di Graziano Zappi "Mirco"
1951, Berlino Est. Il Festival Mondiale della Gioventù
Seduto davanti alla scrivania, guardo il soffitto e rivedo le sequenze delle giornate del Festival Mondiale della Gioventù. «August, im August, in Berlin», cantavamo a squarciagola. Era il 1951. In Agosto.
Le immagini si susseguono. Dalla memoria al soffitto, e poi nella mente che guida la penna che scrive. Come fosse un video proiettato sullo schermo. Ma allora non c’era il televisore e non c’erano le videocassette.
Eravamo partiti dall’Italia in duemila. Almeno così si diceva. In alcune centinaia dall’Emilia Romagna, in parecchie decine da Bologna. Era un riconoscimento generale che la delegazione italiana fosse la più numerosa di tutte quelle presenti al Festival. L’Organizzazione era di competenza dell’Alleanza Giovanile, ma il «nocciolo duro» era costituito dalla FGCI, cioè dalla Gioventù Comunista.
A Bologna salimmo sulle vecchie carrozze ferroviarie del tempo e ci ammassammo alla rinfusa sopra e sotto i sedili, sui portapacchi e nei corridoi. Giovani e ragazze. E cantavamo.
Canzoni partigiane e canzoni popolari. E il treno sferragliava verso la meta col suo tarantantan.
Da Venezia a Trieste e poi… finalmente a Tarvisio, alla frontiera fra l’Italia e l’Austria.
Presentammo i passaporti. Il controllo della polizia italiana fu accuratissimo. I passaporti vennero ritirati e riconsegnati alcune ore dopo. Al Ministero degli Interni c’era allora l’onorevole Mario Scelba. Il Festival Mondiale della Gioventù era considerato un’iniziativa comunista, quindi filosovietica, quindi sovversiva. A scrivere i nomi e i cognomi e gli indirizzi di tutti noi, avranno faticato parecchio.
Poi il treno si mosse… E ci sembrò di respirare un’aria diversa, più libera. L’Austria era allora un territorio militarmente occupato e suddiviso in quattro parti. Ognuna di esse era amministrata da una delle quattro potenze della vittoriosa coalizione antinazista: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e URSS. A Vienna, la capitale, c’era una Amministrazione militare quadripartita e la città era stata suddivisa in quattro zone. Noi arrivammo di sera. Il nostro treno si arrestò nella zona sovietica. Giovani austriaci ci rifocillarono con cibo e bevande e ci accompagnarono nei luoghi di pernottamento. Scuole e caserme, pagliericci sul pavimento e coperte militari.
Ripartimmo il giorno seguente. Gli autobus s’arrestarono per un attimo in una piazza dove su un alto piedistallo stava un carro armato sovietico fuori uso. Era il monumento ai combattenti sovietici caduti per la liberazione di Vienna dall’oppressore nazifascista. Per le strade c’era molta gente in uniforme. Erano le uniformi degli eserciti vincitori. E a noi l’Organizzazione aveva dato una direttiva: Ordine e Disciplina, evitare le provocazioni!
Il treno ci attendeva in una Stazione controllata dai militari sovietici. Nell’ammirare la Stella Rossa con Falce e Martello che spiccava sui loro copricapi, il cuore ci batteva forte.
Il treno partì e si mosse in direzione della Cecoslovacchia. La frontiera l’attraversammo di notte e non ce ne accorgemmo perché non ci furono controlli. Tutte le pratiche vennero sbrigate dall’Organizzazione. Noi di Bologna eravamo affidati a Nello Adelmi, Dante Stefani e Giorgio Mingardi dirigenti della FGCI.
La Cecoslovacchia ci salutò di primo mattino: brevi soste nelle principali stazioni di transito, bandiere svolazzanti sugli edifici, orchestre che suonavano, giovani e ragazze che ci offrivano panini e sidro di mele. Poi la frontiera con la Germania.
Ecco, ora stavamo attraversando il territorio della disastrata Germania, condotta da Hitler nel baratro della guerra, causa di lutti e rovine nel mondo, sconvolta dalla sconfitta militare. Tante e tante città distrutte dai bombardamenti dell’aviazione e dalle cannonate dei carri armati. E tanti tanti morti.
A Berlino giungemmo di pomeriggio. Anche qui esisteva un’Amministrazione Militare quadripartita ma la città era suddivisa in sole due parti. Berlino Ovest era controllata dalle tre potenze occidentali mentre Berlino Est era sotto il controllo sovietico. Non c’era ancora il Muro.
Sarebbe stato costruito molto più tardi, nell’Agosto 1961, e sarebbe crollato ancora più tardi, nel 1989. Noi fummo ospitati naturalmente a Berlino Est che fungeva da capitale dell’appena nata Repubblica Democratica Tedesca. Era qui che si sarebbe svolto il Festival.
L’Organizzazione diede la direttiva di non andare assolutamente a Berlino Ovest per non incorrere in provocazioni, e di attenersi scrupolosamente alle disposizioni della Direzione della delegazione italiana facente capo alla Direzione Generale del Festival situata sulla Alexander Platz. La gestione del soggiorno era affidata alla Ef.De.Jot, la Freie Deutsche Jugend, la Libera Gioventù Tedesca. Noi bolognesi fummo sistemati nei locali di una Scuola, dove dormivamo su brande militari in una decina per aula, e dove c’erano le mense.
Siccome noi bolognesi eravamo giunti con un certo anticipo, venimmo utilizzati per le incombenze del momento, e cioè per accogliere festosamente le delegazioni in arrivo alla Ostbahnhof, la Stazione Ferroviaria di Berlino Est. Emozionante fu l’arrivo del treno della delegazione del Komsomol sovietico. Col fiato sospeso ammirammo il locomotore che aveva sul muso una Stella Rossa con Falce e Martello fra due bandiere rosse incrociate. Era un treno di tutte carrozze letto, con le tendine bianche abbassate sui finestrini. Un’orchestra intonò le note dell’inno sovietico e dalla prima carrozza scesero i dirigenti.
Candidamente vestiti in bianco-pallide uniformi, vennero sommersi da mazzi di fiori offerti dalle ragazze della Ef.De.Jot. Era un omaggio ai «Fratelli Maggiori». Il treno si svuotò lentamente.
E noi bolognesi cambiammo piattaforma per accogliere un treno più modesto che recava alcune delegazioni africane: giovani negri vestiti nei loro costumi tribali, dal volto sorridente e di timidissimo approccio.
Poi cominciarono le giornate del Festival, che furono quindici, tutte ricolme e stracolme di iniziative che fecero conoscere a me e a tutti i presenti il volto nuovo dei giovani progressisti del mondo intero.
Si cominciò con un’interminabile parata nelle vie di quel che restava della città semidistrutta dalla guerra. Ogni rappresentanza nazionale sfilava con le proprie bandiere e i propri slogan. Ma c’erano parole comuni che tutti pronunciavano in tedesco: FRIEDEN e FREUND-SHAFT, cioè Pace e Amicizia. I gruppi più inquadrati erano quelli della Repubblica Democratica Tedesca, del Komsomol sovietico e delle Democrazie popolari dell’Europa Orientale. Mancava la Jugoslavia del Maresciallo Tito che era in polemica con Stalin. Applauditissima la delegazione della nuova Cina di Mao Tze Tung. Per l’Occidente le delegazioni più folte erano quelle dell’Italia e della Francia. Anche l’Africa, l’Asia, l’America del Nord e quella del Sud erano rappresentate, chi più e chi meno. La sfilata terminò in un immenso stadio dove ebbe luogo l’inaugurazione ufficiale con discorsi, lancio di palloncini colorati, voli di colombe.
E poi seguirono, giorno dopo giorno, i concerti, gli spettacoli teatrali, le proiezioni cinematografiche, le gare sportive, gli incontri. Si correva di qua e di là dal mattino alla sera per vedere, ascoltare, partecipare.
L’Organizzazione affiggeva nell’albo murale della scuola il calendario delle iniziative d’obbligo. Talvolta scoppiava qualche diverbio a proposito della disciplina. Gli emiliani criticavano i romani che non sottostavano alle prescrizioni organizzative, e i romani reagivano accusando gli emiliani di tendenze militariste.
I tedeschi della Ef.De.Jot invece accusavano indifferentemente gli italiani di «anarchismo» senza fare distinzioni regionali. «Voi italiani siete troppo indisciplinati, non farete mai il socialismo», esclamò una volta un compagno della SED, il Partito Socialista Unificato Tedesco, stizzito perché non osservavamo gli orari prestabiliti.
Io mi permisi di ribattere che il fascista Benito Mussolini l’avevamo giustiziato noi stessi mentre i tedeschi avevano avuto bisogno dell’Armata Rossa per farla finita col nazista Adolf Hitler.
È vero che qualcuno infranse la direttiva di non recarsi a Berlino Ovest e si permise di andare a vedere come si viveva dall’altra parte. C’era una metropolitana che collegava «i due mondi» e bastava salire su uno dei vagoni. I più curiosi lo fecero ma io no. Mi limitai a trasgredire le disposizioni assentandomi da qualche incontro fra le delegazioni per muovermi per conto mio in giro per la città. Mi attiravano soprattutto gli spettacoli dei giovani dell’URSS, il «Paese della Pace e del Socialismo», e mi incuriosivano le culture dei popoli africani e di quelli sudamericani. Dello sport non mi curavo. Non ne avevo la passione. Una volta sola mi recai in uno stadio perché bisognava «tifare» per l’atletica italiana, ma me la svignai quasi subito per gironzolare di qua e di là.
Accanto a un camion scorsi un tipo con addosso l’uniforme dell’Armata Rossa. Volevo conversare con lui ma non sapevo una parola di russo. Conoscevo soltanto le parole mir (pace) e družba (amicizia) e le dissi, ma quello se ne rimase amorfo squadrandomi dal basso in alto come per dire: «Ma questo qui che vuole da me?». Mi venne allora un’idea «brillante». Ero sicuro che avrebbe reagito entusiasticamente. E pronunciai con enfasi la parola: STALIN! Quello non batté ciglio. Mi volse le spalle e se ne andò senza pronunciare una sillaba.
Al Centro Stampa, sull’Alexander Platz, incontrai spesso Sandro Curzi, futuro direttore del TG3 e poi del giornale «Liberazione», Giovanni Berlinguer, futuro senatore, Gillo Pontecorvo, futuro regista cinematografico, Sandro Paternostro, futura star della TV.
