, baluardo di pace nel mondo. Siamo contro gli Stati Uniti d'America la cui politica imperialista minaccia una nuova guerra mondiale allo scopo di frenare l'avanzata comunista e il movimento di liberazione anticolonialista. E' imminente una grande vittoria dei comunisti in Cina. Il campo mondiale del socialismo diverrà ancora più esteso e più potente. Dopo l'Europa orientale dove la classe operaia, con l'aiuto dell'URSS, ha assunto il potere creando le Democrazie Popolari, anche in Asia si stanno affermando gli ideali del socialismo. Dapprima nella Corea del Nord, poi nel Vietnam del Nord, ed ora nell'immensa Cina con le sue centinaia e centinaia di milioni di uomini... Il sistema socialista - ha concluso Colombi - è oramai un sistema invincibile al cui centro si trova la potente Unione Sovietica guidata dal grande Stalin...".

Nell'ultima pagina del "DIARIO" di questo anno denso di tanti eventi, sta scritto: E perché non hai fiducia nelle tue forze? Eppure i compagni ti apprezzano, ti stimano. Perché ti tiri sempre indietro? Altri meno capaci di te si fanno avanti. Non sottovalutarti. Non essere presuntuoso ma nemmeno troppo modesto. La strada della vita è lunga ed il valore dell'uomo si conosce nelle intemperie e non nel bel tempo. L'importante è avere uno scopo, una ragione di vita. Perché abbatterti? Studia e lotta, studia e lotta, studia e lotta.

6

1949 - ALLA SCUOLA "ANSELMO MARABINI" COME DOCENTE

Verso la fine del 1948 la Scuola di Partito trasferì la propria sede da via Santo Stefano in via de' Buttieri undici. Un vecchio stabile era stato acquisito con una sottoscrizione che aveva raccolto venti milioni di lire. Una parte dei precedenti locali fu adibita a garage-officina per gli automezzi della Federazione comunista, mentre la parte restante fu demolita per edificare il nuovo edificio scolastico progettato e realizzato dalla Cooperativa Operai Edili Bolognesi.

La via de' Buttieri era ed è una stradina strettissima che collega via Santo Stefano a via Orfeo. Davanti alla Scuola vi era allora l'alto muro di una caserma militare e dietro c'era un convento di monache di clausura.

L'edificio, a due piani, era spazioso e razionale. Oltre alla Scuola Provinciale esso ospitava pure una Scuola Centrale Quadri del PCI. Al pianterreno c'erano l'alloggio del custode, la cucina con la dispensa, la sala mensa con un centinaio di posti. Su un lungo corridoio erano frontalmente disposte due file di camerate con una decina di posti letto cadauna oltre ai servizi igienici e alle docce.

Quando mi recai a visitare la nuova Scuola di Partito scorsi un imbianchino-pittore che stava rifinendo sulla parete in fondo al corridoio la sagoma di Porta Lame a ricordo della battaglia condotta dai gappisti bolognesi contro i nazifascisti il 7 novembre 1944.

Al piano superiore vi erano due aule con i banchi scolastici, gli uffici delle due direzioni e degli insegnanti, una sala-soggiorno con le pareti decorate da bandierine rosse con falce e martello. La sala era fornita di radio, grammofono, tavoli per giocare a scacchi, a dama e a carte. Infine c'era l'aula magna e il locale per la biblioteca.

Fu appunto lì che mi venne l'idea di chiedere in Federazione se occorreva un bibliotecario. E Memo Gottardi, capo dell'Ufficio Quadri, mi rispose che avrebbe sottoposto il problema alla Segreteria Federale e che perciò gli occorreva la mia autobiografia, la quale andava scritta ' in modo dettagliato ed in tutta verità". Memo Gottardi aveva trascorso parecchi anni in Unione Sovietica. Alcuni compagni lo chiamavano " il bolscevico" e lui ne era felice. Mi chiese se m'erano piaciute le bandierine con falce e martello nella sala-soggiorno. Era un'idea sua e io risposi di sì.

