di Mark Bernardini
Dopo la disfatta del 1948, in buona misura determinata dall'ingerenza diretta degli Stati Uniti e del Vaticano, il PCI non aveva mai perso. Tuttavia, la politica dei piccoli passi ha fatto sì che, ad ogni consultazione elettorale, i comunisti guadagnassero lo zero virgola qualcosa, roba da prefissi telefonici. L'eventuale un percento di aumento veniva giustamente presentato come una portentosa vittoria del proletariato. Tutto sommato, questo andava bene un po' a tutti: ai Partiti borghesi, DC in primis, che vedevano lontana mille anni luce l'ipotesi di un governo non dico comunista, ma almeno di un governo costretto a fare i conti con una solida opposizione comunista; ma anche ai comunisti stessi, consci che qualunque avanzata troppo irruenta avrebbe inevitabilmente portato ad un intervento diretto degli americani nella vita democratica del Paese, essendo questi ultimi già presenti in forze – militari – lungo tutta la penisola.
Personalmente, sono cresciuto proprio in questa logica, fin dalle mie prime manifestazioni, alle medie inferiori, all'indomani di un altro 11 settembre, che ora tutti sembrano voler obnubilare, quello del bombardamento del palazzo presidenziale La Moneda a Santiago del Cile, nel 1973, pagato anch'esso, come spesso – troppo spesso – nei decenni a venire, dagli Stati Uniti. Sono cresciuto in una famiglia comunista, appunto, con un nonno confinato negli anni '20 in tutti i luoghi che ora Berlusconi immagina come amene località di villeggiatura, Favignana, Ustica, Ponza, richiamato a 38 anni alle armi e spedito a Bengasi, torturato dalla banda Koch nel 1943; confinati anche vari suoi fratelli (cinque comunisti su nove fratelli), Lipari, ancora Ponza, Pisticci; un padre che studiò filologia slava all'università di Mosca negli anni '50.
Il 15 giugno 1975 il PCI fece un'avanzata strabiliante alle elezioni amministrative. Circa la metà delle regioni, moltissime province e molti comuni capoluoghi di regione finirono in mano alle giunte di sinistra. Questo era il dato nuovo e, allo stesso tempo, denso di incognite: l'anno dopo, il 20 giugno 1976, alle elezioni politiche ci si attendeva finalmente il sorpasso sulla DC. Il PCI guadagnò il 7%, portandosi al 34,4%, ma la DC non solo non arretrò, ma addirittura guadagnò qualcosa e si attestò sul 38% netto. Quello che all'epoca nessuno volle dire, a sinistra (e soprattutto nella cosiddetta "sinistra extraparlamentare"), era che a tradire furono proprio i giovani, da sempre cavallo di battaglia comunista. Facendo una mera sottrazione tra i voti della Camera e quelli del Senato, si aveva il quadro dell'orientamento dei cittadini tra i 18 e i 25 anni. La maggioranza, oltre due milioni e mezzo di elettori, aveva votato per la Democrazia Cristiana. Il Paese era spaccato in due, con tutte le conseguenze che di lì a pochi mesi avremmo tragicamente assaporato.
Giunse la stagione delle contestazioni a sinistra, molte assolutamente giustificate, molte altre talmente pretenziose da ingenerare, non senza ragione, dubbi circa la loro origine, i famosi burattinai. Contemporaneamente, dall'altra parte si invocava un'ingerenza nient'affatto velata del solito amico (ma di chi?) americano. Ricordo ancora una copertina di Panorama (che non era ancora Mondadori e quindi Berlusconi) che sintetizzava le dichiarazioni del presidente statunitense Jimmy Carter: Berlinguer stia al posto suo. Un avvertimento mafioso.
Venne toccato l'apice, il momento più grave e pericoloso, col rapimento e l'omicidio di Aldo Moro, e la sparizione delle sue carte dal luogo del rapimento ad opera di sconosciuti, nonostante le transenne della polizia. Questo episodio risulta tanto più emblematico se si considera che ministro degli interni era proprio quel Francesco Cossiga, futuro Presidente della Repubblica, che molti anni dopo ebbe a vantarsi del suo coinvolgimento nell'organizzazione golpista e paramilitare di Gladio.
Questo tra marzo e maggio 1978. Alla ripresa dell'anno accademico, in ottobre nelle scuole superiori e nelle università si verificò un fenomeno che ha dell'inverosimile: sembrava infatti che nessuno in vita sua avesse mai fatto politica, tutti in discoteca. Era iniziata la stagione che venne definita quella del "riflusso". Eppure, tutto continuava al solito, i fascisti ogni tanto accoltellavano a morte qualche ragazzo di sinistra (Ciro Principessa), assaltavano gli organi di informazione di sinistra (Radio Città Futura), ma parevano solo delle schegge impazzite ed anacronistiche.