Alla manifestazione principale sulla Marx-Engels Platz c’eravamo tutti. Era di domenica. Ci fecero alzare alla cinque del mattino per agghindarci e raggiungere il punto prefissato in una larghissima strada chiamata Leninallee. Per tenerci su fisicamente ci fu consegnato un sacchetto con pomodori e pastiglie di saccarina. Il corteo si mosse alle ore otto. Dalla via Leninallee ci istradarono sulla Via Stalinallee. Attraversammo la Alexander Platz, superammo il Rathaus, cioè il Municipio, e percorremmo la Unter den Linden, il Viale dei Tigli. Alla Marx-Engels Platz giungemmo alle ore undici esatte. Sul palco erano schierate le autorità della Repubblica Democratica Tedesca e i dirigenti della Federazione Mondiale della Gioventù e dell’Unione Internazionale Studenti. Si distinguevano tra loro il famoso generale sovietico Čujkov con il petto ricoperto da medaglie, che nel maggio ‘45 era giunto per primo coi suoi carri armati nella capitale del Terzo Reich; il segretario generale del Komsomol Michajlov, poi scomparso dalla scena politica sovietica nell’epoca di Chruščëv; il presidente Wilhelm Pieck; il primo ministro Otto Grotewohl; il leader della SED Walter Ulbricht, che nel 1961 decise la costruzione del Muro fra le due Berlino; e il dirigente della Libera Gioventù Tedesca Erich Honecker, che nel 1989 avrebbe assistito in veste di primo ministro alla distruzione dello stesso Muro. Naturalmente, usando un binocolo, si sarebbe potuto scorgere sul palco anche la esile figura dell’italiano Enrico Berlinguer, presidente della Federazione Mondiale della Gioventù Democratica. Attorno al palco erano ben visibili le rovine degli edifici sventrati dalle bombe, dalle cannonate e dagli incendi.
Ci furono molti discorsi di saluto e s’andò avanti parecchio tempo. Quattro ore! Di tanto in tanto un giovane o una ragazza s’afflosciavano a terra non reggendo alla stanchezza… e alla fame.
Il servizio di soccorso era perfetto. Agilissimi portantini in camice bianco intersecavano la folla sventolando le bianche bandierine con la croce rossa. Gli svenuti venivano messi sulle barelle e portati a un Pronto Soccorso situato sotto la cupola nerastra della vecchia cattedrale che s’ergeva sulla riva del fiume Sprea.
Indimenticabile fu il congedo dal Festival e da Berlino Est. L’ultima notte, sulla Alexander Platz illuminata dalle migliaia e migliaia di fiaccole strette nei nostri pugni, noi, giovani d’ogni parte del mondo, di pelle bianca, gialla, nera, o di colore frammisto, giurammo di non farci mai la guerra, di vivere tra noi in pace, in amicizia, in libertà.
Enrico Berlinguer pronunciò, frase dopo frase in lingua italiana, il «Giuramento per la Pace e l’Amicizia», ed ogni frase veniva tradotta in tedesco, russo, inglese, francese, spagnolo. Ed alla fine, ognuno nella propria lingua, tutti noi gridammo per tre volte: lo giuro! Seguirono le note dell’inno mondiale della gioventù, e lo cantammo tutti, ognuno nella propria lingua. Il Festival era terminato.
Intraprendemmo la via del ritorno, la stessa dell’andata. La sorpresa l’avemmo tra la frontiera dell’Austria e quella di casa nostra, dell’Italia. Al momento di rientrare in patria, i doganieri, quelli nostri, cioè italiani, si mostrarono zelantissimi, fiscalissimi come non mai. Su ogni binocolo, su ogni quadretto o statuetta, su ogni dono ricevuto, su ogni quisquilia, applicavano rigorosissimi, salatissimi dazi. Molti di noi abbandonarono gli oggetti non avendo di che pagare.
L’ordine era giunto da Roma. Era la penale da pagare per avere osato recarci in un paese dell’Est per prender parte ad una manifestazione internazionale di giovani che avevano giurato di voler vivere tra loro in pace ed amicizia. La cortina di ferro era stata oramai innalzata, la guerra fredda divideva il mondo, e i suoi veleni ammorbavano le relazioni umane.
1952. Al lavoro. L’Agit-Prop.
Nell’autunno del 1952 venni convocato all’Ufficio Quadri e mi fu proposto un incarico nella Commissione Stampa e Propaganda di Federazione. Accettai. Avevo trascorso quattro anni nel settore della formazione quadri, alla Scuola di partito e alla Scuola per sindacalisti e cooperatori.
Oramai bastava. Occorreva misurarsi nell’attività politica diretta. Pensai che l’Agit-Prop, com’era allora denominato, probabilmente secondo una terminologia di derivazione sovietica, il nostro lavoro nel settore della propaganda, fosse attinente alle mie inclinazioni. D’altronde, un funzionario di partito, com’ero ormai diventato, doveva andare dove il Partito lo chiamava.
Stando ai canoni leninisti, per agitazione si intendeva l’azione propagandistica che doveva far leva sul malcontento dei vari strati dei lavoratori sfruttati per indirizzarli alla lotta su determinate rivendicazioni socioeconomiche, mentre la propaganda aveva contenuti connessi alla lotta politica di più ampio respiro. Ad un gradino più elevato c’era poi l’azione ideologica, che doveva far leva sulla coscienza di classe e promuovere le alleanze politiche per la conquista del potere.
A quei tempi l’apparato Agit-Prop della Federazione di Bologna era così strutturato: il responsabile Lino Montanari, di origine contadina, proveniente dalle organizzazioni sindacali, era membro della segreteria federale, e indirizzava e coordinava i vari settori di lavoro attenendosi rigorosamente alle indicazioni del segretario federale Enrico Bonazzi, del quale era stato un fidato collaboratore quando questi dirigeva la Federterra.
Alla «propaganda scritta» c’era il sottoscritto, studente universitario, che doveva occuparsi, previa indicazione ed approvazione della segreteria federale, della stesura e della realizzazione tipografica di manifesti e volantini presso la C.T.O. di Via Solferino e di opuscoli presso la S.T.E.B.
La «propaganda orale» era di competenza di Eoliano Gnudi, di origine operaia, che annotava tutte le richieste di comizi, conferenze e dibattiti impegnando gli oratori del caso.
Alla nostra Commissione faceva capo il CDS (Centro Diffusione Stampa) diretto da Bruno Bassi, di origine operaia, che curava la diffusione di «Vie Nuove», «Rinascita», «Quaderno dell’Attivista», «Il Calendario del Popolo», «La Lotta», oltre che la distribuzione di volantini, opuscoli e manifesti.
La diffusione de «l’Unità» era invece di competenza dell’Associazione Amici de l’Unità, diretta da Bruno Drusilli, di origine operaia, la quale promuoveva lo strillonaggio domenicale, incentivava gli abbonamenti, stimolava la crescita dei diffusori volontari, teneva i rapporti con le edicole.
Tra i compiti della Commissione vi sarebbe stato anche il collegamento con le redazioni di «La Lotta» e de «l’Unità», ma era un’impresa difficile da realizzare. Il direttore di «La Lotta», Giuseppe Brini, un operaio di fabbrica che aveva imparato dalla scrittrice Renata Vigano a scrivere non solo articoli ma anche racconti e poesie, si rapportava direttamente con la segreteria federale, mentre il direttore della redazione bolognese de «l’Unità», Giosuè Ravaioli, esperto giornalista di professione, si riteneva subalterno esclusivamente al direttore de «l’Unità» di Milano. Alle riunioni della Commissione venivano naturalmente invitati anche i responsabili di «Stampa e Propaganda» delle cosiddette «cinghie di trasmissione» e cioè delle «organizzazioni di massa», come il sindacato, il movimento cooperativo, l’UDI.
Nel periodo in cui rimasi all’Agit-Prop, a tali compiti istitutivi si aggiunse la promozione di una Associazione Radioascoltatori Italiani (ARI), il cui scopo doveva essere quello di protestare contro il monopolio radiofonico democristiano e contro la faziosità anticomunista delle radiotrasmissioni. Ricordo in proposito un «fallo» da me commesso, che fece ridere chi se ne accorse.
Il conferenziere invitato all’assemblea costitutiva di tale Associazione era il noto giornalista-scrittore italiano Tommaso Smith, poi divenuto direttore di «Paese Sera». Ebbene, sul manifesto affisso nelle sezioni comuniste e nei CRAL io avevo scritto che avrebbe parlato «Adamo Smith», cioè il teorico dell’economia liberale inglese. L’economia politica studiata e insegnata alla Scuola «Anselmo Marabini» si era intrufolata nella mia testa causando il «lapsus».
Tommaso Smith si fece una bella risata e volle portarsi a Roma una copia del manifesto come ricordo.
Non era d’altronde la prima volta che sbagliavo il nome di un oratore. M’era già accaduto quand’ero segretario della sezione comunista di Bubano. A tenere un comizio doveva venire da Bologna il generale Zani. Da Imola mi avevano comunicato solo il cognome non conoscendone il nome. Ed io il nome lo inventai, cercando che fosse consono ad un generale. Scrissi perciò sul manifesto: «Parlerà il generale Sigismondo Zani». E invece si chiamava semplicemente «Francesco Zani».
Un altro settore affidato alle nostre cure, e precisamente alla «propaganda scritta», era quello della promozione e del controllo dei «giornali di fabbrica» sorti in molte delle maggiori fabbriche bolognesi. Io tenevo i necessari contatti e organizzavo le riunioni dei capiredattori per favorire lo scambio delle esperienze e concordare l’orientamento politico. Cercavo anche di stimolare il contatto fra i redattori dei giornali di fabbrica e i giornalisti de «La lotta» e de «l’Unità».