Una settimana dopo gli portai l'autobiografia redatta secondo i canoni prescritti: quando e dove ero nato, l'ambiente sociale e politico del luogo di nascita, le condizioni sociali e le idee politiche della famiglia, le vicende sociali e politiche individuali, il quando e il perché dell'adesione al PCI, gli incarichi ricoperti, le varie organizzazioni in cui militavo, e l'elenco dei "garanti".

A quei tempi vigeva il principio che al Partito non bisognava nascondere nulla, assolutamente nulla. Ma in quella prima autobiografia omisi qualcosa. Non scrissi che avendo ottenuto dal comandante della 36-ma Brigata partigiana il permesso di scendere dalle montagne per una breve licenza in famiglia, ne avevo approfittato per non tornare lassù. E' vero che avevo riscattato la mia momentanea "debolezza" riprendendo subito la lotta partigiana in pianura nelle file della 7-ma Brigata GAP, ma chissà come avrebbe giudicato una simile cosa "il bolscevico" Memo Gottardi che di tanto in tanto esaltava la famosa "cistka", cioè "l'epurazione" praticata periodicamente nelle organizzazioni del Partito Comunista Sovietico. E omisi quel particolare.

L'autobiografia scritta veniva richiesta dagli Uffici Quadri dei vari livelli (federale, regionale, centrale) ogni volta che un compagno assumeva una responsabilità di grado superiore o quando veniva inviato alla Scuola di Partito.

Più tardi appresi che pur non avendo ottenuto l'appoggio del "bolscevico" Memo, un operaista sempre diffidente nei confronti degli intellettuali, la Segreteria Federale aveva accolto la mia richiesta nominandomi responsabile della biblioteca e permettendomi così di usufruire dell'alloggio e del vitto presso la Scuola.

Iniziai il mio lavoro di bibliotecario suddividendo per argomento i libri provenienti dai locali della Federazione di via Barberia. Una parte era stata donata dai vecchi compagni e su molti di questi c'erano timbri di carceri e di luoghi di confino, mentre altri provenivano da biblioteche confiscate nelle sedi di organizzazioni fasciste. Poi c'erano i libri, le riviste, i giornali di recente acquisizione. Mi misi all'opera per la schedatura. La biblioteca era a disposizione sia del Corso provinciale che del Corso centrale.

La Scuola ebbe due inaugurazioni. Quella "Provinciale" fu inaugurata il 10 gennaio 1949 dal segretario regionale Antonio Roasio mentre quella "Centrale" fu inaugurata il 16 gennaio 1949 dal segretario generale Palmiro Togliatti. Essa venne intitolata al nome di Anselmo Marabini, deceduto da poco tempo a Imola alla veneranda età di ottantatré anni. Oltrepassata la porta dell'edificio ci si trovava di fronte a un suo grande ritratto a colori. Era un dono dei compagni imolesi che l'avevano fatto eseguire da un pittore loro concittadino.

Quel vegliardo dai capelli bianchi, con il pizzetto e i baffi ben coltivati, io avevo fatto in tempo a conoscerlo da vivo. Ero stato a fargli visita nel '47 nella stanzetta a lui riservata all'Ospedale di Imola. Per noi giovani egli era una figura leggendaria. Nato nel 1865 a Imola, aveva partecipato con Andrea Costa al Congresso di fondazione del PSI tenutosi a Genova nel 1892, ed era andato a combattere come garibaldino nel 1897 per la libertà del popolo greco dalla dominazione turca. Eletto nel 1919 deputato al Parlamento italiano come socialista, era poi stato uno dei fondatori del PCI al Congresso di Livorno del 1921. Costretto nel 1924 all'esilio per sottrarsi alle persecuzioni fasciste, era riparato in Unione Sovietica dove aveva diretto il Soccorso Rosso Internazionale.

