Massimo D’Alema, A Mosca l’ultima volta (Enrico Berlinguer e il 1984). Donzelli Editore, Roma 2004, pp. 144, 12,50.
“Non è un saggio su Berlinguer, ma un racconto di sei mesi della sinistra italiana”: così D’Alema ha definito questo suo libro, presentandolo a una manifestazione al Palasport di Genova. In effetti, le pagine del libro sono equamente divise tra il racconto del viaggio a Mosca con Berlinguer e Bufalini per i funerali di Andropov – e devo dire che si tratta di pagine gustosissime, di valore letterario – e le vicende della sinistra italiana.
Parlerò poi del viaggio a Mosca, che resta la parte migliore dell’opera, ma intanto riconosco che l’autore rievoca con grande onestà il contrasto tra Craxi e Berlinguer senza omettere nulla, né le cose che ancora oggi condivide, ovviamente, né quelle che avrebbe preferito non fossero avvenute, che sono di ostacolo alla riconciliazione in atto tra una parte di ex socialisti e una parte di ex comunisti. Per esempio, l’infelice frase pronunciata da Bettino Craxi dopo i fischi della platea socialista all’ospite Berlinguer: “se sapessi fischiare l’avrei fatto anch’io”. Non c’è dubbio che questo non aiuta la riabilitazione e la quasi beatificazione del latitante Craxi da parte dei DS. Intendiamoci, nella parabola di Craxi ci sono stati atti, decisioni, scatti di dignità che nessun capo di governo italiano avrebbe avuto il coraggio di compiere, come la difesa della nostra sovranità nazionale a Sigonella contro la prepotenza dei comandi militari americani. Di questo gli va dato atto, ma senza dimenticare i tanti, illeciti episodi di corruzione addirittura rivendicati da Craxi senza vergogna.
E veniamo a Berlinguer. In tutto il libro si avverte un sentimento sincero di affetto per lo scomparso leader del PCI, del quale D’Alema sintetizza il pensiero, le idee sulla “diversità” dei comunisti italiani, sull’austerità, proclamata in anticipo sui tempi, in contrasto con l’imperante “edonismo reaganiano”. Sullo scontro tra Craxi e Berlinguer l’autore riporta una lunga citazione da Ugo Intini che almeno in parte sembra condividere: “Berlinguer cercava una terza via, non socialdemocratica e non capitalista, che non esisteva. Inseguiva un eurocomunismo che non c’era. Voleva trasformare il PCI in una forza di governo, mantenendone l’unità, la continuità e la tradizione, ma questo era impossibile. Craxi voleva trasformare il PSI (un apparato di potere senza più la spinta ideale di un tempo e senza radici sociali sufficientemente profonde) in un grande partito socialdemocratico di massa, nella guida di una grande sinistra vincente. Ma anche questo era impossibile. Berlinguer e Craxi coltivavano due sogni irrealizzabili”. Berlinguer, dice D’Alema, percepì in modo drammatico la crisi del comunismo. Si deve però sapere che “aveva maturato sull’Unione Sovietica e sul socialismo reale una posizione più netta di quella che si è delineata nella politica ufficiale”. Se non è venuta alla luce, è perché “in lui ha agito la preoccupazione che una rottura definitiva con quel mondo potesse portare una scissione nel PCI”.
Era riformabile il sistema sovietico? L’impressione che emerge dal libro è che per D’Alema non lo fosse. Tuttavia, dice, “non era scritto nel libro del destino che il mondo comunista crollasse”. “Non sono tra quelli – dice ancora D’Alema – che dicono che il comunismo per sua natura non fosse riformabile. Il problema è che quella ipotesi di rinnovamento democratico non era più concretamente in campo già nel momento in cui Berlinguer assunse la direzione del PCI”. Infatti, la speranza del rinnovamento era stata distrutta dai carri armati sovietici mandati a Praga ad abbattere un governo comunista che godeva del favore dell’intero popolo cecoslovacco.
Come ho detto, le pagine migliori del libro sono quelle dedicate al viaggio a Mosca in occasione dei funerali del segretario generale del PCUS Jurij Andropov, “l’ultima tenue speranza di riforma del comunismo sovietico”. Era il febbraio 1984. Ricordiamo che Andropov, uomo intelligente e colto, era diventato leader del PCUS nel novembre 1982. Dopo la lunga stagnazione brežneviana, il nuovo leader aveva suscitato molte speranze pubblicando un lungo saggio sul marxismo nel quale lasciava intuire la sua volontà di cambiamento. Purtroppo, formalmente rimase in carica meno di un anno e mezzo, ma in realtà quasi subito dopo la nomina fu colpito da una grave malattia che lo tenne inchiodato alla macchina della dialisi fino alla morte.
D’Alema racconta con arguzia il suo viaggio a bordo dell’aereo presidenziale italiano, dove Pertini aveva ospitato, oltre al ministro degli esteri Andreotti, anche la delegazione del Vaticano e quella del PCI. Durante il volo, ci fu una partita a scopone tra Pertini e Berlinguer, da un lato, e Andreotti e Maccanico, dall’altro. “Andreotti mi volle dietro a sé. Come disse in modo cortese e sornione, “per farsi consigliare”. In realtà giocava benissimo. Il presidente perdeva e la cosa lo seccava molto. Berlinguer era imbarazzato. Si vedeva che non aveva gran voglia. Si distraeva, ma era dispiaciuto per Pertini. Insomma una mezza tortura”. “Quando, intorno alle 18,00, l’aereo arrivò su Mosca, cominciò a girare senza poter atterrare […]. Per i sovietici non era normale che sullo stesso aereo arrivassero lo Stato, il Governo, il Vaticano e il Partito comunista. Si trattava per loro di delegazioni distinte a cui dovevano corrispondere cerimoniali, comitati d’accoglienza e destinazioni separate. Cominciò così un complesso negoziato con la torre di controllo che alla fine produsse un preciso protocollo di precedenze e tempi da rispettare. Prima doveva scendere il presidente con il suo seguito. Dopo cinque minuti il ministro degli Esteri. Poi il segretario del Partito comunista. Infine i cardinali [...]. Chiarita la procedura, finalmente giunse il permesso di atterraggio [...]. Quando l’aereo fu fermo sul piazzale, Pertini, infischiandosene di accordi, raccomandazioni e preghiere degli addetti al cerimoniale, prese sotto braccio Andreotti e Berlinguer e scese la scaletta. Fu il caos”.
Un altro episodio raccontato nei minimi dettagli, a conferma di quello che personalmente considero un difetto di D’Alema, ma che per altri può darsi venga considerato un pregio, è la cena all’ambasciata italiana di Mosca. L’autore dopo aver descritto l’ordine in cui erano seduti tutti i commensali, passa al menu: “La cena fu notevole. Salmone affumicato, caviale Molossol. Verdicchio e vodka. Prosciutto, melanzane in caponata. Tortellini in brodo. Spigola e gamberi portati freschi dall’Italia (sullo stesso aereo?). Dolce di fragole e panna. Spumante Ferrari. Confesso la mia debolezza – scrive D’Alema – per il mangiare bene e non sono stupito di ritrovare, dopo molti anni, annotati in modo così dettagliato i menu”. A mia volta, confesso il mio totale disinteresse per ciò che si è mangiato in quella e in altre cene.
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