I temi della nostra propaganda erano quelli della pace, del lavoro, della libertà, della giustizia. La guerra fredda fra il campo socialista e il campo capitalista nel mondo aveva avuto conseguenze in ambito nazionale con la cacciata delle sinistre dal governo. Noi addossavamo la responsabilità della guerra fredda all’imperialismo angloamericano ed eravamo schierati a favore dell’Unione Sovietica, «baluardo della pace e del socialismo nel mondo». Condannavamo la politica estera di Churchill e di Truman ed esaltavamo la politica estera di Stalin. Fummo quindi contrari alla politica del ricatto atomico, all’intervento statunitense in Corea, alla creazione della CED, dell’UEO, della NATO. Esaltavamo le iniziative del Movimento dei partigiani della pace, quali l’Appello di Stoccolma, l’Appello di Berlino e la Conferenza di Bandung. Sul piano nazionale la nostra propaganda si muoveva sostanzialmente secondo le linee dell’elaborazione togliattiana della «democrazia progressiva», che sfociò poi nella «via italiana al socialismo» e successivamente nella «via democratica e pacifica al socialismo».
Nel sostenere le rivendicazioni degli operai e dei braccianti per il lavoro e migliori salari, nel protestare contro le violenze della «Celere» scelbiana, cui veniva ordinato di caricare e sparare contro i braccianti che occupavano le terre incolte, o contro gli operai che scioperavano opponendosi ai licenziamenti, nel difendere le libertà politiche e civili spesso colpite dai divieti imposti dalle autorità a manifestazioni di piazza o a pubbliche affissioni di manifesti, noi ci richiamavamo sempre ai diritti sanciti nella Costituzione repubblicana, frutto dell’unità delle forze antifasciste e resistenziali.
Oltre ad impegnarci su queste tematiche noi dell’Agit-Prop dovevamo occuparci pure delle campagne fissate nel calendario di ogni annata politica. Il 21 gennaio si ricordava l’importanza storica della nascita del PCI a Livorno nel 1921. Il 25 aprile si illustrava il valore del contributo dei comunisti in sacrifici e sangue all’Antifascismo e alla Resistenza. Il 7 novembre si valorizzava il significato della Rivoluzione d’ottobre, del sistema socialista mondiale e della solidarietà internazionale antimperialista.
Impegni indifferibili erano altresì le campagne annuali del tesseramento al Partito e del mese della stampa comunista, scandito dalle Feste de «l’Unità» che si protraevano da luglio a settembre.
E naturalmente l’Agit-Prop era in primo piano durante le campagne elettorali. Tali momenti mobilitavano i compagni in conferenze e dibattiti e comizi, e spesso su loro richiesta occorreva fornire gli «schemi» o le «scalette» di appunti per facilitarli nella loro preparazione.
Tali «schemi» venivano compilati secondo un ordine ben preciso: il quadro internazionale, l’attualità italiana, la polemica con gli avversari, le posizioni del PCI.
La vita dei funzionari di partito e delle organizzazioni di sinistra era a quei tempi ricolma di impegni diurni e serali senza distinzione tra giorni feriali e giorni festivi. Si correva sempre per riunioni in città e in provincia.
Di tanto in tanto c’erano riunioni a Roma. Per le trasferte vigeva la costante raccomandazione dell’amministrazione di contenere al massimo le spese di trasporto, di vitto, di alloggio. E noi si ubbidiva. «Bisogna risparmiare i soldi che provengono dai lavoratori», ci rammentava di continuo l’amministratore Giorgio Bonetti. Anche gli stipendi erano allora bassissimi, sotto i livelli dei salari operai. E noi trovavamo che fosse giusto così. C’era chi aveva consumato la propria giovinezza in carcere o aveva sacrificato la propria vita per la causa. Noi non potevamo dunque lamentarci.
Per recarmi a Roma io prendevo un treno dell’una o delle due di notte, dormivo in cuccetta, giungevo a Roma verso le sette o le otto del mattino, mi recavo alla riunione nel palazzo di Via Botteghe Oscure e alla sera ripartivo senza la cuccetta per Bologna, dove arrivavo di notte. Al mattino correvo al lavoro in Via Barberia. Eravamo giovani, eravamo entusiasti, sicuri di costruire un mondo nuovo, di libertà, di giustizia, di eguaglianza, di dignità umana. Se per caso la riunione a Roma durava due o tre giorni, allora sceglievamo una pensione a buon mercato. Ne ricordo una dalle parti del Colosseo in una stradina affollata di gatti. La vecchia padrona ci mostrava una stanzetta con tre letti appiccicati l’uno all’altro e il gabinetto in fondo a un lunghissimo corridoio. Io, il compagno di Modena e il compagno di Reggio Emilia ci coricavamo senza osare controllare se le lenzuola erano o no pulite perché temevamo il contrario. Ci addormentavamo rimuginando su quanto avremmo dovuto dire nelle riunioni alle quali prendevano parte i dirigenti: Giancarlo Pajetta e Mario Alicata.
Fu durante una di quelle riunioni a Roma che il compagno Mattioli dell’Agit-Prop di Modena mi accennò a cosiddette «discrepanze» fra Antonio Roasio, segretario regionale del PCI, e Giuseppe Dozza, sindaco di Bologna. Sembra che Roasio rimproverasse a Dozza un eccessivo «bolognesismo» e un’eccessiva autonomia dal Partito. Mattioli avrebbe appreso tali voci da Vincenzo Galletti, che a sua volta le avrebbe apprese da Giuseppe D’Alema, ambedue allora collaboratori del Comitato Regionale. A Bologna, io riferii di tali voci a Lino Montanari, mio responsabile, e la mattina seguente fui chiamato in segreteria al cospetto del segretario federale Enrico Bonazzi, che mi disse di mettere tutto per iscritto «se-du-ta-stan-te».
Mi porse un foglietto. E io non potei far altro che scrivere «quelle voci» su quel foglietto. Il segretario lo prese, lo lesse, aprì un cassetto della scrivania e ve lo depose. Nel congedarmi mi sussurrò: «Queste voci non van ripetute a nessun altro». Non aggiunse altro e io me ne uscii.
Con Bonazzi era difficile avere conversazioni a cuore aperto. Pochi compagni, che io ricordi, avevano l’ardire di sostenere pubblicamente idee diverse dalle sue. Tra questi c’erano Paolo Fortunati, docente universitario, l’economista Renato Cenerini, assessore al bilancio del Comune di Bologna, Giuseppe Gabelli, professore di filosofia, e anche Gianni Bottonelli, figura prestigiosa della Resistenza bolognese, capace con la sua oratoria di avvincere il pubblico dei suoi comizi per la durata di tre o quattro ore. Verso costoro Bonazzi mostrava una certa deferenza. Lui era un autodidatta mentre loro erano intellettuali solidamente inseriti nel mondo della cultura ufficiale. Ma verso i semplici compagni dell’apparato Bonazzi non era solitamente molto affabile. Ricordo un suo scatto d’ira nei confronti di Giancarlo Negretti, responsabile, durante una campagna elettorale, della distribuzione del materiale propagandistico alle organizzazioni di base.
Una spedizione di manifesti e volantini non era stata fatta in modo tempestivo e Bonazzi s’infuriò. «Chi commette tali manchevolezze – gridò – o è un cretino o fa il gioco dell’avversario, e a noi non servono né l’uno né l’altro». E se ne uscì dalla stanza del Centro Diffusione Stampa lasciando Giancarlo Negretti esterrefatto e sconsolato. Dopo pochi giorni le cose si aggiustarono e le relazioni tra Bonazzi e Negretti si «rinormalizzarono» con una tazzina di caffè al «Bar dell’Angolo».
Ma tali «scoppi d’ira» non potevano non lasciare un segno sul malcapitato del momento. Del resto, anche se non si può dire che fosse molto amato, Bonazzi era molto rispettato, e veniva «perdonato» per le sue spigolosità caratteriali. Era considerato un uomo tutto d’un pezzo, un incorruttibile. Proveniva da Sala Bolognese, dov’era nato nel 1912. S’era fermato alla quinta elementare e faceva il calzolaio. Arrestato nel 1935, era stato condannato dal Tribunale Speciale a vent’anni di galera «per attività comunista». Aveva trascorso dieci anni nelle carceri fasciste e non s’era mai piegato, s’era formato una cultura alla «Università del carcere», leggendo libri di giorno e di notte. Aveva acquisito, si può dire col sudore della fronte, la capacità di scrivere articoli e di parlare in pubblico. Ed era d’esempio su come coltivare «il legame con la base». Per lui esisteva unicamente il Partito, ed asseriva che al Partito necessitava sacrificare tutto: l’amore, la famiglia, il tempo libero.
A quei tempi i «rivoluzionari di professione», quali noi ci consideravamo, ragionavano come lui.
Io, per esempio, a un compagno più giovane che mi chiedeva quali fossero per me i beni più preziosi, risposi: «il Partito, la mia biblioteca, la famiglia, in questo ordine!» Per esaltare l’inossidabile tempra della personalità di Bonazzi noi citavamo il lunghissimo sciopero dei coloni della Bassa Bolognese, che lui aveva diretto come segretario della Federterra. Le mucche nelle stalle erano ridotte allo sfinimento per la mancanza di nutrizione ed era penosissimo ascoltare i loro muggiti da fame. Ma alla fine fu l’Associazione degli Agrari Bolognesi a cedere e a piegare la testa.
1953. La morte di Stalin e la «Legge truffa»
Del periodo in cui rimasi a lavorare all’Agit-Prop ricordo in particolare l’impegno profuso in occasione della morte di Stalin, avvenuta nel marzo 1953, che suscitò tanta emozione in noi comunisti e che fu motivo di cordoglio degli esponenti degli altri partiti antifascisti.
Sulle nostre sedi comparvero le bandiere rosse abbrunate e in numerose sezioni si tennero commemorazioni. Noi dell’Agit-Prop allestimmo nell’atrio dell’Università Popolare, sotto il portico di via dei Musei, nel centro di Bologna, una camera ardente simbolica con un grande ritratto di Stalin listato a lutto, contornato da drappi e fiori rossi con accanto un tavolo su cui c’era un grosso album sul quale apporre frasi di condoglianza e firme. Firmarono anche molti non comunisti poiché gli riconoscevano il merito d’aver contribuito in maniera decisiva alla sconfitta del nazifascismo. Inviammo poi il grosso album all’ambasciata dell’Unione Sovietica a Roma quale testimonianza dell’affetto del popolo bolognese per il grande Stalin. Ai piedi del catafalco si ammucchiarono molte corone e molti mazzi di garofani rossi recati da singoli cittadini e da varie organizzazioni. Della delegazione del PCI presente ai funerali di Stalin a Mosca fece parte, con Palmiro Togliatti e Giorgio Amendola, anche il sindaco Giuseppe Dozza. In rappresentanza del PSI vi era Pietro Nenni. Insieme ascoltarono sulla Piazza Rossa i discorsi di congedo da Stalin pronunciati da Malenkov, Molotov e Berija.