Durante quell'incontro all'Ospedale Anselmo Marabini mi chiese delle mie esperienze partigiane, dei miei studi, e... mi consigliò di studiare le lingue straniere. "Sai - mi raccontò - io non sono mai stato portato per le lingue estere e ciò mi ha ostacolato nei rapporti con i compagni degli altri paesi. Va beh che mi son sempre arrangiato con il dialetto romagnolo, ma non è che si possono affrontare discussioni molto impegnate con il nostro dialetto. Vedi, una volta in Russia mi trovavo a Vladivostok sull'Oceano Pacifico e dovevo recarmi alla sede locale del Partito Comunista Sovietico. Chiesi a diverse persone dove si trovava: provai con il mio russo, ma non mi capivano, provai con il mio francese, e neppure. E allora m'arrabbiai e lo chiesi bestemmiando in dialetto romagnolo. Ci fu uno che capì e mi accompagnò dove desideravo".

L'inaugurazione della Scuola Centrale Quadri mi offrì la possibilità di vedere da vicino e di stringere la mano a due personalità di grande carisma: Palmiro Togliatti e Marcel Cachin, uno dei fondatori del Partito Comunista Francese, esponente della Resistenza antifascista ed antinazista in Francia. Cachin dirigeva ancora " l'Humanitè" ed era stato il promotore delle "Feste" di quel giornale. Le nostre " Feste de l'Unità" si erano inizialmente ispirate a quel modello. Era oramai un vecchietto mingherlino, ma sprizzava energia e curiosità e io mi sentii orgogliosissimo di stringere la mano a un simile personaggio che apparteneva alla storia della Francia.

Il primo direttore della Scuola Provinciale fu Andrea Bentini e poi quando questi venne esonerato da ogni funzione direttiva di partito fu Vittorio Gombi a subentrargli sia nel Comitato Federale che nella Direzione della Scuola.

Nato nel 1918 a Minerbio, immigrato da ragazzo a Bologna dove lavorava come operaio tipografo, egli era stato processato più volte in periodo fascista "per cospirazione comunista". Il Tribunale Speciale l'aveva condannato a cinque anni di carcere e a due anni di vigilanza speciale. Aveva così frequentato la "Università comunista del carcere" e alla caduta del Fascio era stato uno dei primi organizzatori del movimento partigiano in città. Mentre nel gruppo dirigente comunista si discuteva della fattibilità o meno di azioni partigiane in città, Vittorio Gombi, che aveva assunto lo pseudonimo di "Libero", aveva compiuto il primo attacco gappista lanciando il 4 novembre 1943 una bomba nel Ristorante del Fagiano gremito di nazifascisti. Incarcerato successivamente in San Giovanni in Monte era stato torturato dai " brigatisti neri". Rilasciato aveva ripreso la lotta nella 7-ma Brigata GAP e aveva avuto un ruolo primario nella battaglia di Porta Lame. Pochi giorni prima della Liberazione era rimasto ferito durante lo scoppio di un deposito di munizioni ed era stato ricoverato nella Casa di cura di Villa Altura dove si trovavano altri partigiani feriti o inalati.

Dopo la guerra la Federazione Comunista aveva impegnato Libero prima nella Stampa Propaganda e poi nella Scuola di Partito, dove rimase però poco tempo perché verso la fine del '49 egli scomparve.

Si sussurrava che fosse finito nell'emigrazione politica in Cecoslovacchia. Qualcuno diceva che si era sottratto alle persecuzioni scatenate dallo scelbismo nei confronti dei partigiani comunisti responsabili di atti di violenza contro i fascisti nell'immediato dopoguerra. Memo Gottardi mi "confidò" invece, sottolineando che si trattava di una "informazione riservatissima", che l'Ufficio Politico della Questura di Bologna aveva tentato di ricattare Libero avendo scoperto "una debolezza" nel suo passato, ma che egli aveva respinto il ricatto riferendo tutto al Partito. Era stato perciò trasferito dapprima a un lavoro politico in Sardegna, e poi, dopo un corso alla Scuola Centrale del PCI, a "Frattocchie" presso Roma, l'avevano fatto espatriare clandestinamente.

