di Dino Bernardini
Era il 1960. La “rivoluzione culturale” in Cina non era ancora iniziata, ma già in qualcuna delle tante fabbriche da noi visitate gli ingegneri e i tecnici sovietici erano in partenza о erano partiti, e non per decisione loro о del governo sovietico. Si trattava dei famosi specialisty che l’URSS aveva inviato in Cina nel quadro del grande programma di cooperazione industriale predisposto dai due governi. Presidente della Cina era allora Liu Sciao-ci, che aveva fama di moderato. Mao, ci avevano detto i nostri accompagnatori, uno dei quali era membro del Comitato Centrale della Federazione dei giovani comunisti, si era ritirato in disparte, quasi in isolamento, “a pensare”. E tanto pensò, si direbbe, che partorì l’idea del “Grande balzo in avanti” in economia con l’obiettivo di superare la produzione d’acciaio degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. In realtà, è opinione diffusa che lo scopo di Mao fosse quello di scalzare dal potere il gruppo dirigente del Partito Comunista Cinese, che lo aveva esautorato. Tant’è che uno degli slogan di maggior successo della successiva “rivoluzione culturale” fu “Sparare sul Quartier generale”. Va detto comunque che il mito dell’acciaio era allora in auge, dal tempo dei primi piani quinquennali di Stalin, anche nell’URSS, dove ogni anno la produzione del settore siderurgico cresceva a ritmi più accelerati che negli USA. L’allora segretario generale del PCUS, Nikita Chruščëv, era convinto che quando la produzione sovietica dell’acciaio avesse superato quella statunitense – e non c’era dubbio che prima о poi, continuando a quei ritmi, la cosa sarebbe avvenuta, – anche il tenore di vita dei sovietici avrebbe superato quello degli americani. In effetti, per quanto riguarda la produzione dell’acciaio, l’obiettivo fu raggiunto, quando ormai in tutto il mondo occidentale l’acciaio era stato sostituito, in molti settori produttivi, dalla plastica. Quanto al tenore di vita, lasciamo stare.
Ma torniamo all’estate del 1960. Eravamo quindici giovani comunisti italiani invitati dal Partito Comunista Cinese. Il viaggio in treno da Mosca era stato a nostro carico fino alla frontiera cinese, poi eravamo ospiti del governo cinese. Ma del viaggio in treno sulla famosa Transiberiana ho già parlato in una precedente puntata di questi miei scampoli di memoria. Tra una cosa e l’altra il nostro soggiorno in Cina durò più di un mese. Negli alberghi eravamo ospitati in due per stanza.
La prima forte impressione la ricevetti proprio il primo giorno. Il nostro treno aveva lasciato da qualche ora il posto di frontiera con l’URSS e noi stavamo affacciati ai finestrini ad ammirare il paesaggio della campagna cinese che scorreva davanti ai nostri occhi. Improvvisamente il treno si bloccò, senza un motivo apparente. Stavamo davanti a un passaggio a livello in piena campagna e c’era una piccola folla. Dopo un po’ che stavamo fermi la gente cominciò a diradare e alla fine ci accorgemmo che per terra c’era un ferito, con un braccio spezzato, in una curiosa posizione. Non so dire se fosse stato investito dal nostro treno, о se stesse lì da prima che noi arrivassimo. L’uomo giaceva bocconi, in silenzio, ogni tanto girava il collo per guardare nella nostra direzione. La gente se ne era andata ed egli era rimasto solo. Altre persone passavano accanto a lui per attraversare il passaggio a livello, ma nessuna si fermava. Dopo un po’, il nostro treno ripartì e il ferito rimase a terra. I nostri accompagnatori ci dissero che era in arrivo un’ambulanza. Ci augurammo che fosse vero.