La commemorazione ufficiale presso il comitato federale e poi in apertura del congresso della Federazione comunista fu tenuta al ritorno da Mosca da Giuseppe Dozza. Il discorso commemorativo nel Consiglio comunale di Bologna fu pronunciato da Enrico Bonazzi, segretario della Federazione comunista, che disse tra l’altro: «Si è spenta nel mondo una grande luce. La vita di un gigante del pensiero e dell’azione umana è cessata. Il nome di quest’uomo è Giuseppe Stalin. Un’epoca storica, quella attuale della trasformazione socialista della società umana, porta il suo nome. Un uomo della statura di Stalin, prima di appartenere ad un partito, appartiene all’intera umanità». L’ho ripreso dal resoconto pubblicato su «La Lotta», il settimanale della Federazione comunista bolognese.
Per noi dell’Agit-Prop il dolore per la morte di Stalin, «discepolo e continuatore dell’opera di Lenin», fu sincero e profondo, ma non poté durare a lungo. Davanti a noi si presentava l’impegnativa, decisiva battaglia delle elezioni del 7 giugno 1953 per il rinnovo del parlamento della Repubblica italiana.
La Democrazia Cristiana, con l’appoggio di PSDI, PLI e PRI, aveva approvato una legge elettorale maggioritaria, da noi battezzata «legge truffa», mediante la quale un gruppo di liste apparentate che avesse ottenuto il 50% più uno dei voti avrebbe ricevuto i due terzi degli eletti. Era il cosiddetto premio di maggioranza che avrebbe dovuto garantire la governabilità.
La campagna elettorale fu accesissima. Gli elettori furono inondati da manifesti, opuscoli, volantini. I comizi, le conferenze, i dibattiti si tennero in numero incalcolabile. La televisione era stata inventata da poco e il possesso di un televisore era ancora una rarità. Il confronto avveniva nelle piazze, nelle sale cinematografiche e teatrali, nei cortili delle case, nei crocevia delle strade, nelle visite casa per casa. E ognuno portava le proprie argomentazioni. I democristiani amavano attaccarci denunciando l’assenza di libertà nei paesi governati dai comunisti. Un «Comitato Civico» diretto dal presidente dell’Azione Cattolica, Luigi Gedda, organizzava nelle città italiane le «Mostre dell’Aldilà», che ammonivano gli elettori a non trasferire in Italia le forche di Praga, le Chiese del Silenzio, i lavori forzati, cioè a non trasferire l’«Aldilà» comunista nell’«Aldiquà» democratico e cristiano. Il clero scese massicciamente in campagna elettorale a favore della DC, facendo perno sulla «scomunica» decretata il 15 luglio 1949 da Papa Pio XII contro i comunisti. E come era già accaduto nella precedente campagna elettorale del 18 aprile 1948, anche stavolta scesero in campo nella crociata anticomunista diversi «microfoni di Dio», come il gesuita Padre Lombardi, e qua e là ci furono Madonne che lacrimavano o muovevano gli occhi. Noi ribattevamo denunciando la mancanza di lavoro e di libertà in Italia, stigmatizzando la corruzione di certi governanti italiani da noi ridicolizzati con il nomignolo di «forchettoni». Fu così che accanto ai manifesti democristiani con le «forche» noi affiggevamo i nostri manifesti con le «forchette».
Io girai l’intera provincia, nei giorni feriali e festivi, impegnato in riunioni, comizi, contradditori, per lo più in pianura e qualche volta in città e in montagna. Nel nostro argomentare rientrava la denuncia della «legge truffa» come copia di quella «legge Acerbo» che aveva assicurato la vittoria del fascismo nelle elezioni del 1924. Se fosse scattata, il voto di un elettore vincente avrebbe pesato nel futuro Parlamento per il 75 per cento mentre il voto di un elettore perdente solo per il 25 per cento. Era anticostituzionale. E con una maggioranza dei due terzi si sarebbe potuto modificare la stessa Costituzione repubblicana fondata su valori democratici e antifascisti.
I dibattiti erano affollatissimi. Il pubblico seguiva con passione le ragioni dei sostenitori e degli avversari di quella legge. Ricordo un contraddittorio che ebbi nel teatro di Minerbio con l’onorevole Anselmo Martoni, sindaco socialdemocratico di Molinella. Il teatro era stracolmo.
C’erano delle regole da rispettare come in un incontro di pugilato. Il presidente concesse venti minuti a testa per l’introduzione, poi seguirono delle riprese di dieci minuti e quindi di cinque minuti.
Il pubblico rumoreggiava chi a favore e chi contro. Poi ci furono gli interventi della platea.
Avevamo iniziato alle ore venti. A mezzanotte il presidente-giudice di gara ci fece concludere assegnando cinque minuti a ciascuno. Alla fine i compagni si dissero soddisfatti perché erano convinti che il match l’avevamo vinto noi.
A Baricella invece le cose si svolsero diversamente. Ero stato nella frazione Boschi a tenere una riunione di giovani col solito motorino Ducati della Federazione Giovanile Comunista. Al ritorno, poco prima di mezzanotte, passai per il centro di Baricella. C’era un comizio dell’onorevole Luigi Preti, ministro socialdemocratico. Mi fermai ad ascoltare e poi salii le scale del palazzo comunale sul cui balcone stava l’oratore. Chiesi la parola, e il ministro, gentilissimo, accondiscese. Ci scambiammo alcune battute. Il pubblico era composto in maggioranza da elettori socialdemocratici. Molti applausi quindi per Preti, ma anche per me ci furono grida d’approvazione da parte dei compagni accorsi dal vicino Circolo CRAL. Alla fine, sulla piazza antistante il Comune, io e Luigi Preti ci salutammo stringendoci la mano. Lui partì in direzione di Ferrara su una grossa auto ministeriale guidata da un elegantissimo autista, mentre io inforcai il mio Ducatino per rientrare a Bologna. I compagni mi salutarono con grandi pacche sulle spalle: «La ragione l’abbiamo noi, si vede dal mezzo di trasporto. Lui, il ministro, su un macchinone di lusso, e tu su un misero motorino. Si vede da qui chi sta coi padroni e chi sta coi lavoratori. E poi quelli si dicono socialisti democratici?!».
Forse l’argomentazione dei compagni di Baricella non era molto valida ma ogni idea era buona se colpiva l’avversario.
In un contraddittorio a Pieve di Cento, ad esempio, l’oratore democristiano, l’avvocato Alberto Alberti, che era consigliere comunale a Bologna, riscosse l’ovazione del suo pubblico quando, per dimostrare che noi comunisti italiani eravamo al servizio di Mosca, pronunciò con enfasi queste parole: «Lo dimostra anche il fatto che l’oratore comunista qui presente si chiama Mirco, che è un nome russo». Non valse a nulla che io spiegassi che io mi chiamavo Graziano, che Mirco era un nome non russo ma jugoslavo, e che era il mio nome di battaglia da partigiano. Lui controbatté: «Ma Lei che mi va raccontando. Sul manifesto c’è scritto Mirco e non Graziano. Che il nome sia jugoslavo e non russo non importa. E’ sempre un nome d’oltrecortina, no?». E riscosse l’applauso dei suoi.
Man mano che ci si avvicinava al giorno delle votazioni l’atmosfera dei dibattiti si riscaldava sempre più. A Mordano mi scontrai con l’onorevole Giovanni Elkan della Direzione Nazionale della DC. Cominciammo parlando della legge elettorale e del perché votare per l’uno o per l’altro, ma poi il «nocciolo della polemica» si spostò. Elkan cominciò a parlare delle forche di Praga e della ferocia comunista, sia di quella dell’aldilà e sia di quella dell’aldiquà, e ricordò un fatto di sangue accaduto nel novembre ‘48 a San Giovanni in Persiceto: l’uccisione, da parte dei rossi, del sindacalista cattolico Giuseppe Fanin. Ed io controbattei ricordando il bracciante Loredano Bizzarri ucciso da un agrario e la mondina Maria Margotti uccisa dalla polizia di Scelba nel 1949. E proseguimmo così con gli animi accesi.
Accesi sì, ma non tanto come una sera a Portonuovo di Medicina. Il comizio l’avevo tenuto io. Alla fine si avvicinò al palco un frate e chiese la parola. Acconsentii. Si chiamava Padre Toschi. Faceva parte dei cosiddetti «Frati Volanti» che con il beneplacito del Cardinale Lercaro, trasferito da poco da Ravenna a Bologna, avevano scatenato una «sacrosanta crociata contro il comunismo» per sconfiggere « il demone bolscevico» in Bologna città e nei dintorni.
Il frate iniziò il suo irruento eloquio ricordando che noi comunisti eravamo degli scomunicati, che chi avesse votato per noi sarebbe incorso nella medesima sanzione, poi fece un excursus storico sulle malefatte dei bolscevichi: le monache violentate dai rossi in terra di Spagna, le Chiese incendiate o trasformate in granai in terra di Russia, i preti messi in carcere nell’Europa dell’Est, i crimini commessi dai partigiani comunisti nel «triangolo della morte» in Emilia Romagna. Additandomi alla folla, Padre Toschi terminò così il suo discorso: «Non votate per costoro che hanno le mani sporche di sangue!» Sembrava un Torquemada. Io ero esterrefatto, il pubblico sembrava agghiacciato da tanta violenza verbale. Io mi stavo avviando lentamente al microfono rimuginando mentalmente su come reagire, quando un secondo «frate volante» s’avvicinò al palco facendo un segno al confratello. Padre Toschi scese lestamente dal palco e lo seguì. Se ne andarono senza una parola di congedo. «Ecco – dissi allora io al microfono – guardate Padre Toschi che se ne va di soppiatto senza neppure salutare. Lui ha la coscienza sporca. Io invece ho le mani pulite». E le mostrai. Il pubblico, che era nostro, scoppiò in uno scroscio di applausi. Me l’ero dunque cavata. Proseguii parlando della legge truffa e di come votare.
