Nel 1988 avevo 26 anni e vivevo in Italia, più precisamente a Milano. Andavo spesso a Mosca, sia per lavoro che per diporto: sono un mezzosangue. Quell’estate, in luglio dovevo partecipare ad una fiera internazionale, la “Inlegmaš”, al termine della quale entravo automaticamente in ferie.
Sono madrelingua dalla nascita, nel senso di due lingue: il russo e l’italiano. Tant’è, sono quasi 35 anni che lavoro come interprete di simultanea.
Nella mia generazione la lingua straniera più diffusa, sia in URSS che in Italia, era il francese, l’ho studiato praticamente durante tutti i miei anni da studente, a partire dalle elementari ad indirizzo francese a Mosca e poi alle medie inferiori ed al liceo scientifico a Roma. A vent’anni ero emigrato per un anno in Belgio. Vero è che vivevo a Gand, una città fiamminga, ma non conoscevo né conosco tuttora l’olandese, quindi la mia lingua di comunicazione era il francese. Quasi vent’anni dopo, agli inizi del corrente millennio, ho lavorato per un anno al Parlamento Europeo a Bruxelles, e anche qui la “lingua franca” era il francese. Insomma, ritengo di conoscerlo bene, anche se, ovviamente, non sono madrelingua.
Lo spagnolo addirittura non l’ho mai studiato: semplicemente, ho avuto a che fare con moltissimi ragazzi spagnoli, ed improvvisamente ho iniziato a parlarlo quasi come in francese. Capisco abbastanza il portoghese scritto (ma non capisco i portoghesi, mentre intuisco i brasiliani). Intendo qualcosina di serbo, riesco a spiegarmi a livello elementare.
Con l’inglese, invece, ho sempre avuto problemi, soprattutto da quando ho subito il cambio epocale della sostituzione del francese come lingua di comunicazione a livello internazionale: ies, no, mister e bebi. Tutto lì, nulla più. Va beh, esagero, ma non sono lontano dalla realtà.
Ecco, torniamo al 1988. Chiesi in ufficio di farmi il biglietto aereo di ritorno via Londra un mese dopo, pagando di tasca mia la differenza. Mi iscrissi ai corsi di inglese presso la International House di Londra. Il giorno stesso in cui arrivai, la prima domenica d’agosto, decisi di fare un giro per il centro storico. Per caso, mi ritrovai in Covent Garden per proteggermi dalla proverbiale pioggia londinese. Un tempo, c’era un mercato ortofrutticolo. In mezzo alla piazza, due scalinate che portavano in un seminterrato, e lì una bettola dall’aspetto equivoco (così m’era parso, ma sbagliavo). Erano circa le quattro del pomeriggio, all’alba ero ancora a Šeremet’evo. Decisi di entrare. L’happy hour canonica (tipo “ora felice”, mah) non era ancora iniziata, il locale era vuoto. Al banco, un unico avventore albionico, già completamente ubriaco perso. Con la lingua completamente impastata pronuncia un qualcosa che dubito manco un oriundo riuscirebbe a comprendere, figuriamoci un meticcio non anglofono, quale ero: “ua-pa-fa-plà” (accento tonico sull’ultima “a”). Più o meno. Incredibilmente, il barista, quasi a mettersi sugli attenti, gli rispose all’incirca “ies, sir!”. Fatto sta, gli portò immediatamente una birra spumeggiante ed appannata. Grazie alle altre mie quattro lingue, pur non conoscendo la lingua in questione, mi resi conto di essere in grado di riprodurre quasi ogni suono, e la mia gola era arsa dalla sete.
“Ua-pa-fa-plà”, pronunciai con la tipica sicumera giovanile. Chissà che gli ho detto, magari s’incavola e mi pesta… No, mi ha portato una birra! Porca miseria, quanto ero orgoglioso: Londra è ai miei piedi, chi se ne frega dell’inglese.