Di città in città, quasi ogni giorno venivamo portati a visitare fabbriche e impianti. In un paio di fabbriche ci capitò di trovare mozziconi di papirosy russe nei portacenere della sala riunioni, dove probabilmente poche ore prima di noi c’era stato un incontro di addio con gli specialisty russi. Ma ciò che più ci colpì fu il fatto che, dovunque andassimo, nei cortili di qualsiasi officina, impianto, scuola о caseggiato ci venisse mostrato con orgoglio un piccolissimo forno artigianale con cui due о tre cinesi producevano un acciaio, suppongo, di non eccelsa qualità. Finalmente, dopo qualche nostro mugugno perché eravamo stanchi di visitare sempre soltanto fabbriche e impianti di produzione, ci fecero visitare un conservatorio (non ricordo più in quale città) e una università (questa la ricordo: Nanchino). Nel conservatorio avemmo un interessantissimo incontro con un pianista. – Vedete le mie mani? – disse scrutandoci negli occhi. – Vedete che c’è persino qualche callo? E’ il risultato del lavoro che ogni cittadino cinese deve svolgere nei campi per qualche settimana ogni anno. Secondo un pregiudizio borghese, chi suona il piano non dovrebbe svolgere lavori manuali pesanti, per esempio zappare о vangare. Ma il compagno Mao ci ha insegnato che così non è, – disse guardandoci fisso in faccia, quasi volesse vedere se credessimo veramente a ciò che ci stava dicendo, о facessimo soltanto finta, magari per gentilezza, о per non metterlo in imbarazzo davanti ai nostri accompagnatori, о addirittura per non creare rischi a lui о agli stessi nostri due accompagnatori, uno dei quali era l’interprete e l’altro un dirigente della gioventù comunista cinese. – Infatti, – continuò, – io ho lavorato per un mese in campagna e vi posso assicurare che suono bene come prima. – Il suo sguardo, indimenticabile, esprimeva tutto e contemporaneamente il contrario di tutto, ora sembrava che ammiccasse, ora appariva ingenuo, ora sembrava voler richiedere la nostra solidarietà, la nostra complicità.
All’università di Nanchino, dopo due о tre settimane che giravamo per la Cina, potemmo vedere per la prima volta alcune bellissime ragazze cinesi. Venimmo accolti in un grande salone e fatti accomodare su un lato. Dall’altra parte, di fronte a noi, c’erano gli studenti dell’università, ragazzi e ragazze, ma per lo più ragazze, о almeno così parve a noi giovani italiani. Venne annunciato che dopo i discorsi ufficiali gli studenti italiani avrebbero potuto fraternizzare con gli studenti cinesi e anche ballare. Così, in attesa delle danze, durante i discorsi ufficiali, noi ragazzi guardavamo incantati alcune bellissime studentesse cinesi. Alcuni di noi erano impazienti di scattare per andare immediatamente a invitare le più belle non appena fosse finita la parte ufficiale dell’incontro. Per evitare una ressa, i più intraprendenti dei nostri si misero d’accordo in modo che ciascuno sapesse esattamente quale ragazza cinese invitare e dove correre. Insomma, si erano “spartite” le più belle.
Quando finalmente, finiti i discorsi, i nostri scattarono per raggiungere le loro prede, vennero intercettati a metà strada da altrettante studentesse cinesi bruttissime, con la treccia e con i denti sporgenti, a cui era stato assegnato un preciso “compito di Partito”. Anche loro, durante i discorsi ufficiali, si erano “spartite” gli studenti italiani, ma proprio tutti, compreso me che non so ballare e che ero rimasto seduto. Adesso non ricordo se anche qualche studente cinese fosse corso a invitare qualcuna delle nostre ragazze, probabilmente sì. Ma ricordo benissimo che faticai molto a rifiutare l’invito di colei a cui ero destinato, anche lei “zannuta” e con una lunga treccia nera. Capii che era preoccupata perché poteva essere rimproverata per non avermi fatto ballare, ma fui irremovibile.
Finito il primo ballo, i nostri fecero un secondo tentativo di abbordare le belle, rimaste in piedi in fondo alla sala, ma furono di nuovo intercettati dalle brutte e alla fine si arresero. La nostra vendetta arrivò quando ci chiesero di cantare per la radio di Nanchino, in diretta, una canzone popolare italiana. Fu così che andò in onda quella trasgressiva canzonetta goliardica in cui, ad ogni strofa, si chiede alla ragazza di togliersi un capo di abbigliamento, cominciando dalle scarpe – “Te le levi le scarpette, te le levi sì о no, se non te le levi, io te le leverò!” – per finire con la biancheria intima. Cantammo tutti e quindici, consapevoli di violare le regole della buona educazione e di approfittare del fatto che nessuno lì capiva l’italiano, о almeno così speravamo. Forse, proprio perché eravamo coscienti di fare qualcosa di poco corretto, cantammo con molta foga per vincere il nostro imbarazzo, riuscendo simpatici e riscuotendo un successo strepitoso.