La domenica successiva volli prendermi una rivincita e mi recai al Cinema Centrale di Bologna in via Rizzoli dove c’era un comizio democristiano. Dalla sala lanciai alcune interruzioni polemiche sul tipo di quelle famose lanciate dall’onorevole comunista Giancarlo Pajetta a Montecitorio contro i colleghi democristiani. Il mattino seguente, in Via Barberia, Enrico Bonazzi, che sapeva già tutto, mi apostrofò: «Tu devi controllarti maggiormente, noi non siamo dei “frati volanti”, e tu non eri a Montecitorio».
Passarono gli anni ed anche i «frati volanti» scomparvero. Sul soglio pontificio salì Papa Giovanni XXIII. Il sindaco comunista Giuseppe Dozza si recò alla stazione ferroviaria a porgere l’omaggio della città al Cardinale Giacomo Lercaro che rientrava dal Concilio Ecumenico Vaticano Secondo. Padre Toschi si dedicò alla musica d’organo, a composizione ed esecuzione. Recentemente s’è impegnato nel promuovere soggiorni estivi al mare per i bambini di Černobyl’. L’ho incontrato recentemente e non abbiamo parlato di quei «giorni di ferro e di fuoco».
Ma torniamo alla campagna elettorale del 7 giugno 1953. Molto più tranquillo fu un comizio che tenni a Granaglione, un feudo democristiano nell’Alto Appennino bolognese. I compagni del luogo mi caricarono su un’auto sormontata dall’altoparlante e mi condussero sul sagrato della Chiesa. Era domenica, l’ora della Messa. «Tu comincia a parlare quando la gente comincia ad uscire di Chiesa», mi dissero i compagni. Ed è così che feci, ma la gente che usciva di chiesa non si fermava sul sagrato e proseguiva il suo cammino. Era l’ora del pranzo. Perché perdere tempo ad ascoltare un comunista? Il parroco aveva già spiegato dall’altare «per chi, perché e come votare». Io mi limitai a lanciare alcuni slogan, alla svelta.
L’ultimo dibattito sulla «legge truffa» lo tenni in città al Cinema Vittoria del Ponte vecchio.
Avevo come contraddittore l’avvocato Pietro Crocioni, esponente del PSDI, che qualche anno dopo sarebbe passato al PSI divenendo vice sindaco di Bologna. Eravamo ormai tutti stanchi, noi di dibattere e gli elettori di ascoltare. Chi era lì c’era per «spirito di partito». Ricapitolammo i termini della campagna elettorale, con reciproco rispetto. E ci congedammo cordialmente.
Qualche giorno dopo, il 7 giugno, il popolo italiano depositò le proprie schede nelle urne. Noi oppositori della «legge truffa» ottenemmo la vittoria anche se di stretta misura. Alle liste apparentate, DC, PSDI, PLI, PRI, mancarono pochi voti per raggiungere il 50% più uno. La legge truffa non passò.
Quell’anno, il Mese della Stampa comunista si tenne all’insegna di un grande lutto e di un grande successo: la morte di Stalin e la sconfitta della legge truffa. All’ultimo momento ci accorgemmo che in quell’anno Palmiro Togliatti compiva i sessant’anni e allora decidemmo di celebrare anche quella ricorrenza: era il nostro Capo.
I tre eventi furono al centro delle migliaia e migliaia di Feste de l’Unità che si tennero nell’Italia intera. E naturalmente Bologna fu come sempre d’esempio.
Conservo «i provini» di un dettagliato servizio fotografico realizzato dal bravissimo fotoreporter Enrico Pasquali, d’origine medicinese, al festival provinciale de «l’Unità» del settembre 1953, l’ultimo che l’autorità prefettizia ci consentì di tenere ai Giardini Margherita. Sul portale d’ingresso, sotto la testata de «l’Unità», stava scritto: «L’Italia ha vinto. I truffatori respinti». La parata degli Amici de «l’Unità» fu aperta dal gruppo dirigente del PCI. Allineati in prima fila c’erano: Enrico Bonazzi segretario federale, Claudio Melloni organizzatore, Giuseppe Dozza sindaco, Antonio Roasio segretario regionale, il professore Paolo Fortunati senatore, Leonildo Tarozzi deputato, Gianni Bottonelli presidente dell’ANPI, Agostino Ottani dirigente della Federcoop, Onorato Malaguti segretario della Camera del Lavoro. Nel lunghissimo corteo che attraversò le vie del centro cittadino ci furono anche un grande cartello che riproduceva la copertina del primo volume delle «Opere Complete» di Giuseppe Stalin, portato a spalla dagli allievi della Scuola Centrale Quadri «Anselmo Marabini», due gigantografie su vetro a specchio realizzate dai compagni della Cooperativa Vetrai, una di Stalin e una di Togliatti, un enorme stemma dell’URSS e una piattaforma sorretta da sei robusti giovanotti sulla quale, accanto al frontespizio della Costituzione italiana, c’era una bellissima ragazza che sventolava il tricolore. Dalla palazzina dei Giardini Margherita presero la parola Dozza e Bonazzi.
Sui frontoni dei numerosi stand, fra le scritte inneggianti alla pace, al progresso, alla libertà, alle lotte operaie, al movimento cooperativo, campeggiavano anche le seguenti: «Il nome immortale di Stalin vivrà per sempre nel cuore dell’umanità amante della pace e del progresso», «Avanti nel nome e sotto la guida di Togliatti per la pace, l’indipendenza e l’avvenire d’Italia!».
1954-1955. Segretario delI’Italia-URSS
Fu nel 1954 che nel «percorso» della mia vita si verificò la «svolta» che mi avrebbe fatto muovere i passi nel campo delle relazioni italo – sovietiche. La Segreteria della Federazione comunista decise di assegnarmi l’incarico di Segretario dell’Associazione Italia-URSS di Bologna.
Non è che l’URSS non fosse stata nel mio cuore anche in precedenza. Come tutti i comunisti di quegli anni, anch’io tenevo lo sguardo rivolto verso la terra della rivoluzione d’ottobre, la patria di Lenin e di Stalin, dove brillava «il sole dell’avvenire».
Il nostro «mal di Russia» affondava le radici nei sentimenti di speranza nutriti dai vecchi antifascisti per la «patria del socialismo». In piena dittatura fascista avevo letto i «viva Lenin» e «viva Stalin» scritti di notte in vernice rossa da mani anonime sui muri screpolati del borgo natio.
Durante la guerra avevo colto il doloroso sospiro di chi ascoltava di nascosto le notizie di Radio Londra sull’avanzata dei nazisti verso Mosca e Leningrado.
«Il passato non può sconfiggere l’avvenire» – bisbigliava il capo dell’organizzazione comunista clandestina locale. E poi avevo scorto la gioia negli occhi di chi bisbigliava d’aver appreso che l’Armata Rossa aveva vinto a Stalingrado.
Ecco, il mio «mal di Russia» proveniva di lì. Fra le mie prime letture giovanili c’erano stati questi libri: «Guerra e Pace» di Lev Tolstoj, «Umiliati e offesi» di Fëdor Dostoevskij, «La Madre», « La Spia» e « Nelle carceri russe» di Maksim Gor’kij.
Durante la guerra partigiana, nelle formazioni dell’Appennino o della Bassa Imolese, il tema del «lontano ma vicino paese dove regnavano la libertà dal bisogno, la giustizia sociale e l’uguaglianza» era stato sempre presente nelle conversazioni che l’anziano «commissario politico» intratteneva con i giovani «garibaldini» che portavano la stella rossa sul berretto ed amavano cantare «Fischia il vento» e «Attraverso valli e monti» su motivi musicali di derivazione russa.
Nel dopoguerra infine, anch’io, come gli altri comunisti, avevo condiviso quella che molto più tardi sarebbe stata chiamata «la doppia linea togliattiana»: la democrazia progressiva come via italiana al socialismo e l’internazionalismo proletario, al cui centro era l’Unione Sovietica come baluardo di pace contro l’imperialismo e come sostegno delle lotte di liberazione dei popoli oppressi.
Alla Scuola di Partito avevo letto le principali opere di Lenin: «Che fare», «Stato e Rivoluzione», «L’imperialismo fase suprema del capitalismo», «L’estremismo malattia infantile del comunismo», contenute nei due volumi rilegati in blu di complessive pagine 1.596 pubblicati dalle Edizioni in lingue estere di Mosca nel 1947-1948. Ed avevo letto naturalmente gli articoli e i discorsi di Stalin contenuti nel volume rilegato in rosso di complessive pagine 664 pubblicato sempre dalle Edizioni in lingue estere di Mosca nel 1946. E non avevo certo omesso di studiare la «Storia del P.C.b. dell’URSS» contenuta nel volume rilegato in grigio pubblicato sempre dalle Edizioni in Lingue Estere di Mosca nel 1949, e considerato allora una specie di Vangelo per i comunisti del mondo intero.
Alla Scuola di Partito avevo anche tenuto qualche lezione sul sistema politico ed economico sovietico «che aveva liquidato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo socializzando la proprietà dei mezzi di produzione» e che dopo aver attuato il principio socialista «da ognuno secondo le sue capacità e ad ognuno secondo il suo lavoro», tendeva ad attuare il principio comunista «da ognuno secondo le sue capacità e a ognuno secondo i suoi bisogni». Era un sistema – avevo affermato – che si ispirava ai fondamenti del materialismo dialettico e storico enunciati da Karl Marx e Friedrich Engels e sviluppati e aggiornati da Lenin e Stalin.
Alla Scuola ero stato un appassionato cultore della nuova letteratura sovietica ed avevo fatto conoscere agli allievi molte pagine di libri come «Il placido Don» di Michail Šolochov, «Come fu temprato l’acciaio» di Nikolaj Ostrovskij, «La Giovane Guardia» di Aleksandr Fadeev, «I giorni e le notti» di Konstantin Simonov, «Un vero uomo» di Boris Polevoj. E sulla rivista «Rassegna Sovietica» leggevo attentamente gli articoli sulle conquiste della scienza e della tecnica sovietiche e non mi lasciavo sfuggire le novità della pedagogia (Makarenko, Krupskaja, Kalinin) e della biologia (Oparin, Mičurin, Lysenko).
Forse fu appunto per questa mia attenzione verso il mondo sovietico che venni dirottato dall’Agit-Prop all’Associazione Italia-URSS.
