sabato 15 dicembre 2007

Scampoli di memoria 6

di Dino Bernardini

L’attore. Gli anni a cavallo del 1970 furono per me anche un periodo di divertenti prestazioni nel mondo del cinema e della TV. Io e Valerij Voskobojnikov, pianista russo e mio carissimo amico, venivamo spesso chiamati a dare la nostra voce di “russi” a personaggi di film e commedie televisive. A volte ci si chiedeva anche di cantare. Una volta alla RAI si stava preparando la riduzione televisiva di un dramma di Gor’kij, in cui c’era un episodio ambientato in una bettola, con gente ubriaca che cantava. Ci chiesero di procurare anche altre persone in grado di cantare in russo. Così ci presentammo alle prove in compagnia di un gruppo di amici, tra cui Walter Monier, ex partigiano che dopo la guerra aveva studiato per tre anni a Mosca, e Anna Kiss, una bellissima ungherese che studiava canto a Siena. Alla prima prova, l’unica persona che venne scartata fu proprio lei: cantava troppo bene, la sua voce da cantante lirica non era adatta all’ambiente. Cantammo una vecchia canzone popolare russa dedicata al famoso Sten’ka Razin. Dopo di allora io e Valerij venimmo sempre invitati e retribuiti come componenti del “Complesso vocale Valerij Voskobojnikov”, anche quando il nostro impegno consisteva nel parlare (ovviamente in russo, altrimenti non ci avrebbero chiamati) e non nel cantare.

Ma una volta ci esibimmo come attori, in un ruolo che nel cinema è riservato ai cosiddetti “generici”. Era un film hollywoodiano di fantascienza, tipico dell’epoca della distensione tra Stati Uniti e URSS. La trama era, in breve, la seguente. Gli scienziati sovietici avevano creato un supercervellone elettronico che rendeva Mosca invulnerabile a qualsiasi attacco. Altrettanto avevano fatto gli americani. Ebbene, le due macchine erano entrate in comunicazione tra di loro e avevano preso il potere, non obbedivano più agli uomini. Allora i due governi si erano accordati per far incontrare i due scienziati autori dei due progetti affinché unissero le loro forze per trovare una soluzione al problema. La città prescelta per l’incontro fu Roma, e qui entrammo in gioco Valerij e io.

Quando ci presentammo all’incaricato della produzione trovammo che nella stanza c’erano già alcune persone, tra cui degli anziani che poi capimmo essere dei russi emigrati negli anni Venti. Ma il lavoro consisteva nel fare da guardie del corpo allo scienziato russo e gli anziani, russi o non russi, vennero tutti scartati. Venimmo ingaggiati in quattro, tra cui un aitante trentenne con accento francese. Sua nonna, aveva detto al direttore di produzione, era russa, e tanto era bastato. Quando poi ci trovammo soli ci disse: “Per carità, non mi tradite, io non so una parola di russo!”. Il quarto aveva dichiarato di non sapere il russo, ma era stato ingaggiato ugualmente. Prima di uscire, passammo dalla costumista che ci doveva suggerire come vestirci il giorno dopo. Dopo un rapido esame del nostro aspetto la costumista si rivolse a me: “Lei è perfetto! Domani venga vestito così”. Il che la dice lunga su come io andassi vestito in quel periodo. Quanto a Valerij, russo che più russo non si poteva, dovette invece sorbirsi una serie di raccomandazioni per apparire convincentemente russo.