Fu così che si arrivò alle prime elezioni politiche del dopo Moro, quelle del 3 giugno 1979. Per la prima volta, il PCI perse. Una settimana dopo, per la prima volta nella storia si votò per il Parlamento Europeo, ed il PCI confermò la propria sconfitta. Si era esaurita la famosa "spinta propulsiva".
Di tutto questo, all'Esquilino, la mia sezione di allora, il 16 giugno si discuteva in una pubblica assemblea, molto accesa, animata, la tensione si tagliava col coltello. Era uno scantinato di fronte ad un cinema porno, attaccato alle ferrovie laziali. Una realtà fatta di ferrovieri, operai della FIAT Manzoni, della Centrale del Latte, di lavoratori dei corsi serali degli istituti tecnici industriali.
Per la tensione, si facevano anche discussioni stupide, per fortuna episodiche, tipo l'impellenza di limitare il fumo nelle assemblee, non tanto per ragioni salutiste, quanto per le cicche in terra, che poi pulivano le compagne.
All'epoca, avevo già iniziato a lavoricchiare, nonostante la giovane età, traducendo in alcune occasioni per dei "colossi" come Pajetta, Amendola, Berlinguer, D'Alema. In un'occasione, in una sala conferenze (non ricordo se all'hôtel "Parco dei Principi", o qualcosa del genere), avevo visto delle sedie identiche a quelle che usavamo in sezione, con un monoblocco sedile e schienale in plastica e le gambe in alluminio. Tra una sedia e l'altra, sulle gambe, erano incastrati degli appositi portacenere.
Durante l'intervento di Ignazio, un operaio della FIAT Manzoni con l'eskimo, mi alzai dalla mia sedia, feci un metro e mezzo a destra e mi accovacciai di fronte a Luciana, una compagna ventiseienne della segreteria di sezione e moglie del segretario Claudio, per suggerirle sottovoce questa banalissima soluzione.
In quell'istante, nello scantinato mancò la luce. Gli interruttori erano sulle scale di accesso, noi eravamo tutti di spalle, mentre la presidenza dell'assemblea, pur essendo frontalmente rispetto agli interruttori, era impedita nella visione da un angolo. Si sentì un rumore secco, che al momento non avrei definito boato, e da quel momento la vita scorse per interminabili secondi al rallentatore.
In certi momenti, si pensano un sacco di fesserie. Per esempio, io pensai che fosse caduto un armadio. Subito, delle scariche, e pensai ai botti di Capodanno. Solo che era una torrida estate, ed ebbi la sensazione che la mano di un gigante mi avesse afferrato per il collo e lentamente, molto lentamente, sempre più lentamente, ma sempre più insistentemente, mi premesse a terra, facendomi perdere l'equilibrio, e poi continuando a premermi e spremermi in terra. Cominciai a sentire dei frammenti duri, freddi e taglienti penetrare il mio petto, confusamente vidi scorrere per un'infinità di tempo misurabile in frazioni di secondo varie scene slegate della mia infanzia, dall'asilo Montessori a Roma a quello di Ul'janovsk, dalle sigarette fumate alle tre stazioni di Mosca scappando da scuola, alle lezioni di francese a suon di Salvatore Adamo, dalla bisca delle medie inferiori vicino piazza Re di Roma ai cortei contro i doppi turni al liceo. Confusamente, ebbi l'assoluta consapevolezza che stavo perdendo i sensi e che probabilmente non mi sarei mai più risvegliato. Nel frattempo, sentii ormai sicuro un altro boato e svariati ed infiniti spari.
In realtà, mi ripresi quasi subito, perché stavo soffocando. Sentivo il gelo delle mattonelle, la mia bocca ed il naso erano immersi in un liquido dal sapore di ferro, ma non riuscivo a sollevarmi perché sulla testa sentivo la pancia di Luciana, che per sua fortuna avevo fatto in tempo a tirare giù in terra con me, per istinto. Urlava "aiuto, li mortacci vostri...", gli spari continuavano. Mi stava sommergendo di sangue, sentivo il suo dolore fisico e capii che era proprio il sangue in terra che mi impediva di respirare, come in apnea.
Finalmente, tirai via la mia testa, e fu anche peggio: nel buio pesto, tutto era fumo da non respirare. E ancora sparavano. Stavamo facendo la fine dei topi.