A Bologna l’Italia-URSS era comparsa nell’immediato dopoguerra ad opera di Paolo Betti, uno dei fondatori del PCI, perseguitato politico antifascista, impegnato nella Resistenza e poi consigliere comunale e provinciale a Bologna, sempre sulla breccia della lotta politica fino all’ultimo respiro. C’erano poi stati come segretari Leonildo Tarozzi, collaboratore del gramsciano «Ordine Nuovo», Serafino Santi, Linceo Graziosi, Giancarlo Grazia, tutti provenienti dall’esperienza resistenziale. La sede si era spostata da Via Monari in Via Lame e quindi in Piazza Malpigli, da dove io la trasferii in Via San Felice numero 2 per poter disporre di locali più spaziosi e soprattutto di una sala per conferenze e proiezioni.
Al momento del mio arrivo in Associazione, anche a Roma s’era verificato un importante mutamento di direzione. Al segretario generale Giuseppe Berti, proveniente dalle esperienze della clandestinità antifascista e dell’esilio in Russia, Francia e Stati Uniti, era subentrato Orazio Barbieri, proveniente dall’esperienza della guerra di liberazione in Toscana.
Il «cambio della guardia» era stato deciso da Botteghe Oscure agli inizi del 1953. La gestione Berti era stata criticata per eccessivo propagandismo filosovietico.
L’Associazione, nata nel 1944, aveva tenuto il suo primo Congresso nel 1949. Era il periodo dell’aspra contrapposizione fra i due blocchi del mondo, della «cortina di ferro» e della «guerra fredda», e dell’aspro scontro in Italia fra PCI e DC.
Al governo del paese c’era una coalizione formata da DC, PLI, PSDI, PRI, che perseguiva una politica orientata dall’Alleanza Atlantica capeggiata dagli USA. A un acceso anticomunismo in politica interna corrispondeva uno sfrenato antisovietismo in politica estera.
Nel 1953 cominciò però a comparire in URSS qualcosa di nuovo. Dopo la morte di Stalin era divenuto capo del governo sovietico Georgij Malenkov, mentre Nikita Chruščëv aveva avuto l’incarico di coordinatore della Segreteria del Partito. Vennero formulate le prime critiche al «culto della personalità» di Stalin, poi in luglio ci fu l’arresto di Berija, capo dei servizi di sicurezza, quindi in settembre venne la promozione di Chruščëv a segretario generale del Partito, ed infine in dicembre l’annuncio della fucilazione di Berija e del suo gruppo di potere.
Il mondo stava cambiando. Il possesso delle armi atomiche da parte dei due campi contrapposti era una minaccia per l’esistenza stessa dell’umanità e dell’intero pianeta. Stavano per iniziare tempi nuovi. Occorreva adeguarsi, operare per un clima di coesistenza pacifica tra i due sistemi, di reciproca conoscenza, di fruttuosa collaborazione. L’Italia-URSS doveva cercare di avviare rapporti culturali fra i due paesi, far conoscere l’Italia ai sovietici e l’Unione Sovietica agli italiani, superando i preconcetti ideologici dell’antisovietismo e dell’antioccidentalismo, del muro contro muro.
Al cambio della guardia nell’Italia-URSS a Roma era seguito un cambio della guardia in altre città fra cui Bologna. Occorrevano quadri idonei ad operare verso il mondo della cultura ufficiale. Alla precedente tendenza a «massificare» l’Associazione, a far cioè esclusivamente propaganda fra le masse popolari per contrastare l’antisovietismo, occorreva sostituire un’azione rivolta a coinvolgere gli intellettuali progressisti indipendenti o di diverso orientamento.
Compito dell’Italia-URSS diveniva principalmente quello di documentare, far conoscere, promuovere rapporti culturali, scientifici, turistici, cinematografici, teatrali, commerciali, di condurre una campagna tendente a stipulare un accordo culturale italo – sovietico, al quale si giungerà poi nel 1960 con la visita a Mosca del presidente della Repubblica Italiana Giovanni Gronchi.
Io ho diretto l’Italia-URSS di Bologna nel biennio ‘54-’55 orientandone l’attività su un triplice piano: stimolare rapporti culturali tra istituzioni bolognesi e moscovite, premere perché il governo italiano sviluppasse una politica d’amicizia verso l’URSS al fine di consolidare la pace in Europa, diffondere la conoscenza delle conquiste economiche, sociali e culturali realizzate dal sistema sovietico. Ricordo in proposito la diffusione di un opuscolo dal titolo «La leggenda del lavoro forzato», scritto da Serafino Santi e stampato dalla STEB nel 1953, poi l’affollatissima conferenza tenuta alla Sala Farnese da Paolo Robotti, autore del libro «Nell’URSS si vive così», per controbattere gli «Appunti del viaggio in Urss» di Aldo Cucchi, pubblicati sul Resto del Carlino, e la proiezione del film «Il Giuramento» del regista Sergej Gerasimov al Cinema Medica, che fece lacrimare parecchi spettatori quando Stalin giurò solennemente sulla salma di Lenin di continuarne l’opera.
Eh, sì, fu soltanto dopo il Ventesimo Congresso del PCUS nel 1956 e dopo la lettura del «rapporto segreto» di Nikita Chruščëv su Stalin, che cominciammo ad ironizzare sulla assoluta necessità di modificare il titolo dell’opuscolo di Serafino Santi in «La realtà del lavoro forzato» e di cambiare il titolo del libro di Paolo Robotti in «Nell’URSS si vive così così»!
Quanto a Stalin, i nostri sentimenti rimasero nei suoi confronti abbastanza aggrovigliati ancora per parecchio tempo. Non riuscivamo a disgiungere il suo nome dalla battaglia di Stalingrado, che aveva segnato la sconfitta del nazifascismo, e non gradimmo che quella città venisse ribattezzata Volgograd.
Diversa fu l’impostazione della nostra attività verso l’intelligencija bolognese. Bologna era sede di una delle più prestigiose università europee. Ma pur avendo costituito una Presidenza autorevole con personalità della cultura come il tisiologo Antonio Gualdi (PCI), il pedagogista Cesare Arnaud (indipendente), la giurista Piera Angeli (PSI), l’ingegnere Luigi Palloni (indipendente), l’Italia-URSS non riuscì mai a «sfondare», così si diceva in gergo partitico, nel mondo accademico.
Per interessare gli intellettuali, specie quelli orientati a sinistra, organizzammo conferenze-dibattito su temi specifici avvalendoci del forte nucleo di collaboratori dell’Ufficio Studi dell’Associazione Nazionale. Il professor Umberto Cerroni venne a parlare di diritto internazionale, Lisa Foa di economia, Pietro Zveteremich inaugurò una Mostra su Anton Čechov in Palazzo Re Enzo, presentando la sua «Storia della letteratura russa», Carla Voltolina Pertini ci aiutò a realizzare una conferenza nazionale sull’agrobiologia sovietica, che si tenne in Palazzo d’Accursio, Roberto Manetti della Sezione Cinema venne a presiedere una animata discussione che seguì alla proiezione del film «L’incrociatore Potëmkin» di Sergej Ejzenštejn, Ignazio Ambrogio introdusse un dibattito su Maksim Gor’kij di cui stava curando l’edizione delle «Opere complete» per gli Editori Riuniti.
Un tema che riuscì a suscitare un certo interesse fu quello della medicina, del quale si occuparono il professor Antonio Gualdi, medico provinciale, ed il dottor Bruno Bizzi, uno psichiatra imolese che riuscì a fare adottare nella nostra città le prime esperienze sovietiche del parto indolore.
Avemmo anche l’onore di ospitare il filosofo Antonio Banfi, docente universitario, accademico dei Lincei, presidente nazionale di Italia-URSS, che inaugurò la nuova sede di Via San Felice con una conferenza sul tema «Vecchio e nuovo umanesimo». L’avevo richiesto io ricordando che al liceo negli anni di guerra avevo studiato Hegel su un testo curato da lui.
Ecco, questa, oltre ai tradizionali corsi di lingua russa, è in sintesi l’attività che svolsi in quel periodo, aiutato da attivisti come Musiani, Poluzzi, Bassini, Mengoli, dalla segretaria Nina Simoni, e da «organizzatori» come Franco Meliconi e Athos Ginghini, distaccati dalla Federazione comunista per occuparsi della diffusione delle nostre pubblicazioni. Oltre al mensile «Realtà Sovietica» e al bimestrale «Rassegna Sovietica», l’Ufficio Studi di Roma curava alcune pubblicazioni periodiche: Bibliografia Medica Sovietica, Studi di Agrobiologia, Cinema Sovietico, Quaderni di Italia-URSS. E noi cercavamo di raccogliere gli abbonamenti con iniziative appropriate.
Il Partito non era indifferente al nostro lavoro. Anzi. Il segretario e l’organizzatore dell’Italia-URSS erano considerati funzionari di partito a tutti gli effetti e ricevevano lo stipendio dall’amministrazione della Federazione del PCI. Gli introiti provenienti dal tesseramento dei soci ordinari e dalle quote sottoscritte da diverse Cooperative quali Soci Sostenitori, i guadagni ottenuti dalla vendita delle riviste, servivano per il compenso della segretaria e per le iniziative, mentre a copertura delle spese di affitto e di gestione della sede giungeva un contributo mensile dall’amministrazione centrale.
Era però soprattutto al Partito che rispondevamo del nostro lavoro. Nel resoconto dell’attività svolta dalla federazione bolognese del PCI nel periodo dal 1951 al 1954 sta scritto:
«L’Associazione Italia-URSS – alla quale il Partito ha dato un notevole contributo per il suo sviluppo – assolvendo il suo compito di propaganda della vita e delle conquiste del popolo sovietico, è un efficace strumento di lotta contro l’antisovietismo, e con la sua attività collabora a rendere più forti i legami tra il popolo italiano ed il glorioso Paese del Socialismo».
L’Italia-URSS era dunque considerata una delle cinghie di trasmissione del Partito per collegarsi con le masse popolari.
Tra le iniziative da me realizzate, le più apprezzate dall’Agit-Prop di Federazione furono le nostre presenze ai festival provinciali de l’Unità, una conferenza tenuta in sede il 5 marzo dal prof. Ennio Villone su «Il pensiero di Stalin» nel primo anniversario della morte, la «Lettura e commento de “Il Poema di Lenin” di Majakovskij» tenuta dal traduttore Mario de Micheli al Teatro della Ribalta il 22 aprile per celebrarne la nascita.