Parecchi anni dopo incontrai Libero a Cattolica sul mare Adriatico dove egli gestiva una Pensione per turisti. Mi "confidò" che il motivo del suo espatrio clandestino in Cecoslovacchia nella primavera del '50 non era stato affatto "il ricatto" di cui aveva vociferato "il bolscevico" Memo Gottardi, ma era stata l'accusa d'essere stato responsabile nell'immediato dopoguerra di un "fatto di sangue" che la polizia voleva considerare non come un atto di giustizia partigiana ma come un "reato comune". In Cecoslovacchia aveva insegnato nella Scuola organizzata dal PCI presso Praga per i compagni espatriati per motivi politici, e nel giugno '54, essendo stati risolti positivamente i suoi problemi giudiziari, era rientrato in Italia.

Per un certo tempo si era impegnato nell'attività cooperativa e poi era passato ad una attività imprenditoriale privata.

Alla Scuola io avevo instaurato con Libero un ottimo rapporto di collaborazione. Spesso m'incaricava di presiedere in classe la "rassegna stampa" del mattino oppure di fare un giro durante le discussioni nei gruppi. Grazie a lui potei inserirmi nel lavoro scolastico oltre ad assolvere la mansione di bibliotecario. Naturalmente ciò andava a scapito dei miei studi universitari e rallentava il superamento degli esami, ma Libero mi consolava: "Perché vuoi consumare tante energie per gli esami? Quando andremo al potere diverremo professori senza aver fatto tanti esami". Forse c'era dell'ironia in quella frase, ma è anche probabile che egli concepisse l'azione culturale alla stregua di un'azione gappista basata sul principio "colpisci e fuggi via". Comunque fosse, quella frase non era certo ispirata all'idea gramsciana della conquista del consenso e dell'egemonia culturale.

Quando Libero "scomparve" dalla Scuola Marabini il segretario della Federazione Comunista era Albertino Masetti. Nato nel 1911 a Borgo Panigale, operaio, era stato condannato dal Tribunale Speciale fascista per "ricostituzione del partito comunista" e per diversi anni aveva frequentato con buon profitto "l'Università del carcere". Liberato dopo il 25 luglio '43, aveva preso parte alla Resistenza e poi nel '44-'45 aveva sperimentato il lager nazista di Mathausen.

Durante le sue peregrinazioni in carcere e al confino Masetti aveva conosciuto Medardo Anderlini. Questi, nato nel 1908, cresciuto in una famiglia di mezzadri del Bazzanese, era arrivato, come tanti a quei tempi, alla sola terza elementare, perché, si diceva, bastava quella per mettersi davanti ai buoi durante l'aratura o per accudire le mucche nella stalla.

Negli anni trenta Medardo era stato arrestato e condannato, anche lui per "ricostituzione del partito comunista", e aveva trascorso due anni in varie prigioni e una decina d'anni al confino nelle isole di Ponza e Ventotene. Lì aveva incontrato i "professori" della "Università del carcere". Aveva "studiato, studiato e ancora studiato" con volontà e con metodo, imparando anche la lingua francese.

Alla caduta del fascismo era tornato nella sua terra, aveva partecipato alla lotta di liberazione e dopo l'aprile '45 era stato nominato dal CLN sindaco del Comune di Crespellano. Masetti gli fece frequentare un corso d'aggiornamento alla Scuola Centrale di Partito alle "Frattocchie" e lo nominò direttore della Scuola Provinciale "Marabini" in sostituzione di Vittorio Gombi.