Carponi, tra urla assordanti di disperazione e fumo acido che bruciava in gola come lacrimogeni, guadagnavamo le scale, cercando prima di sospingere quei compagni che non riuscivano nemmeno a muoversi, probabilmente svenuti, sempre al buio, come ciechi. Dal bar di fronte e dal cinema Apollo, usciva gente incredula e ci guardava impietrita, non riuscivano nemmeno ad avvicinarsi, qualcuno vomitava alla vista della carne lacerata.
Io non sono né particolarmente coraggioso (direi tutt'altro), né smodatamente altruista. Eppure, mi pareva di essere illeso. Rendo omaggio ai servizi di Pronto Soccorso: le prime ambulanze arrivarono dopo una ventina di minuti. Ma eravamo troppi: dovette intervenire anche un'ambulanza dei pompieri. E non sapevano nemmeno dove portarci: nonostante tutto, non si era abituati a questo tipo di ferimenti, non era né lo scoppio di una bombola del gas, né un crollo strutturale. La strage di Bologna, ad opera degli stessi bravi ragazzi della Roma bene, sarebbe avvenuta solo un anno dopo.
Io aiutavo a caricare i feriti, sentendomi perfettamente in forma, a parte l'umido nella scarpa sinistra. Fu solo quando stava per partire l'ambulanza dei pompieri che Roberto, il segretario del circolo FGCI, mi intimò di non fare il coglione e di andare anch'io; al mio rifiuto stupito, mi fece notare che ero ferito. Pensavo che il sangue in testa fosse di Luciana, ed era vero, e pensavo fosse di qualcun altro il sangue sulla camicia, sui pantaloni e nella scarpa. Mi erano entrate in corpo sette schegge, solo allora ricordai la sensazione di quei frammenti che penetravano nel corpo quando ero in terra. Due in petto, un frammento di filamento nello stomaco, un'altra nella mano, una nella gamba destra e due in quella sinistra, ed una di queste aveva leso l'osso, per questo il sangue aveva riempito la mia Clark rigorosamente falsa imitazione. Una scheggia si era fusa sul bacino, un'altra, la più grossa, si era spiaccicata sull'accendino Zippo che mi aveva regalato il marito di mia madre a Mosca, padre di mia sorella, che avevo nel taschino della camicia, esattamente sul cuore. Poi dicono che fumare fa male. Tutto questo lo scoprii molti giorni dopo.
Entrai nell'ambulanza, eravamo stipati in cinque. Ci portarono all'ospedale San Giovanni, lo stesso dove molti anni prima mio nonno aveva portato a piedi sulle spalle mio zio Ezio, che stava soffocando per un osso in gola, e che uscì proprio grazie a quegli scossoni, lo stesso dove molti anni dopo andò mio padre, sempre a piedi, quando ebbe un infarto.
Quando aprirono lo sportello dell'ambulanza, ne uscì un rivolo di sangue mischiato di cinque persone. Sorreggendoci l'un con l'altro, ci mettemmo in fila, poiché le strutture del Pronto Soccorso non erano sufficienti per tutti, nonostante che parte di noi fosse stata smistata al Policlinico Gemelli. Le altre persone, casualmente presenti per altri malanni, continuavano a chiederci della bombola del gas. Quasi non ci credeva nessuno.
Per prima cosa, trovai un telefono pubblico e chiamai mio padre: pochi istanti dopo, fu la prima notizia del telegiornale delle 20. Cercai di essere lucido e preciso. Dissi, più o meno, di ascoltarmi attentamente e di non perdere tempo in inutili commenti, "perché tanto non ci poteva fare nulla e tutto quel che avrebbe potuto accadere era già successo", che io comunque stavo bene, che non sapevo fra quanto sarei tornato e che poi gli avrei spiegato.
Ero tra i meno gravi: Angelo, per esempio, aveva una pallottola nel gomito, sembrava dovessero amputargli il braccio, che poi per fortuna gli salvarono. La pallottola era nel gomito perché in quel momento stava sbadigliando e si stava stiracchiando, altrimenti sarebbe finita in testa. Continuavo in automatico a "dirigere il traffico", regolando l'ingresso dei feriti dal dottore. Anche lì, come in ambulanza, entrai per ultimo. Forse per il solito pressappochismo italiano, forse perché ormai i più gravi li avevano curati, mi spremettero i fori dove erano penetrate le schegge in petto e dissero che queste ultime erano uscite da se. In effetti, qualcosa era uscito, ma, come risultò dopo qualche giorno, quando il dolore continuava ad aumentare, si trattava di ciccettini di carne. Le schegge, minuscole, sono tuttora al loro posto, a distanza di quasi trent'anni.