Tra le tante cose che adesso mi tornano in mente un po’ alla rinfusa, in assenza del mio “diario cinese” che prima о poi spero di ritrovare nella mia cantina, ricordo una visita alle rive dello Yangtze kiang, il fiume Azzurro, nel luogo in cui Mao, già anziano, aveva fatto una grande nuotata. La sera, durante la cena ufficiale, a ciascuno di noi venne regalata una piccola ciotola di coccio contenente un po’ di ghiaia prelevata dal fondo del fiume proprio nel punto in cui Mao si era esibito nella famosa nuotata. Naturalmente per cortesia accettammo il dono, ma, venendo da anni di soggiorno a Mosca, eravamo ormai vaccinati contro il culto della personalità e i commenti tra di noi furono quanto meno irriguardosi.
Ricordo anche una visita a Loyang, dove ci fecero visitare i famosi, giganteschi Budda di pietra scavati nella roccia, i più grandi, ci dissero, di tutta la Cina, о forse del mondo. Ci facemmo delle foto, dove noi, in posa ai piedi delle statue, sembravamo, e sembriamo, delle formiche.
C’era un caldo infernale, e in una riunione intorno a un tavolo, forse con le autorità locali, ma non so dire adesso se a Loyang о in un’altra città, ci venne offerto del tè bollente. Ci fu spiegato che quello era l’unico modo di combattere il caldo. Credo, oggi, che i compagni cinesi avessero ragione, ma noi non ci lasciammo convincere e chiedemmo qualcosa di freddo. La volta successiva ci offrirono mezzo cocomero fresco a testa. Scoprimmo che si poteva mangiare con il cucchiaio, come fanno i cinesi, senza che si sprechi neppure una goccia, utilizzando la buccia del mezzo cocomero come fosse una tazza.
Ma il caldo ci tormentò durante tutto il nostro soggiorno. In nessun albergo trovammo l’aria condizionata, neppure nel grande albergo di Shanghai. Una volta, dopo pranzo, mi pare a Pechino, io e il mio amico Piero Casi, che faceva coppia con me in albergo, collocammo un piccolo tavolino tra i nostri due letti e ci mettemmo a giocare a carte. Nella mia mente c’è una scena di quell’episodio che oggi mi sembra irreale, una allucinazione della memoria. A un certo punto ci accorgemmo - о almeno è così che io ricordo l’episodio – che, quando sollevavamo una mano per giocare una carta, dalle nostre dita cadevano gocce di sudore. Ma forse non è vero, forse è soltanto il ricordo del grande caldo e la lontananza nel tempo.
Una sera, mi pare a Pechino, ci capitò di vedere alcune famiglie stendere le loro stuoie in strada per passare la notte vicino a una stazione ferroviaria. Chissà se lo facevano per il caldo, о perché magari la mattina dopo, all’alba, dovevano prendere un treno, come ci spiegarono i nostri accompagnatori, oppure perché non avevano una casa.
Un giorno riuscii a fare uno scherzo a uno dei nostri ragazzi, mio carissimo amico, parlando, si fa per dire, in cinese. Ma dapprima una premessa. Poche ore dopo la partenza, ancora in territorio sovietico, R. (lo chiamerò così) aveva incontrato sul treno un cinese suo compagno di corso all’università di Mosca, il quale gli aveva chiesto se, al ritorno in URSS, poteva portare un pacchetto a una sua amica. Naturalmente R. aveva accettato e avevano fissato un appuntamento a Pechino, ultima tappa del nostro soggiorno. Una decina di giorni dopo, la nostra delegazione era in visita non ricordo più in quale città. Avevamo appena pranzato quando, rientrati nella nostra camera d’albergo, io e Piero Casi scoprimmo che la nostra finestra sul cortile interno stava dirimpetto a quella di R. Lo vedemmo muoversi nella sua stanza. Decisi di chiamarlo al telefono, ma scoprii che bisognava passare attraverso il centralino. Il centralinista parlava soltanto cinese. Avevo con me un manualetto di conversazione russo-cinese e scandii al telefono, sicuramente in un cinese molto approssimativo, le tre cifre che costituivano il numero della stanza di R.: 2, 3, 4. Il centralinista rispose qualcosa che naturalmente non capii. Ripetei 2, 3, 4. Al terzo tentativo mi mise in comunicazione con R. Non so come mi venne in mente, ma cominciai a parlare con voce da donna in russo, sforzandomi di imitare i difetti di pronuncia di alcune cinesi nostre compagne di università. Pensavo che mi avrebbe subito scoperto e che la cosa sarebbe finita lì. Invece R. mi credette. Gli dissi che ero la sorella del suo compagno di corso e gli chiesi se alle 3 del pomeriggio potevamo vederci fuori dell’albergo. Era quella l’ora fissata per la nostra partenza in pullman per la solita visita a una fabbrica. R. accettò e quando fu il momento di salire sul pullman disse che non si sentiva bene e preferiva rimanere in albergo. A quel punto – dico con il senno di poi – avremmo dovuto far finire lo scherzo con una gran risata. Invece, tutti tacemmo e tutti fummo complici. Lo lasciammo solo in albergo. A distanza di quasi mezzo secolo oggi sento di dovergli chiedere scusa.