Medardo Anderlini era un uomo paziente e metodico, un accanito divoratore di libri sia in italiano che in francese, un assiduo lettore, oltre che di "Rinascita" anche delle riviste francesi "Cahiers du communisme", "La nouvelle critique", "La pensée". Sapeva tenere rapporti amichevoli con i giovani, manifestando un eccezionale spirito di comprensione verso di loro mentre li spronava a studiare, a riflettere, a discutere, ad usare, diceva lui, lo spirito critico proprio della "Ragione". Era un cultore appassionato delle opere degli illuministi francesi, e seguiva le novità librarie di storia, filosofia, economia politica.

Ricordo un episodio accaduto durante un corso femminile. Al mattino Medardo aveva tenuto una lezione dal titolo "Dall'idealismo di Hegel al materialismo di Marx". Era un tema a lui molto caro. Al pomeriggio io ne ascoltai il risultato in una conversazione tenuta da un gruppo di allieve nel bagno della scuola. Alcune ragazze discutevano della dialettica. Una chiedeva: "Ma qual'è la tesi e qual'è l'antitesi?" Un'altra diceva: "Qual'è la sintesi è chiaro perché esce facendo uè-uè-uè---" Ed una terza soggiungeva: "Ma chissà se siamo noi ad avere la tesi e loro l'antitesi, oppure viceversa".

Una cosa era però certa. Il principale hobby di Medardo Anderlini erano i libri. Quando dalla Scuola di Partito egli fu trasferito a dirigere la Scuola per sindacalisti e cooperatori di Gallo Bolognese e volle che io lo seguissi come collaboratore, dovetti occuparmi anche del bilancio finito "in rosso" a causa delle eccezionali uscite per l'acquisto di libri e riviste in italiano e in francese presso la Libreria Parolini di Bologna, di cui Medardo era un "affezionatissimo cliente".

Con Anderlini feci un passo avanti nella carriera dell'insegnamento. Fu lui che mi esortò a tenere le prime lezioni. Cominciai col testo del "Manifesto dei comunisti" di Marx ed Engels. Leggevo un brano e lo spiegavo, poi lo discutevo con gli allievi ricercandone le connessioni con l'attualità. Dopodiché fui stimolato ad affrontare l'economia politica e cominciai a tenere lezioni e discussioni sull'argomento. Per prepararmi mi servivo del "Corso elementare" del Leontiev pubblicato nel '46 dalle Edizioni Anteo nella traduzione dal francese di Rubens Tedeschi, divenuto poi critico musicale de "l'Unità", del testo di "Economia Politica" di John Eaton, pubblicato nel '50 da Einaudi nella traduzione di Claudio Napoleoni, divenuto poi senatore del PCI, e dei "Principi di economia politica "di Jean Baby, pubblicato nel '51 da "Le edizioni sociali" (progenitrici degli Editori Riuniti) nella traduzione di Arturo Lazzari, collaboratore de "Il Calendario del popolo".

Fu così che venni promosso da bibliotecario a insegnante. Oltre al "vitto e alloggio" mi fu assegnato un compenso di 12.000 lire mensili. I salari degli operai si aggiravano allora sulle 25-30.000 lire al mese. Io ero felice. Avevo intrapreso il cammino difficile e onorevole di "funzionario del Partito", di " rivoluzionario di professione", come si usava dire allora.