L’indomani recitammo la parte delle guardie del corpo mentre i due scienziati si incontravano e passeggiavano sullo sfondo di S. Pietro, del Colosseo, ecc. Ricordo che una delle guardie del corpo americane era un negro (io continuo ad usare il termine “negro” senza alcuna accezione negativa, alla stregua di “biondo”, oppure “alto”, o “basso”, come si usava in Italia decenni fa, prima che venissimo colonizzati dall’inglese, quando nei film americani doppiati in italiano non ci si rivolgeva ancora ai giudici dicendo “vostro onore”, che mi sembra una mostruosità in una lingua come la nostra in cui ci si dà del lei). Fu per noi una giornata di assaggio, perché il vero lavoro cominciò il giorno dopo all’Isola Tiberina, per un episodio tutto sovietico. Infatti, mentre i due scienziati stavano a Roma, il cervellone elettronico di Mosca aveva scoperto, chissà come, che lo scienziato sovietico era irreperibile nella capitale sovietica e aveva chiesto di vederlo. Le autorità avevano addotto la scusa di una malattia grave con conseguente ricovero in un centro specializzato. Il cervellone insistette e allora lo informarono che lo scienziato era morto. A quel punto il cervellone si insospettì e pose un ultimatum: o gli si faceva vedere il cadavere, oppure avrebbe distrutto Mosca. Il governo sovietico non ebbe scelta.

Il nostro scienziato stava tranquillamente assorto nei suoi pensieri sulla riva del Tevere sotto gli sguardi vigili di noi agenti del KGB, quando arrivò un elicottero con un messaggio scritto, che fu consegnato a Valerij, l’ufficiale comandante del nostro quartetto. Valerij mi si avvicinò (io ero il commissario politico) e mi fece leggere il messaggio. Ci consultammo e poi cominciammo ad avvicinarci allo scienziato, tirando fuori le pistole. Lo scienziato intuì e cominciò a gridare: “Io non sono un traditore, perché mi fate questo?”. Ma noi continuammo ad avanzare e sparammo. Lo scienziato cadde all’indietro su una barca rovesciata. Sul volto di Valerij scorrevano lacrime di glicerina, mentre a me, il “duro” del grappo, la glicerina era stata risparmiata. Mi avvicinai al “cadavere” e lo toccai con un piede per accertarmi che fosse veramente morto.

Fino a quel punto, ci eravamo divertiti a recitare, ma da quel momento dovemmo sudarci le 40 mila lire al giorno che ci davano. Si deve sapere infatti che l’attore americano che interpretava lo scienziato sovietico era di corporatura massiccia, quasi un gigante. Tra l’altro, era di origine russa, anzi ci raccontò che suo nonno era stato l’ultimo presidente della Duma zarista, Rodzjanko. Noi quattro agenti dovemmo afferrarlo ciascuno per un arto e trasportarlo fino alla scalinata che nell’Isola Tiberina porta a un commissariato di polizia. Pensavamo che bastasse e ci fermammo all’inizio della scalinata giacché il nipote di Rodzjanko era pesantissimo. Invece ci fecero ripetere la scena e salire la scalinata, a metà della quale ci fermammo sfiniti per evitare di far sbattere la testa dell’attore sui gradini. Finita questa scena, il regista mi fece riprendere per due o tre volte in primo piano. Lui diceva: “Uno, due, tre, Dino!”. Al “Dino!”, io dovevo guardare fisso nella macchina da presa. Tutto lì.

Credo che il film non sia mai uscito in Italia, ma una volta ne ho visto un pezzo trasmesso da una emittente locale romana.


Per completare il capitolo cinema devo raccontare che avevo avuto delle esperienze precedenti, se così si possono chiamare, negli anni Cinquanta, prima a Roma come comparsa a Cinecittà per i film americani Quo vadis e Ben Hur, poi a Mosca per il film sovietico Pace a chi entra (Mir vchodjaščemu), nel quale insieme con un gruppo di studenti stranieri dell’MGU demmo la nostra voce ai prigionieri di un campo di sterminio tedesco che salutavano i soldati dell’Armata Rossa appena entrati nel lager a liberarli. Peraltro, ripensando a quel giorno, oggi provo un po’ di vergogna, giacché l’occasione era seria, e noi ragazzi italiani, e anche i francesi, in un impulso di goliardia, ci mettemmo a gridare tutto un repertorio di improperi e parolacce che suscitarono l’entusiasmo degli ignari registi Alov e Naumov. Per fortuna nel clamore generale (gli altri studenti stranieri gridavano invece parole appropriate) nessuno riuscì a distinguere nulla.

