Erano i primi giorni di settembre del 1956. All’università Lomonosov di Mosca, la prestigiosa MGU, i corsi erano cominciati come ogni anno puntualmente il 1° settembre. Ero l’unico e il primo studente italiano nella storia della facoltà di filologia. L’insegnamento delle varie discipline era organizzato con lezioni generali dei professori titolari di cattedra nell’Aula Magna, cui assistevano tutti i circa 300 studenti del mio corso, e con seminari di dieci–quindici studenti che formavano qualcosa di molto simile alle classi di un nostro liceo. Nelle lezioni dell’Aula Magna gli studenti ascoltavano soltanto e prendevano appunti, mentre nei seminari si discuteva, si davano i compiti per la volta successiva e si veniva interrogati. Ogni seminario aveva i suoi insegnanti fissi, quasi mai titolari di cattedra. La mia conoscenza del russo era molto limitata e faticavo a seguire ciò che gli insegnanti dicevano. Soprattutto, era umiliante quando un professore diceva qualche battuta di spirito e tutti i miei compagni ridevano mentre io rimanevo in silenzio. In quei giorni avvenne un episodio incredibilmente ridicolo, una specie di gag chapliniana.
Le lezioni erano già cominciate da due o tre settimane quando l’anziana signora che svolgeva le mansioni di tutor del nostro corso per le questioni burocratiche mi chiese perché non fossi mai stato presente alle lezioni di Voennaja podgotovka (letteralmente: “Preparazione militare”), che si svolgevano nelle ultime due ore di ogni sabato. I miei compagni sovietici erano tenuti a frequentarle durante tutti i cinque anni del corso di laurea e anche a trascorrere ogni estate un mese in un campeggio militare. Ma erano ben felici di partecipare a tutto questo perché alla fine del quinto anno ottenevano il grado di sottotenente della riserva e l’esonero dal servizio militare, che a quell’epoca in Russia durava tre anni. In realtà, oltre che alla “Preparazione militare”, non ero mai andato neanche alle lezioni di educazione fisica. Per quest’ultima ebbi con la tutor una discussione diciamo linguistica . Il fatto è che nel tabellone che riportava l’orario di tutte le materie figurava, sì, Educazione fisica, ma accanto, tra parentesi, c’era scritto fakul’tativno, una parola che evidentemente conoscevo meglio della tutor. Le dissi che se la lezione era facoltativa, preferivo non andarci. La risposta fu: fakul’tativno significa che è facoltativa, cioè qui da noi obbligatoria. Ribadii che finché ci fosse stato scritto «fakul’tativno» non ci sarei andato. E così fu per tutti i cinque anni del corso di laurea. Ma non è questa la gag chapliniana cui ho accennato sopra.
Nel rimproverarmi l’assenza alle lezioni di Preparazione militare la tutor mostrò un certo imbarazzo e persino qualcosa di più, che so, un timore che lì per lì, inesperto com’ero della vita nell’URSS, non capii. Con voce più che seria, non minacciosa ma quasi partecipe per i guai cui temeva potessi andare incontro, mi implorò di andare a parlare con l’insegnante il prossimo sabato. Cosa che feci. Insieme con tutti i miei compagni di sesso maschile entrai nell’aula e, in attesa dell’insegnante, partecipai al solito chiasso delle classi scolastiche in quelle circostanze. A un certo punto entrò un colonnello dell’Armata Rossa. Era l’insegnante, un uomo sulla cinquantina quasi calvo. Immediatamente ci fu silenzio. Alzai la mano dal mio banco e cercai di parlargli, ma venni bloccato senza poter dire nulla. Il colonnello srotolò un grafico e lo distese sulla lavagna, poi con un bacchetta cominciò a spiegarne il contenuto. Era il grafico di un aereo sovietico da caccia. Capii che dovevo fare qualcosa e chiesi nuovamente di parlare. Per tutta risposta il colonnello urlò: “Zitto!, e stai seduto!”. Non so come mi venne in mente, ma a mia volta gridai: “Io sono un soldato della NATO!”. Bisognava vedere la faccia del colonnello, che immediatamente si lanciò a coprire con il corpo e con le braccia spalancate il grafico dell’aereo. Spaventato, balbettando, mi chiese che cosa ci facessi lì. Risposi che anch’io avrei voluto saperlo. “Ma lei non può stare qui!” “Sono d’accordo, mi dica se posso uscire”. Fu così che si concluse la mia prima e unica lezione di Preparazione militare e anche la mia carriera nell’Armata Rossa.
Un altro episodio, se ricordo bene, si verificò alla prima lezione generale cui assistetti. Era Antičnaja literatura, vale a dire «Letteratura antica», che comprendeva la storia della letteratura greca e latina. Il professore era Sergej Radcig, un luminare anziano della generazione prerivoluzionaria, cultore della Grecia classica ma anche innamorato di Roma, che non aveva mai potuto visitare. Finita la lezione, scesi nel vestibolo per ritirare il mio soprabito, e qui avvenne qualcosa che mi pose al centro dell’attenzione generale e che non dimenticherò mai. Qualcuno degli studenti che dopo la lezione avevano circondato il buon professor Radcig, doveva averlo informato che nel nostro corso c’era quell’anno uno studente romano. Non l’avesse mai fatto. Sergej Ivanovič Radcig si precipitò sul pianerottolo che si affacciava sul vestibolo e cominciò a gridare: “Ehi, Rimljanin!, ehi Rimljanin!”, cioè “Ehi, Romano”. Il lettore deve sapere che a quell’epoca l’Unione Sovietica cominciava appena ad aprirsi al mondo occidentale dopo la lunga notte staliniana, e che da decenni gli unici “romani” di cui in qualche rara occasione si parlasse erano quelli dell’antica Roma. In ogni caso, fu così che l’invocazione del vecchio professore venne percepita dagli studenti che affollavano il vestibolo, come se avesse gridato: «Ehi, antico romano!». Io ero in mezzo a loro, ma non avevo capito che cosa stesse succedendo. Nessuno lì mi conosceva, tutti erano perplessi, forse pensando che il vecchio Radcig fosse impazzito. Finalmente qualcuno capì che Radcig ce l’aveva con me e mi indicarono il professore in cima alle scale. Quando fui vicino a lui, cominciò a tempestarmi di domande: ero proprio di Roma?, e quanto era lontana la mia casa dal Campidoglio e dal Colosseo? Snocciolò ancora qualche altro luogo della Roma tanto amata, di cui sapeva tutto, ma che non aveva mai visto. Mentre parlava era visibilmente commosso, i suoi occhi si inumidirono. Fu quella la prima manifestazione di affetto verso di me nella facoltà di filologia di Mosca.
Dino Bernardini
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