Quando ci si riuniva all’Agit-Prop di Federazione mi si chiedeva di riferire su queste iniziative e non sul «nuovo» che cominciava a fermentare nella vita culturale sovietica.
La comparsa in URSS di romanzi come «Il disgelo» di Il’ja Erenburg, e «Non di solo pane» di Vladimir Dudincev, le appassionate discussioni sull’arte e la letteratura che precedettero il 2° Congresso degli Scrittori, le esigenze di libertà di critica manifestate dagli scienziati, l’acceso dibattito per il 2° Congresso degli Architetti, erano fenomeni che nel 1954-’55 suscitavano l’interesse soltanto degli «addetti ai lavori», cioè dei «sovietologi». Erano però le prime avvisaglie di quanto sarebbe accaduto qualche tempo dopo con il ventesimo congresso del PCUS e con il «Rapporto Segreto» di Nikita Chruščëv sul «culto della personalità « di Stalin.
1956. L’anno della svolta
Il 1956. Qualcuno l’ha definito «un anno indimenticabile», e qualcuno lo ha chiamato «l’anno della svolta».
Per me esso cominciò con due novità. Esprimendomi con il linguaggio di oggi potrei dire che nel «privato» divenni un «single», mentre nel «sociale» mutai di «ruolo». La mia compagna fu trasferita dalla FGCI di Bologna a Mosca come allieva della Scuola Centrale del PCUS ed io fui trasferito dall’Italia-URSS di Via San Felice alla Federazione comunista di Via Barberia come vice responsabile della Commissione Stampa-Propaganda. Un trasferimento di tremila chilometri per lei e di trecento metri per me.
Il 27 maggio di quell’anno ci sarebbero state le elezioni dei Consigli comunali e provinciali e occorreva rafforzare l’apparato propagandistico, elaborare il piano di lavoro e poi realizzarlo. Così disse Lino Montanari, responsabile di Stampa e Propaganda. E io, disciplinatamente, affrontai le nuove mansioni.
L’apparato fu rinforzato chiamando Luigi Arbizzani alla «Propaganda scritta», aggiungendo Modesto Beccari e Vincenzo Masi a Bruno Bassi nel «Centro Diffusione Stampa» e Osvaldo Corazza a Bruno Drusilli agli «Amici de l’Unità», mentre Eoliano Gnudi disse di bastare da solo alla «Propaganda Orale».
Elaborammo il piano riflettendo su quali manifesti, volantini, opuscoli dovevamo produrre, e su come articolare i comizi, le conferenze, i dibattiti e le riunioni. Pur concordando di doverci attenere alle linee programmatiche del PCI nelle questioni politiche, economiche, sociali, eravamo convinti che per noi bolognesi era necessario valorizzare soprattutto le realizzazioni e i progetti delle amministrazioni di sinistra, del comune di Bologna e dei comuni della provincia, denunciando le inadempienze e gli ostacoli frapposti dal governo centrale.
Ricordo che in una riunione un compagno espresse una preoccupazione: «Purché anche stavolta non giunga qualche sorpresa da qualche paese dell’Est». E noi in coro: «Speriamo proprio di no!». In elezioni precedenti c’era sempre stato qualche evento esterno che non ci aveva certo agevolato. La scomunica di Tito, l’oscuro affare dei medici in Russia, una fucilazione a Budapest o una impiccagione a Praga, avevano sempre offerto il destro all’avversario per rinfocolare la campagna anticomunista. E quasi a farlo apposta, tali accadimenti nell’Est d’Europa coincidevano sempre con la vigilia di qualche elezione in Italia.
«Beh, speriamo che stavolta non accada nulla di spiacevole, – conclusi io – a Bologna ci basta di dover affrontare un capolista democristiano come Giuseppe Dossetti».
E invece…
Il Ventesimo Congresso del PCUS
Il 14 febbraio si aprì a Mosca il 20° Congresso del PCUS. La relazione del segretario generale Nikita Chruščëv era articolata secondo i vecchi canoni. Il primo capitolo, sulla situazione internazionale, enunciava alcune tesi importanti:
La caratteristica della nostra epoca è che il socialismo ha varcato i confini di un solo paese ed è divenuto sistema mondiale;
L’era del colonialismo è tramontata per sempre indebolendo il sistema imperialistico;
Il principio leninista della coesistenza pacifica degli Stati con ordinamenti sociali diversi è stato e rimane la linea generale della politica estera dell’URSS;
Le guerre non sono più inevitabili;
E’ assai probabile che le forme di passaggio al socialismo divengano sempre più varie e non è obbligatorio che l’attuazione di queste forme sia connessa in tutti i casi con la guerra civile.
Il secondo capitolo, il più lungo, esaminava la situazione socioeconomica del paese delineando le prospettive future e formulando critiche per le carenze della pianificazione e dei funzionari cosiddetti «scalda poltrone», per i quali furono letti questi versi di Vladimir Majakovskij:
«S’è abbarbicato
alla poltrona
e non vede più in là
del proprio naso.
Ha studiato il comunismo
nel suo libro
e ha ottenuto la promozione.
Si è sempre riempito la testa
di «ismi»
e il comunismo
l’ha messo in un cantone,
per sempre.
Perché pensare
tanto al domani?
Sto seduto e aspetto la circolare.
Io e voi
non abbiamo bisogno di pensare. Ci sono i capi che pensano».
Il terzo capitolo, dedicato al Partito, conteneva alcune novità che turbarono alquanto la coscienza dei comunisti, specie di noi italiani. E’ vero che nei tre anni seguiti alla morte di Stalin avevamo iniziato ad avvertire la necessità di non accettare a scatola chiusa tutto ciò che proveniva dal Cremlino. L’arresto e la fucilazione di Lavrentij Berija, la riabilitazione di dirigenti bolscevichi fucilati, la liberazione di intellettuali internati nei lager, le critiche rivolte da scrittori e artisti ai dettami dello ždanovismo, l’ammissione dell’errore commesso nei confronti di Tito, ci avevano stimolato a «ragionare con la nostra testa».
Eppure ci caddero come tegole sulla testa le frasi di Chruščëv su Berija fucilato come «vecchio agente degli imperialisti» assieme alla sua «spregevole banda di traditori», e sul «culto della personalità» di chi veniva denominato semplicemente «Stalin» senza i soliti appellativi di «generalissimo», «capo geniale», «condottiero invincibile».
E ancor più pesante fu la tegola che ci cadde in testa quando sulla stampa comparve la notizia che Chruščëv aveva tenuto «un rapporto segreto» in una seduta notturna riservata ai soli delegati. I giornali italiani riportavano tutte le voci, le illazioni, le ipotesi, le rivelazioni che comparivano sui giornali stranieri, ed erano voci di arresti, repressioni, deportazioni, arbitrii, fucilazioni, censure, falsificazioni, errori che si erano verificati in passato.
Noi reagivamo mettendo in dubbio l’autenticità di un tale rapporto, valorizzando quanto di positivo era uscito dal 20° Congresso del PCUS, e sottolineando quanto aveva ribadito Togliatti nel suo «saluto» pronunciato in russo a Mosca ma pubblicato in italiano su l’Unità: «la via che voi avete seguito per giungere al potere e costruire una società socialista non è in tutti i suoi aspetti obbligatoria per gli altri paesi, ma essa potrà e dovrà avere in ogni paese le sue particolarità. Noi vogliamo che in Italia la lotta per la trasformazione socialista della società si svolga sul terreno della democrazia.
Il «Rapporto Segreto» di Nikita Chruščëv
Amarezza e sconforto sconvolsero gli animi dei militanti comunisti. Dubbi e ripensamenti agitarono le coscienze dei simpatizzanti e degli alleati, in specie dei militanti socialisti. Il popolo comunista fu scosso da un terremoto politico e morale. Togliatti non poteva più limitarsi a dire che si trattava di «illazioni dei gazzettieri», pur ammettendo che in URSS s’erano commessi errori, e che le correzioni erano in atto.
Sul numero 20 del maggio-giugno ‘56 della rivista «Nuovi Argomenti» diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci comparvero allora, assieme a quelle di Lelio Basso, Ignazio Silone, Valdo Magnani, anche le risposte di Togliatti a «Nove domande sullo stalinismo». E quelle risposte io le lessi e le rilessi.
Era la prima volta che Togliatti analizzava criticamente il processo di formazione dell’URSS e formulava apertamente critiche sostanziali al regime sovietico e ai suoi dirigenti sia del passato che del presente. Constatando che «la democrazia socialista era stata limitata ed in parte sopraffatta da metodi di direzione burocratica ed autoritaria e da violazioni della legalità», Togliatti sosteneva che bisognava innanzitutto porsi il problema di come e del perché ciò era potuto accadere. Non si poteva addossare la responsabilità di tutti gli errori e illegalità verificatisi prima, durante e dopo la guerra esclusivamente al «culto della personalità di un solo uomo», del quale ora soltanto si denunciavano i gravi difetti mentre prima se ne esaltavano le eccelse qualità. Vi era indubbiamente una corresponsabilità dell’intero gruppo dirigente sovietico sia del passato che del presente. Non era forse lo stesso Partito il responsabile delle limitazioni della democrazia e della burocratizzazione dello Stato? Spettava quindi agli stessi dirigenti dare le dovute risposte a tali quesiti se si voleva democratizzare veramente la società sovietica.
Così ragionava Togliatti in quelle sue nove risposte. Ma così non ragionavano né Nikita Chruščëv né Michail Suslov né gli altri capi sovietici, i quali né diedero le risposte né democratizzarono la società sovietica. Così non ragionavano molti nostri compagni per i quali Stalin rimaneva «l’amato geniale condottiero» che aveva continuato l’opera di Lenin e aveva sbaragliato le armate hitleriane. Questo io feci presente nel mio intervento alla riunione del comitato federale che si tenne ai primi di luglio con all’odg «La preparazione dell’8° Congresso del Partito e la lotta per la via italiana al socialismo», su cui fu relatore il segretario Enrico Bonazzi. Su «La Lotta» del 5 luglio c’è un resoconto del mio intervento. Feci presente che le prime reazioni di molti compagni erano state di natura sentimentale, di difesa di Stalin e di critica a Chruščëv.