In Cina viaggiammo per lo più in treno, ma da Hangchow fino a Shanghai navigammo per un paio di giorni lungo lo Yangtze kiang su un grande battello. Salimmo a bordo di notte e mentre aspettavamo la partenza assistemmo alle operazioni di carico e scarico delle merci, eseguite interamente a mano, senza l’aiuto di una gru. Si trattava di grossi e pesantissimi sacchi che nel buio immaginai pieni di patate, ma poteva essere carbone о altro. Quel che è sicuro, è che sentivamo la voce strozzata che usciva dalla bocca di ogni facchino nel momento in cui gli mettevano sulle spalle uno di quei sacchi da portare su una passerella in salita fin sopra la nave. Quegli scaricatori erano magrissimi, apparentemente al limite delle loro forze, e sembrava ogni volta che dovessero crollare sotto il peso dei sacchi.
Forse fu il giorno dopo, durante una lunga sosta in uno dei porti del fiume, о forse fu in un’altra occasione, ma una volta facemmo una breve escursione che mi ritorna sempre in mente. Eravamo saliti su una collina, dove vedemmo alcuni attivisti (non so se si chiamavano già guardie rosse) che stavano tenendo una specie di riunione о assemblea con un gruppo di contadini. Per illustrare meglio i loro discorsi gli attivisti si servivano di alcune litografie che stampavano lì per lì, passando con il pennello l’inchiostro su una lastra di pietra e stendendovi sopra una sottile carta di riso. Attraverso il nostro interprete chiesi se potevo acquistarne una copia. Gli attivisti rimasero stupiti, ma l’interprete riuscì a convincerli e per una somma irrisoria, l’equivalente di una decina di lire, entrai in possesso della grande litografia in bianco e nero che adesso è appesa in casa mia. Vi è raffigurato un bellissimo paesaggio, un grande fiume che scorre tra altissime montagne. Sulla volta del cielo sono impressi molti geroglifici, che un amico sinologo di Praga una volta ha decifrato con difficoltà. Sono slogan nello stile della rivoluzione culturale.
Un pomeriggio stavamo seduti in un giardino a goderci un po’ di fresco all’ombra degli alberi. Davanti a noi c’era un andirivieni di persone che attraversavano il giardino dirette chissà dove. Stranamente, ognuno che passava davanti a noi batteva le mani, un solo colpo secco, senza interrompere il cammino. Ce l’avevano con noi? Ci fu spiegato che la nostra presenza non c’entrava per niente, la gente batteva le mani in direzione di ogni albero, più esattamente in direzione degli uccelli posati sui rami degli alberi. Era in corso una campagna contro gli uccelli perché mangiavano il grano nei campi. Nel silenzio afoso del giardino, ogni colpo battuto con le mani spaventava gli uccelli e li faceva levare in volo. E poiché l’andirivieni della gente era ininterrotto, e le mani venivano battute davanti a ogni albero in tutto il giardino, i poveri uccelli erano costretti a stare sempre in volo e non riuscivano più a posarsi e a riposare. Pare che in precedenza lo stesso sistema fosse stato usato con successo contro le mosche: ogni tanto qualcuna cadeva in terra sfinita. Chissà se con gli uccelli il risultato sia stato lo stesso. Già, ma non bisogna dimenticare che i cinesi sono tanti.
[Le puntate precedenti sono state pubblicate in Slavia 2005, N°3; 2006, N°N°2, 3 e 4; 2007, N°N°1 e 3; 2008, N°N°1, 2 e 4; 2009, N°1]
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