A sostituire Anderlini, dirottato alla Scuola per sindacalisti e cooperatori di Gallo Bolognese, il nuovo segretario di Federazione Enrico Bonazzi, proveniente dalla Federterra, inviò Memo Gottardi, la cui biografia era alquanto diversa da quella del suo predecessore. Era un operaio metalmeccanico, un vero e puro operaio, come sottolineava lui facendo vanto del proprio orgoglio di classe. Da Baricella, dov'era nato nel 1900, s'era trasferito a Bologna a lavorare in un'autocarrozzeria. Entrato giovanissimo nella Gioventù socialista aveva aderito al PCI al momento del suo costituirsi nel 1921 al Congresso di Livorno. Durante il fascismo era stato dal '27 al '30 segretario della Federazione Comunista bolognese operante nella clandestinità. Nel '33 era riparato in Francia e quindi in Unione Sovietica, dov'era stato caporeparto nella Fabbrica d'Automobili della città di Gorki sul fiume Volga. Durante la guerra aveva svolto dal '42 al '45 l'attività di educazione antifascista e di proselitismo comunista fra i militari italiani dell'ARMIR fatti prigionieri dall'Armata Rossa e rinchiusi nei campi d'internamento. Raccontava d'aver ricevuto quell'incarico da Edoardo D'Onofrio, membro della Direzione del PCI, e di aver operato sotto la guida di Paolo Robotti, cognato di Palmiro Togliatti. Diceva d'aver avuto a che fare con parecchi alti ufficiali dell'ARMIR e d'esser riuscito a conquistare al Partito diversi giovani come ad esempio il sottotenente Vincenzo Vitello divenuto poi docente di economia politica alla Scuola Centrale Quadri del PCI. Dopo la guerra Memo era tornato nella sua Bologna e il Partito l'aveva utilizzato come capo dell'Ufficio Quadri della Federazione.

Fu soltanto dopo il Ventesimo Congresso del PCUS e la divulgazione nel 1956 del "rapporto segreto" di Krusciov sul "culto della personalità" di Stalin, che Memo raccontò per la prima volta in vita sua d'essere stato arrestato e percosso dalla polizia politica sovietica quale "sospetto nemico del popolo". Qualcuno l'aveva accusato di nutrire "simpatie trotskiste". Per fortuna non era finito in un lager e dopo nove mesi di carcere era stato rimesso in libertà. Quando chiedemmo al "bolscevico" Memo perché non avesse mai fatto cenno a tali sue vicende, egli ci rispose: "E perché avrei dovuto parlarne io dal momento che il compagno Togliatti non ne ha mai fatto parola?"

Memo era dunque "un comunista tutto d'un pezzo". Appena giunto alla direzione della Scuola Provinciale "Marabini" prese il "Breve Corso di Storia del PCb", lo suddivise in dieci lezioni, e scrisse scopiazzando venti-trenta pagine, tutte a mano, per ogni lezione. Poi, in aula, leggeva lentamente quanto aveva scritto facendo di tanto in tanto una parentesi per inserire una citazione, un esempio, un ricordo. Gli allievi, che lo guardavano senza fiatare perché lui esigeva la massima attenzione, pensavano per lo più a qualcos'altro della loro vita, del loro lavoro, del loro impegno politico. E perché mai avrebbero dovuto stare attenti? Tanto esisteva il "Breve Corso di Storia del PCb" redatto e approvato nel 1938 dal Comitato Centrale del PCb e pubblicato in italiano dalle Edizioni in lingue estere di Mosca in una prima edizione nel 1945 con la copertina rossa, e in una seconda edizione nel 1949 con la copertina grigia. Quel che Memo leggeva sfarfugliando non era che il riassunto di quanto scritto in quel manuale dalla solida rilegatura. Ed erano vicende così lontane nel tempo e nello spazio, così diverse dalla nostrana storia d'Italia. C'era anche un capitolo intitolato "Materialismo dialettico e storico", scritto, si diceva, personalmente da Stalin, che avrebbe avuto bisogno di spiegazioni filosofiche, ma Memo l'aveva omesso perché, secondo lui, incomprensibile per la classe operaia e quindi superfluo. "Roba da intellettuali" - diceva - e lo saltava.