Un’altra volta ho dato la mia voce a un non meglio precisato premier sovietico in un film di Luciano Salce. Se ricordo bene, io e Valerij Voskobojnikov avevamo cantato qualcosa in russo, poi il regista disse al suo aiuto: “Per quell’altra scena ci vorrebbe qualcuno con la voce adatta per il discorso del premier”. Fu così che pronunciai con voce stentorea una specie di ultimatum in russo. Per fortuna la mia voce venne subito sfumata dopo la prima frase e il discorso continuò in italiano con la voce del doppiatore. E questo è tutto sulla mia carriera di interprete nel cinema.

* * *

Il falsario. Nei primi anni Sessanta del secolo scorso lavoravo alla Direzione del PCI con uno stipendio di novantamila lire al mese. Ne pagavo trentamila di affitto e le rimanenti sessantamila non bastavano per una famiglia di tre persone. Così ogni giorno dovevo trovare il tempo per tradurre dieci cartelle dal russo a trecento lire a cartella per l’agenzia sovietica APN. Per fortuna si trattava di testi giornalistici, facili da tradurre. Con questa integrazione giornaliera riuscivamo non soltanto a sopravvivere in tre, ma anche a pagare la retta di un asilo Montessori per nostro figlio Mark.

Un giorno venni convocato dalle maestre. Mi chiesero incuriosite che mestiere facessi.

– Glielo chiediamo perché, avendo domandato a tutti i bambini di parlarci del mestiere del padre, il suo Mark ha risposto: “Mio padre fa i soldi”. “D’accordo, gli abbiamo detto, tuo padre guadagnerà tanti soldi, ma come li guadagna, che fa?”. E lui: “Ha una macchina, si siede al tavolo, batte con le dita e fa i soldi”.

Mi ci volle un po’ di tempo per capire la risposta di mio figlio. Il fatto è che in casa nostra c’era sempre qualche amico, tutte le sere si faceva salotto, gli amici si davano appuntamento da noi senza neppure avvertirci, tanta era la sicurezza di trovarci in casa. Si discuteva di ogni cosa, appassionatamente, mentre qualche disco sovietico a 78 giri o italiano a 45 giri facevano da sottofondo. Ma io avevo bisogno di tradurre le mie dieci cartelle quotidiane. Così, quando la conversazione diventava per me meno interessante, annunciavo: “Adesso vado a fare trecento lire”. E mi allontanavo di qualche passo dagli amici per andare a tradurre, mantenendo però l’orecchio attento alla conversazione, che continuava senza di me. Le mie dita correvano veloci sui tasti della macchina per scrivere, ma se qualcuno diceva qualcosa con cui non ero d’accordo, anche se in quel momento invece di una pagina avevo già tradotto soltanto una decina di righe, interrompevo il lavoro e tornavo a discutere con gli altri, dicendo prima: “Bene, ho fatto duecento lire”. Oppure cento. Ed è così che mio figlio credeva che io “facessi” i soldi.

Dino Bernardini, "Slavia" N°3 2007

Lettera ad un amico che compie tre quarti di secolo

di Dante Bianchi

Caro D., tutti i tuoi amici qui riuniti ti augurano tutto il bene e anche tante puntate nei casinò della sconfinata pampa argentina, magari più fortunate di quelle compiute nella Meseta spagnola. Felici passano i tuoi anni e dunque poco importa se a te oggi sembrano già tanti. Le tue sofisticate strategie di gioco, quando riesci ad applicarle con pazienza, lucidità e tenacia, ti fanno apparire ai nostri occhi più grande del Giocatore di Dostoevskij. Una cosa noi profani abbiamo capito: puntare sui ritardi vuol dire anticipare l’avversario, insomma ‘sto ritardo anticipato è proprio un bell’e buono ossimoro, degno di un linguista talentuoso.

Caro D., vai avanti così come ci hai abituati, e cioè: classica pastina in brodo con il dado a mezzogiorno, pizza Margherita, supplì a volontà se di fattura “lucianesca”, una sempre ben gradita fettina di carne cotta in padella, vino rosso del Chianti, i tuoi ormai mitici boccioni di acqua frizzante ghiacciata, moda sannitica nel vestire, scarpe second-hand, jeans riciclati, mai cravatta, solo se casino oblige.