Uscito nuovamente nella sala d'aspetto, ebbi l'unico momento di crollo psicologico: mi sedetti e singhiozzai senza lacrime. Dieci minuti dopo tornai in sezione, dove si stava già formando il corteo, un fiume di gente, nonostante l'improvvisazione e l'ora tarda, in prima fila noi feriti sporchi di sangue. Tra le prime "autorità" accorse, Maurizio Ferrara, capo della Resistenza romana, il sindaco Giulio Carlo Argan e Pietro Ingrao. Attraverso il ponte di S.Bibiana, ci dirigemmo verso il quartiere popolare di San Lorenzo, teatro del bombardamento del 19 luglio 1943.
A notte inoltrata, tornai a casa. Mio padre e sua moglie mi aspettavano, ovviamente. Una volta terminato il mio racconto, mio padre pensò bene di sdrammatizzare facendomi notare che la camicia, irrimediabilmente lacerata e lacera di sangue, era sua. L'aveva acquistata al mercatino di via Sannio, sotto casa, per ben 200 lire. Era una camicia con delle bruttissime pagode cinesi, magari appartenuta a qualche militare statunitense in Vietnam.
Il giorno dopo, tornammo in sezione per una diffusione straordinaria dell'Unità a S.Giovanni. Io, come mio solito, ci arrivai troppo presto, alle otto del mattino di domenica, col fatto che ero tra quelli che avevano le chiavi; non c'era ancora nessuno, solo Gloria, una compagna diciannovenne che il giorno prima non c'era. Per me, diciassettenne, era una "vecchia", ed infatti in quel lungo abbraccio tra le lacrime, in un silenzio tombale, percepii quasi qualcosa di materno. Il pavimento era ancora completamente intriso del sangue di 27 feriti. Una delle bombe SRCM era evidentemente difettosa: anziché disfarsi tutta in schegge, se n'era staccato un pezzo intero e si era conficcato nel muro. Per caso, lungo la sua traiettoria non era capitata nessuna delle 70 persone presenti, esattamente come per una serie fortuita di coincidenze non morì nessuno, cosa che costò un rimprovero da parte di Giusva Fioravanti, capo della squadraccia fascista, ai suoi. Quel Giusva che, da bambino, tutti ricordano nello sceneggiato della "Famiglia Benvenuti".
La seconda granata era caduta esattamente dove ero seduto prima di alzarmi pochi istanti prima per parlare dei portaceneri con Luciana. La mia sedia non fu mai più ritrovata, al suo posto nelle mattonelle campeggiava una buca di circa cinque centimetri di profondità.
Di lì a qualche giorno, sentendo che il dolore non diminuiva, andai da mio zio Enzo, chirurgo alla USL del Prenestino. Mi estrasse le due schegge nella gamba sinistra e quella nella gamba destra, ma disse che quelle in petto, nella mano ed il filamento nello stomaco ormai era più pericoloso estrarle che lasciarle al loro posto, e che entro poche settimane si sarebbero formate attorno delle capsule di tessuto cutaneo. E' così che ci convivo da allora, per la gioia dei metal detector aeroportuali e bancari quando sono tarati male.
Penso che molti, tra coloro che mi leggono, hanno presente quel tipico fenomeno di autocommiserazione che colpisce gli adolescenti. Ci si immagina brutti, storti, stupidi, fatti male, ci si convince della propria inutilità e di voler morire "perché tanto non se ne accorgerebbe nessuno". Tutte queste fesserie, che generalmente spariscono man mano con l'età, in me si sono volatilizzate nel giro di una mezzora la sera del 16 giugno 1979. Tuttora, ogni qualvolta mi scontro con qualche avversità della vita (ed è successo varie volte, non per cose futili), non mi deprimo mai: m'incazzo, perché "la depressione è un lusso da ricchi, ed io sono nato povero".
A fine mese, partii per Mosca, dove ogni anno andavo per le vacanze estive da mia madre. Bisogna ricordare che all'epoca non esisteva la teleselezione internazionale, né tantomeno i telefoni cellulari. Con mio padre avevamo stabilito di non dirle nulla, meglio che glielo avessi detto di persona. Così fu, nel tassì che ci portava in città dall'aeroporto. Il tassista aveva timore persino di voltarsi, tanto suonava incredibile il mio racconto per un sovietico degli anni '70. Mia madre ascoltò tutta la storia in silenzio, senza mai guardarmi, la ricordo in quell'occasione rigorosamente di profilo. Ella non aveva mai approvato il mio coinvolgimento politico, per cui, al termine, il suo unico commento fu: ecco cosa succede, a far politica. Naturalmente, non ho mai smesso.