Citando una frase del «rapporto segreto», dissi che esso non si proponeva una valutazione esauriente e definitiva della vita e dell’attività di Stalin, ma voleva essere un’informazione sulle conseguenze nefaste del suo culto. Fu a questo punto che Dozza mi interruppe. «Si comincia già col trarne delle citazioni? Ma se non si sa nemmeno se è vero o falso!». Io ammutolii. Devo confessare che mentre nei comizi pubblici mi trovavo a mio agio, nelle riunioni degli organi direttivi federali ero assalito dalla timidezza e tacevo.
Quella volta avevo osato intervenire e venivo interrotto da un dirigente autorevole come il sindaco Giuseppe Dozza. Ebbi un momento di confusione mentale, poi mi ripresi e proseguii: «Nel sistema policentrico delle relazioni fra i partiti comunisti del mondo intero, ogni Partito, pur nella sua autonomia, dovrà ispirarsi ai principi dell’internazionalismo. Il PCUS è alla testa di uno Stato che era e sarà un elemento determinante dei mutamenti che si verificano nel mondo e che si riflettono pure nel nostro paese. Guai se nascesse il dubbio che in URSS non s’è realizzato il socialismo. Guai se nascesse uno stato d’animo di sfiducia verso i dirigenti del PCUS. Noi dobbiamo stimolare il dibattito ma anche orientarlo!».
La riunione del Comitato Federale si concluse con la sottolineatura di Bonazzi che «non tutte le critiche dei compagni sono giuste ma tutte pongono problemi che vanno affrontati, dibattuti e risolti» e con l’invito di Dozza a valorizzare «la costante connessione della politica del PCI con la realtà storica italiana e la ricerca permanente del PCI di una via italiana al socialismo».
Poi giunse l’estate e la gente cominciò a recarsi al mare e ai monti. Ma la «febbre politica» dentro di noi non diminuì. L’apparato federale decise d’organizzare una gita domenicale al mare e scelse come meta Ravenna. Riempimmo tre autobus. Visitammo la città coi suoi tesori d’arte, poi ci spostammo in una trattoria a Porto Corsini a mangiar pesce, e quindi passeggiammo sulla spiaggia. Fu qui che Arvedo Forni e Rinaldo Scheda affrontarono Memo Gottardi. «Insomma, Memo, perché non ci hai mai raccontato nulla?». E cominciò il botta e risposta.
– Che volete vi dicessi?
– Insomma, tu in Russia eri un antifascista in esilio, un comunista italiano, eppure ti misero in galera. Perché?
– Il perché non lo so. Io ero caporeparto in una fabbrica d’auto sul fiume Volga. Cercavo di migliorare la produzione, per il trionfo del socialismo, e non facevo nulla contro il Paese dei Soviet.
– E allora perché nel 1937 la polizia t’arrestò?
– Non lo so. Io volevo solo che gli operai lavorassero meglio e di più.
– Fu forse per quello?
– Non lo so. Mi tennero dentro parecchio. Fu dura. Poi mi rilasciarono.
– Sappiamo che durante la guerra sei stato nei campi di prigionia dei militari italiani per aiutarli ed orientarli all’antifascismo. Ma perché al ritorno dalla Russia non hai detto nulla del tuo arresto?
– Che volete vi dicessi. Ora posso dire che non sono stato l’unico comunista italiano messo in galera in Unione Sovietica. Ma se un dirigente come Togliatti, che ne sapeva molto più di me, non ha mai detto nulla, perché avrei dovuto dire qualcosa io?
Durante il viaggio di ritorno da Ravenna a Bologna non feci che meditare sul tragico destino di quei comunisti italiani che erano espatriati per evitare il carcere mussoliniano e che dovettero sperimentare il carcere staliniano.
Il giorno dopo mi recai a Roma ad una riunione in via Botteghe Oscure per il «Lancio del Mese della Stampa Comunista». Il relatore era Giancarlo Pajetta.
Nell’intervallo mi recai nel solito bar per il solito caffè e incontrai Paolo Robotti.
Gli parlai di Memo Gottardi e del suo «caso».
«Ah Gottardi! Ha lavorato con me nei campi dei prigionieri dell’ARMIR in URSS. Conosco bene la sua vicenda».
«Che tragedia!» – soggiunsi io – «Pensa che non ha mai detto nulla!»
«C’è anche chi ha sopportato di peggio e non ha detto nulla. La lotta di classe ha le sue regole. Il nemico era riuscito ad entrare in organi decisivi del potere sovietico. E quanti danni ha fatto! Eh sì, occorreva più vigilanza. Ne occorre anche adesso. Ne occorrerà sempre. E se un comunista subisce un’ingiustizia da parte dei suoi compagni, deve sopportare. Il Partito viene prima del singolo».
In quell’incontro Robotti non raccontò nulla della sua vicenda personale. Solo molto più tardi, in una riunione del Comitato Centrale del PCI, egli accennò al suo arresto a Mosca nel 1938 e ai due anni trascorsi nelle celle della Lubjanka e della Taganka perché considerato «nemico del popolo», senz’altra spiegazione, senza una accusa specifica, senza un processo. Robotti era il cognato di Togliatti. Ed egli, convinto che la Gestapo tedesca fosse l’artefice delle provocatorie manipolazioni che portarono agli arresti, alla deportazione, alla fucilazione di comunisti innocenti, riteneva che tramite suo si volesse colpire lo stesso Togliatti, membro della Segreteria del Komintern. Gli estenuanti interrogatori, il duro regime carcerario, le percosse che gli avevano leso la spina dorsale, non riuscirono a fargli confessare d’essere un «controrivoluzionario» come avrebbero voluto quelli che lo interrogavano. E alla vigilia della guerra lo rilasciarono.
«Pensai di dovere il mio rilascio ad un intervento di Togliatti su Giorgio Dimitrov e di Dimitrov su Stalin» – mi confidò lo stesso Robotti nel 1964, il giorno dopo i funerali di Togliatti. Mi disse d’avere scritto le memorie della propria vita nell’Unione Sovietica, compresa la vicenda dell’arresto. E prima di pubblicarle avrebbe voluto sentire il parere di Togliatti, ma purtroppo ora non era più possibile. Il libro uscì poi nel 1965 col titolo «La prova» a cura delle Edizioni Leonardo da Vinci di Bari.
Ma torniamo al 1956. I mesi estivi furono segnati dalle Feste de l’Unità. Ricordo quella di Massumatico, dove i compagni mi fecero tenere il comizio sopra un palco sul quale campeggiava un gigantesco ritratto di Stalin. «Quello non si tocca» – mi avvertì il segretario di sezione. E io parlai solo dell’Italia, de l’Unità, del significato dell’imminente 8° Congresso del PCI. Non mi intrattenni neppure un attimo sul «rapporto segreto» di Nikita Chruščëv.
I fatti d’Ungheria
Mentre noi eravamo impegnati nel «dibattito teorico» sull’internazionalismo, sul policentrismo e sulla via italiana al socialismo, la realtà s’incaricava di darci un’altra sconvolgente lezione di storia politica: la tragedia dell’Ungheria.
Con la liberazione dal carcere di Gomulka, rinominato il 20 ottobre segretario del Partito, sembrava essersi avviato in Polonia il superamento della crisi iniziata in giugno con gli scioperi antigovernativi degli operai di Poznan, quando il 23 ottobre giunse la notizia di una insurrezione popolare a Budapest. La sostituzione del comunista «stalinista» Rakosi con il comunista «democratico» Nagy, fautore di una «via nazionale», non riuscì a raddrizzare la situazione in Ungheria. L’insurrezione assunse un carattere apertamente anticomunista.
A complicare le cose sul piano internazionale, il 31 ottobre ebbe inizio l’intervento militare anglo-francese contro l’Egitto che aveva nazionalizzato il Canale di Suez. L’URSS dichiarò il suo sostegno all’Egitto. E quando il Governo Nagy annunciò l’intenzione di uscire dal «Patto di Varsavia» la situazione precipitò. Il 4 novembre i carri armati sovietici entrarono in Budapest e nel giro di pochi giorni soffocarono la rivolta. Alla testa del Governo subentrò Kadar, un comunista incarcerato nel periodo rakosiano, che s’era dapprima associato a Nagy e poi se n’era distaccato.
Gli avvenimenti d’Ungheria misero in subbuglio gli ambienti intellettuali del PCI. Elio Vittorini, Fabrizio Onofri, Antonio Giolitti e molti altri, già profondamente scossi dalle rivelazioni del «rapporto segreto» di Chruščëv sullo stalinismo, abbandonarono il Partito disperdendosi su diverse strade. Io invece rimasi convinto dall’editoriale de «l’Unità» firmato «Palmiro Togliatti» nel quale si affermava che l’intervento militare sovietico in Ungheria era stato «una dolorosa necessità» imposta dalla «guerra fredda» tra i due sistemi.
L’Ottavo Congresso del PCI
Il giovedì 15 novembre 1956 ebbe inizio il congresso della Federazione comunista bolognese in preparazione dell’ottavo Congresso Nazionale del PCI. Era presente ai lavori Palmiro Togliatti.
Nel grande Salone del Palazzo del Podestà campeggiavano dietro al palco della presidenza i ritratti di Marx, Engels, Lenin e Stalin. Sì, c’era ancora Stalin. Dietro il podio dell’oratore compariva il ritratto di Antonio Gramsci.
Ho conservato una foto scattata in un intervallo dei lavori di quel Congresso. Attorno a Togliatti ci sono molti dirigenti bolognesi del tempo. E ci sono anch’io.
Togliatti stava commentando le notizie giunte dall’Ungheria. «E’ strano – egli diceva – che a muoversi siano stati gli operai delle grandi fabbriche di Budapest. Nelle campagne i contadini che hanno ricevuto le terre dei latifondisti non si sono mossi. Servono ulteriori informazioni. Dovremo riflettere, dovremo capire.
Dietro al palco della presidenza dell’ottavo Congresso Nazionale del PCI che si tenne a Roma dall’8 al 14 dicembre ‘56 non c’era alcun ritratto. Sul fondale c’erano bandiere rosse e bandiere tricolori e sopra di esse spiccava la scritta: «PER UNA VIA ITALIANA AL SOCIALISMO».
* La puntata precedente è stata pubblicata in Slavia, 2008, n.2.
Graziano Zappi "Mirco", "Slavia" N°4 2008
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