Caro D., adesso che non ci sono più ideologie, centralismo democratico e internazionalismo proletario, ci hai fatti diventare attenti e devoti “slavisti” e ci emozioni non poco con i tuoi Scampoli di memoria. Adesso conosciamo meglio il tuo cuore e proprio così ci piaci. Ti facciamo tutti l’augurio più sincero per questa tua seconda giovinezza, che immaginiamo fatta di tante altre giocate, tanti altri numeri di Slavia e Scampoli di memoria.

sabato 8 dicembre 2007

Elezioni russe

di Mark Bernardini

Ho votato Putin. Perché? Perché mi ha convinto l’Occidente, a forza di dargli addosso. Quando Liberazione chiama progressista l’opposizione a Putin, un’opposizione al cui interno uno dei maggiori Partiti (0,96%) si chiama Unione delle Forze di Destra, resta poco da dire. Kasparov è pagato dalla CIA, e la sinistra italiana tutta lì a stargli dietro. Bravi, complimenti.

D’altro canto, non potevo certo votare Zjuganov: come ho spiegato infinite volte, abbiamo studiato marxismo su libri di testo diversi. In quanto comunista, io sono per antonomasia internazionalista ed antirazzista. Questi sono nazionalisti ed antisionisti, oltre che razzisti in toto (contro gli immigrati delle repubbliche ex-sovietiche).

Brogli un corno: io c’ero, con gli osservatori dell’OSCE. Abbiamo visitato una quindicina di seggi, random. Tutto regolare, a parte qualche coppia di anziani che votavano assieme (moglie e marito), ed il fatto che il documento di riconoscimento viene restituito quando la scheda viene consegnata all'elettore (per cui qualcuno va via con la scheda in tasca come souvenir senza votare), cose che comunque non influiscono sulle predilezioni per un Partito piuttosto che per un altro. Poi il giorno dopo l’OSCE, come ad ogni consultazione elettorale, dichiara quel che la settimana prima aveva dichiarato il Dipartimento di Stato USA. Cioè, il Dipartimento USA aveva già dichiarato (non sto scherzando) che c’erano i brogli, l’OSCE lo ha ripetuto a pappagallo, e la sinistra italiana si allinea alla CIA e all’OSCE. Beh, io mi chiamo fuori, non ho intenzione di spender tempo con dei minus habentes.

La sostanza è che il Partito di Putin, proprio per aver preso il 64% dei voti, è un Partito-contenitore, c’è di tutto, dai baciapile ai sensibili al sociale, dai reazionari in odor di ladrofascismo ai professionisti (nel senso migliore del termine) della res publica. Correnti, insomma, che assomigliano sempre più a veri e propri Partiti, in un Partito che assomiglia sempre più ad un Partito unico. Beh, è solo questione di metterci d’accordo sulla terminologia, la sostanza non cambia. E la sostanza è che se gli altri non valgono nulla, non è colpa di Putin.

Sto Paese m’è cambiato sotto gli occhi. L’inflazione attorno al 10%, il PIL attorno all’8% da anni e gli stipendi triplicati nello stesso periodo di riferimento. Giusto un paio di esempi: mia suocera, ginecologa riciclata pediatra, prendeva duemila rubli quando ho conosciuto mia moglie (2003). Ora ne prende 15.000. Un macchinista di metropolitana ne prendeva ottomila, ne prende 50.000. Certo, si partiva da una situazione imparagonabile con l’Italia: in euro, la suocera ne prendeva 60 e ne prende 420, il macchinista è passato da 230 a 1.400. E ricordatevi che un chilo di carne costa 3-13 euro, un chilo di pane 0,74-1,50, un litro di latte 1,20-1,50, un kilowattora quattro centesimi.

Insomma, non solo la gente sta meglio, ma continua a migliorare ogni anno e, cosa ancor più basilare, vede una prospettiva sempre più rosea per il futuro prossimo. E vi chiedete perché la gente vota per Putin? Altro che brogli: hanno convinto persino uno come me, non so se mi spiego. E, d’altro canto, se non è per il benessere della popolazione, che la facciamo a fare, politica, noi di sinistra, in Italia?