Erano gli anni Settanta. Era appena terminato un congresso nazionale del PCI e l’ambasciatore sovietico a Roma, Nikita Semënovič Ryžov, aveva voluto a tutti i costi invitare a cena, nella splendida villa Abamelek sul Gianicolo, la nuova Direzione del PCI al completo. Che io ricordi, una cosa del genere non era mai avvenuta. Naturalmente, incontri e cene di dirigenti del PCI con l’ambasciatore dell’URSS non erano una novità, ma che l’intera Direzione appena eletta da un congresso, una trentina di persone, si recasse nella residenza dell’ambasciatore sovietico, sia pure per un incontro conviviale, questo no, non era mai successo. Erano presenti anche i membri della delegazione sovietica venuta ad assistere al congresso, e naturalmente il capo della delegazione, che era membro dell’onnipotente Politbjuro del PCUS. Probabilmente, l’ambasciatore voleva fare bella figura con il suo superiore, ma forse era anche sinceramente interessato a che si ristabilissero buoni rapporti tra i due partiti comunisti, deteriorati dopo l’invasione di Praga. Penso che nei suoi desideri quella cena dovesse contribuire a convincere Mosca che il PCI era recuperabile, grazie al buon lavoro svolto dall’ambasciata a Roma.
I convitati si sedettero attorno a un grande tavolo e cominciò il solito scambio di domande e battute tra commensali alla ricerca di una lingua in comune per poter comunicare. L’atmosfera era amichevole, ma anche un po’ tesa. Tutti aspettavano i discorsi ufficiali di Berlinguer e del capo della delegazione sovietica. Sennonché, in contrasto con la serietà dell’incontro, proprio durante il discorso di Berlinguer, più precisamente durante la sua traduzione da parte di Genrich Smirnov, si verificò qualcosa di comico che forse vale la pena di raccontare.
Berlinguer, in piedi, parlava e via via Smirnov traduceva dopo ogni pausa. Intanto i camerieri avevano cominciato a servire. Ma gli sguardi di tutti erano rivolti al dirigente sovietico seduto a capotavola accanto a Berlinguer. L’espressione perplessa del suo viso tradiva con evidenza un crescendo di irritazione sempre più imbarazzante. Si poteva pensare che volesse esprimere così il suo disaccordo con quanto Berlinguer andava dicendo. L’ambasciatore colse quello sguardo e capì. Il fatto è che le portate della cena erano numerose, e altrettante erano le posate alla destra e alla sinistra di ogni commensale. L’ambasciatore capì che il suo superiore, e anche alcuni altri delegati sovietici, non sapevano quali posate adoperare per i vari piatti. Così mise bocca durante la traduzione di Smirnov, dando l’impressione – agli italiani che non conoscevano il russo – che stesse suggerendo una correzione, un termine russo migliore per esprimere un certo concetto. Invece disse testualmente: “Per ogni portata si usano via via le posate che stanno rispettivamente all’estrema destra e all’estrema sinistra”. Subito dopo, senza soluzione di continuità e senza tradire il minimo imbarazzo, Smirnov riprese a tradurre in russo il discorso di Berlinguer.
Dopo l’invasione di Praga, che aveva messo fine all’esperimento del “socialismo dal volto umano”, dentro di me si era rotto qualcosa. Vedere in televisione i carri armati sovietici in Piazza San Venceslao, in quella Praga dove avevo vissuto per quasi due anni e dove era nato mio figlio Mark, mi faceva star male. Le timide dichiarazioni della direzione del PCI, che “riprovava” – per carità, non si usi il termine “condanna”! – l’arresto dei dirigenti di un partito comunista “fratello” (era questa la terminologia usata dai sovietici), un partito che stava saldamente al potere con il sostegno entusiasta del suo popolo, mi avevano indignato. Avevo cominciato a sentirmi estraneo a tutto quel mondo di cui avevo fatto parte da sempre, da quando a undici anni avevo visto mio padre ridotto in fin di vita in ospedale dopo le torture dei fascisti della banda Koch.
Quelli successivi alla fine della «primavera di Praga» furono anni travagliati, non soltanto per me, ma anche per moltissimi militanti del PCI. Fu allora che alla direzione del partito arrivò Berlinguer. Voglio raccontare un episodio che forse pochi notarono, ma che mi riconciliò con il PCI. Forse era il 1972, dopo che Berlinguer era stato eletto segretario generale, o forse il 1971, quando era ancora vicesegretario. Alla vigilia della Festa dell’Unità, che quell’anno si teneva a Livorno, dove il PCI era nato mezzo secolo prima, era giunta a Roma per assistere alla Festa la solita delegazione del PCUS capeggiata, come era tradizione, dal direttore della Pravda, Michail Vasil’evič Zimjanin. Era un uomo intelligente e sicuramente non uno stalinista, come potei riscontrare negli anni successivi, ma allora doveva aver ricevuto un mandato tassativo. In una riunione preliminare a Botteghe Oscure, cui Berlinguer non assistette, arrivò a battere il pugno sul tavolo minacciando una campagna mediatica contro il PCI se non avesse smesso di criticare apertamente il PCUS.
Dopo qualche giorno, sul palco della Festa a Livorno, mentre Berlinguer parlava davanti a più di centomila persone, la delegazione sovietica era seduta dietro di lui in prima fila, alla sua destra. Nel suo discorso Berlinguer ribadì con forza i lineamenti della nuova politica del PCI e concluse il suo pensiero pressappoco così (cito a memoria): “Questa è la linea che abbiamo scelto e che seguiremo, e nulla… – fece una pausa, voltò leggermente il capo all’indietro, in direzione di Zimjanin, poi pronunciò quasi sillabando – e nes-su-no ci farà deflettere!”. Era cominciato lo “strappo”.
Dino Bernardini, "Slavia" N°2 2006
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