Il marito di mia madre era uno psichiatra. Venuto a conoscenza dell'accaduto, chiese per me un appuntamento all'ospedale militare degli invalidi di guerra. Sempre contestualizzando, bisogna rendersi conto che i ventenni della seconda guerra mondiale erano all'epoca poco più che cinquantenni. Gli invalidi erano tantissimi, feriti e mutilati. Ne ricordo molti per le strade di Mosca, deambulare senza gambe, quasi tagliati a metà, su tavolette di compensato con cuscinetti a sfera e delle spazzole alle mani fissate con delle cinghie di pelle. Ecco perché la dottoressa che mi fece le lastre per stabilire una volta per tutte la quantità delle schegge rimaste e la loro dislocazione, era espertissima. Tuttavia, non capiva come mai questo minorenne dal cognome italiano parlasse come un russo, e soprattutto non capiva dove mai egli avesse potuto infognarsi in un ginepraio simile. Al termine della visita mi fece accomodare nel suo studio e mi intimò: "adesso spiegami". Le raccontai questa storia, mostrandole le schegge estratte avvolte in un brandello di garza col sangue rappreso. L'espressione dei suoi occhi era simile a quella del tassista, come se fossi giunto lì dal passato remoto attraverso una macchina del tempo. Confermò quanto detto da mio zio: ormai, era meglio lasciare tutto com'era. Mi mostrò le lastre di un loro paziente ambulatoriale, che veniva ogni sei mesi per delle visite di controllo. Durante un contrattacco tedesco, questi fu ferito da una pallottola nella schiena. In trent'anni, senza ledere alcun organo vitale, la pallottola aveva attraversato il suo stomaco, attestandosi in prossimità dell'ombelico. Sulle lastre, quel canale scavato e la pallottola stessa parevano disegnati da un fumettista.
Da allora, non sopporto né botti né siringhe, per le quali svengo persino se si tratta di un'antitetanica. Indipendentemente dai miei principi morali, come tossicodipendente non farei carriera.
L'ultimo strascico di questa brutta avventura risale al 1985. Avevo 23 anni, ero stato richiamato alle armi, svolgevo il servizio militare ad Ascoli Piceno in una caserma notoriamente "di destra", piena di raccomandati locali. A loro dispiacque molto dovermi concedere una licenza quando ricevetti l'ingiunzione di presentarmi come parte lesa al processo contro i NAR presso il carcere di Rebibbia a Roma, ma dovettero ubbidire.
Rividi quasi tutti i miei compagni di allora, ed anche molti altri. Soprattutto, mi rimase impresso un ragazzo zoppo, ferito assieme ad Ivo Zini, ammazzato mentre, davanti alla bacheca dell'Unità della sezione PCI Alberone, in via Appia Nuova, leggevano a quale cinema andare quella sera del 28 settembre 1978.
Anche lì, era impressionante la sensazione di "catena di montaggio", sia nella maniacale perquisizione all'ingresso, sia nello sfilare a fianco delle gabbie dopo la deposizione in aula di fronte al giudice. Erano tutti in una gabbia, tranne Alessandro Alibrandi (nel frattempo morto durante un tentativo di rapina in una gioielleria), Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, che erano in una gabbia a parte a farsi fotografare dai paparazzi in effusioni più che esplicite, e Cristiano Fioravanti, credo uno dei primi pentiti, isolato in una gabbia tutta sua.
Mentre passavo, lo confesso, provavo un sentimento credo del tutto umano di rivalsa. Quando passai davanti a quella di Cristiano Fioravanti, ci fu qualcosa di magnetico, o almeno io lo ricordo in questo modo. Egli è, se non sbaglio, mio coetaneo. Era come se per qualche minuto durato pochi secondi ci fossimo parlati con gli occhi. In brevis, quel che percepii fu uno sguardo di angoscia e di stanchezza. Sembrava dire: "potevi morire, ma fatto sta che sei vivo. Io, invece, da qui non uscirò mai più".
Valeva la pena? No, certo. A lui non sarà mai possibile vivere tutte le gioie, le angosce, gli innamoramenti, le sofferenze, le sbronze, le serate con la chitarra che ho poi vissuto io. Lo so: anche i tanti ragazzi che hanno ammazzato avrebbero voluto vivere, fare figli, accudire i nipoti, ed invece quel filo di continuità venne reciso proprio dalle aberranti azioni di questi fascisti in erba. Ma quando uscii da Rebibbia, avevo una sensazione amara. Non sono per il perdono, non sono cristiano, sono ateo convinto. Non ho provato compassione, ma sicuramente tristezza. Una tristezza con cui continuo a convivere.
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