Memo concepiva quel testo come una specie di Bibbia del comunismo internazionale. Era lì che si spiegavano gli interessi e i conflitti fra le classi, le funzioni dei partiti, le tattiche e le strategie, era lì che si apprendeva la necessità che la classe operaia fosse sempre estremamente vigile contro le manovre del nemico di classe, era lì che si smascheravano i tradimenti e le pugnalate alla schiena che venivano rivolti contro il Partito. Negli annali della Scuola Provinciale "Marabini" è rimasta scolpita una famosa discussione. Quel giorno Memo aveva parlato dell'eroica guerra del popolo sovietico guidato dai comunisti contro l'aggressore nazifascista e aveva esaltato l'eroismo degli operai sovietici nel combattimento. Poi aveva chiesto: se vi trovate sulle barricate ed avete una sola mitragliatrice, a chi l'affiderete? Ci furono le risposte più svariate. Quindi Memo espresse il suo pensiero su quale doveva essere l'unica scelta giusta, l'unica scelta esatta: la mitragliatrice doveva essere data a un operaio perché sarebbe stato il combattente più sicuro, il più fedele come classe e come militante comunista. Tra gli allievi ce n'erano diversi, provenienti dall'esperienza partigiana, che non riuscivano ad essere convinti al cento per cento della risposta gottardiana. Per loro prese la parola un compagno imolese, Umberto Gaudenzi, eroico comandante di un battaglione della 36-ma Brigata Garibaldi nella battaglia di Ca' di Guzzo e decorato con medaglia d'argento: " No, no, caro Memo, tu non mi convinci, io la mitragliatrice la darei a chi la sa usare meglio, con più efficacia, e non starei a chiedergli l'appartenenza sociale. In montagna abbiamo avuto ottimi partigiani che non erano operai, ma studenti o contadini, o artigiani". La discussione si protrasse a lungo...

Tra i quadri provenienti dalla attività antifascista nell'illegalità e i quadri emersi durante la Resistenza c'era una grandissima differenza nel modo di concepire i rapporti umani, le relazioni fra i compagni. I primi erano tendenzialmente portati alla riservatezza, alla diffidenza, mentre i secondi erano molto più ben disposti alla comprensione, alla fiducia reciproca.

Smuovere Memo dalle sue radicate opinioni sulla purezza e l'orgoglio di classe era impossibile, e collaborare con lui era per me assai faticoso. Tra noi c'erano differenze, di età perché lui era un cinquantenne e io un ventenne, sociali perché lui era un operaio e io uno studente, culturali perché lui era in possesso della terza elementare e io del Ginnasio-Liceo, e c'erano differenti esperienze di vita vissuta. Ma la differenza fondamentale consisteva nel modo di concepire le relazioni umane e la lotta politica. E' stata per me l'unica volta che un dirigente di partito mi ha fatto venire "un nodo alla gola" con l'aggiunta di qualche lacrima... naturalmente di nascosto. Accadde quando scoprii il giudizio da lui stilato in calce alla prima autobiografia che avevo presentato all'Ufficio Quadri di Federazione: "piccolo borghese intellettuale con forti incrostazioni contadine... Il "Breve Corso di Storia del PCb" si era fatto evidentemente sentire.

Per fortuna venni salvato dal dover continuare a collaborare con Memo grazie all'intervento di Mario Spinella che chiese alla Federazione Comunista Bolognese di farmi frequentare un corso semestrale alla Scuola Centrale Quadri di cui lui era direttore. L'assenso fu dato e io ne fui felice, non solo per la possibilità di frequentare un corso politico d'alto livello con insegnanti che stimavo e con allievi provenienti da tutta l'Italia, ma anche perché mi sottraevo al rapporto di lavoro con il "bolscevico" Memo Gottardi. Fu una separazione che si protrasse per circa dieci anni, perché lo reincontrai soltanto nel '59, alla nuova Scuola di Partito sui colli di San Luca, dove dimorai per alcuni mesi nel ruolo di insegnante, mentre Memo era stato retrocesso alla funzione di economo-amministratore.

Eppure, dopo circa altri dieci anni, quand'egli morì e gli fu allestita la camera ardente nella Sezione comunista "Magnani" io andai a montare la guardia accanto al suo feretro. Era un pezzo di storia comunista che se n'era andato.

Slavia, rivista trimestrale di cultura

Graziano Zappi "Mirco", "Slavia" N°2 2008

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