Le lezioni di inglese mi sono servite a poco, tanto più che regolarmente tiravo chiusura nelle bettole, principalmente in quella prima che avevo incrociato, più o meno verso le tre e mezzo di notte, quasi all’alba, quindi la mattina ero stordito e talvolta russavo a lezione, rischiando di farmi cacciare. Per fortuna, avevo già pagato, e mica poco. In compenso, ormai ero un maestro nelle conversazioni con gli ubriaconi. Peccato che, passato un quarto di secolo, mi ricordi poco. Come che sia, in linea di principio con l’inglese ci lavoro, anche se è la mia quinta lingua, quella che conosco peggio: chi lo sa com’è che capisco meglio l’inglese che parlano non dico gli italiani, i russi, i francesi, persino i giapponesi, piuttosto che quello parlato dagli inglesi o dagli americani. Sarà che quasi tutti i britannici, all’apparenza, soffrono d’asma, mentre gli americani hanno le patate in bocca. C’è poco da fare, le lingue è meglio impararle da giovani. E non sto qui a citare altri episodi, che non sarebbero in argomento. Pur se da ciò si potrebbe ricavare un racconto divertente.
Dunque, durante quell’agosto 1988 pian piano ho verificato che la bettola era tutt’altro che una bettola, bensì la più antica birreria di Londra, del XVIII secolo, che si chiama “Punch & Judy”, due tradizionali personaggi del teatro delle marionette inglese da strada: il gobbo Punch e sua moglie Judy. Nell’insieme, l’espressione “Punch & Judy” corrisponde all’italiano “burattinaio”.
Non è questo il punto. Ero diabolicamente curioso di capire quale fosse il senso di quella mefistofelica espressione grazie alla quale per un mese intero ho ingurgitato una indicibile quantità di litri di birra.
A un certo punto fui folgorato (sulla via albionica?) che la prima parola fosse “uàn”. Capirai che scoperta: infatti, mi portavano una birra alla volta, mica due o tre.
Man mano che progrediva il mio inglese, compresi che la seconda parola era “pàint”. Una pinta, porca miseria! D’altro canto, da loro è tutto diverso dagli umani, comprese le unità di misura.
La più grande scoperta fu quando scoprii con certezza il significato dell’ultima parola: “plìz”. Non “plà”, bensì “please”. Breve digressione. Se a un inglese ubriaco (e che non si offendano, è davvero così!) gli si dice che “la tua mamma svolge una dubbia professione, please”, non succede nulla di disdicevole. Se però gli si chiede: “oggi è una bella giornata, vero?”, senza aggiungere “please” alla fine, la scazzottata è assicurata.
Mi mancava la terza parola, cioè la penultima, del famigerato scongiuro. Solo poco prima di tornare nella penisola mediterranea mi suggerirono che si trattasse della marca della birra, ed era la Foster's australiana. Cioè, sono stato un mese a Londra a bere birra australiana!
Nel 2002, da Bruxelles, alla scadenza del mio contratto col Parlamento Europeo, piuttosto che tornare in Italia, mi sono trasferito (o sono tornato?) a Mosca, dove, finalmente, ho acquisito relativamente una certa serenità. Sarà l’età, o forse il fatto che, nove anni fa, mi sono sposato per la prima, unica e definitiva volta, e sono tuttora fuori di testa per la mia consorte, che ha avuto la disgrazia di dover sopportare un simile sciattone, o magari debbo ringraziare i nostri bambini (una figlia di otto e un figlio di due anni).
Fatto sta, due anni fa, part time (preferisco “a tempo perso”), ho iniziato a lavorare come speaker nelle trasmissioni in lingua italiana della radio di Stato “La Voce della Russia”. E’ la storica “Radio Mosca”, ha più di ottant’anni, ed è sulla altrettanto storica via Pjatnickaja. Improvvisamente, proprio su questa via ho scoperto… un pub che si chiama “Punch & Judy”! Evidentemente, era destino: quanti anni sono passati, quante cose sono cambiate nella mia vita, la geografia, ed anche semplicemente la felicità, la buona ventura umana. Lo stile è il medesimo. E pure la birra, anche se non è la Foster’s. D’altra parte, francamente, a distanza di vent’anni, ne ho assaggiate di migliori.
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