di Dino Bernardini
A partire dal 1976 sono stato per qualche anno responsabile dei rapporti del PCI con i partiti comunisti dei paesi socialisti. Non avevo accettato con entusiasmo quel nuovo incarico perché avrei preferito restare alla redazione di Rassegna Sovietica, dove ricoprivo l’incarico di vice-direttore e direttore responsabile (direttore era Umberto Cerroni, che però da anni era tutto preso dal suo lavoro all’università di Lecce e mi aveva lasciato carta bianca). Ma il mio amico Gianni Cervetti, che il quel momento era il numero 2 a Botteghe Oscure, insistette e mi convinse promettendomi che dopo un paio di anni, se non fossi stato soddisfatto del mio lavoro, avrei potuto tornare a tempo pieno alla mia amata Rassegna Sovietica, che nel frattempo, se me la sentivo, avrei potuto continuare a dirigere. Rimasi invece a Botteghe Oscure fino alla pensione. I miei capi diretti alla Sezione Esteri del PCI furono all’inizio Sergio Segre, responsabile, e Antonio Rubbi, viceresponsabile. Al di sopra di loro c’era Giancarlo Pajetta, che, in quanto membro della Direzione e presidente della Commissione Esteri del Comitato Centrale, faceva da supervisore della politica estera. Credo che Giancarlo Pajetta ritenesse all’epoca di essere lui il vero amico dell’URSS dentro il PCI, amicizia invero non ricambiata giacché i sovietici non è che si fidassero molto di lui e non lo amavano perché Pajetta ogni tanto si permetteva, anche contro di loro, una di quelle sue battute fulminanti che facevano sobbalzare i gerontocrati del PCUS. Ebbene, penso che Pajetta diffidasse di me per il semplice fatto che avevo studiato a Mosca, e che mi ritenesse un potenziale confidente del KGB. Ma forse, più probabilmente, ce l’aveva un po’ con me perché la mia nomina non era stata caldeggiata da lui. Mi rendo conto che tutti questi particolari sulla vita interna del PCI possono non risultare interessanti per il lettore, ma ne parlo per far capire la situazione in cui avvenne l’episodio che sto per raccontare. Comunque, i miei rapporti con Pajetta non furono sempre facili, fin dall’inizio, salvo imprevedibili – com’era nel carattere dell’uomo – momenti di bonaccia in cui arrivava persino a manifestarmi il suo affetto. Tant’è che quando, nel corso degli anni successivi, Paolo Bufalini si alternò per due volte con Pajetta alla presidenza della Commissione Esteri del Comitato Centrale, io venni nominato ogni volta membro di quella Commissione, come tutti gli altri funzionari della Sezione Esteri, mentre poi, quando il presidente tornava ad essere Pajetta, io ne venivo escluso. Io solo.
E veniamo all’argomento di questo Scampolo di memoria, suggeritomi dal necrologio di Schafik Handal che ho letto il 26 gennaio 2006 nel País (p. 45). Schafik Handal è stato Segretario Generale del Partito Comunista Salvadoreño, leader del Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale, negoziatore della pace raggiunta nel 1992 dopo decenni di guerriglia contro la dittatura. Nel momento in cui è morto ricopriva la carica di presidente del gruppo parlamentare del Fronte Farabundo Martí, trasformatosi nel frattempo in partito politico. Aveva 75 anni, ed è deceduto all’aeroporto di San Salvador subito dopo il suo ritorno dalla Bolivia, dove era stato invitato ad assistere all’insediamento di Evo Morales, il leader del MAS (Movimento al Socialismo) eletto plebiscitariamente dai diseredati indios boliviani, il presidente che al momento del giuramento ha levato in alto il pugno chiuso e che come suo primo atto di governo ha dimezzato gli stipendi dei ministri e ha stabilito che il suo personale emolumento presidenziale non deve superare una cifra corrispondente a circa 1.500 euro.
Nella seconda metà degli anni Settanta Handal, pur considerato un comunista moderato, era costretto alla clandestinità in patria e a frequenti viaggi e soggiorni all’estero. Di passaggio a Roma, aveva chiesto di incontrare qualcuno del nostro partito. Pajetta mi chiamò e mi disse di invitarlo a pranzo per sapere che problemi avesse.
– Ma Pajetta, io non so nulla del Salvador, abbiamo agli Esteri chi si occupa del Sud-America. E poi parlo abbastanza male lo spagnolo, riesco appena a farmi capire…
Non so se Pajetta conoscesse su Handal quello che io scoprii soltanto un anno dopo, forse voleva soltanto mettermi alla prova o magari divertirsi a mie spese, oppure non si fidava del nostro addetto all’America Latina, o forse quest’ultimo, adesso non ricordo, era assente da Roma, Fatto sta che non riuscii a convincerlo e dovetti prendere un appuntamento. Durante il pranzo Schafik Handal si confidò con me su molti argomenti e scoprimmo di pensarla allo stesso modo sull’URSS e sul cosiddetto “socialismo reale”. La conversazione fu lunga, anche perché spesso non ero sicuro di aver capito bene, a causa del mio spagnolo, e lo costringevo a chiarire meglio il suo pensiero con altre parole. Alla fine ci lasciammo da amici e in seguito ci capitò di incontrarci affettuosamente altre volte. Ma, come vedremo, senza più la difficoltà della lingua. E non perché nel frattempo il mio spagnolo fosse migliorato.
La prima volta fu un anno dopo, a Mosca, nell’albergo del PCUS per le delegazioni comuniste. Pochi sapevano che si chiamasse Oktjabr’skaja, giacché fuori non c’era scritto nulla [l’attuale Prezident Otel’, NdR], neanche che fosse un albergo. Ma ci si stava benissimo. Mentre ero a pranzo nella sala ristorante, vidi non lontano da me Schafik Handal che parlava liberamente in russo con un interlocutore sovietico. Rimasi stupefatto. Ci abbracciammo calorosamente e questa volta parlammo in russo, felici di capirci bene e recriminando di non aver saputo, un anno prima, di avere una lingua in comune per conversare. Eh, Pajetta!
***
Visto che nel capitolo precedente ho parlato di Rassegna Sovietica, voglio raccontare di come ne divenni il vicedirettore tuttofare, dove “tuttofare” significava veramente fare tutto, cioè scegliere gli articoli, commissionare le traduzioni, tenere i contatti con la tipografia (si era ancora all’epoca delle linotype), fare il lavoro di redazione dei testi e di editing, correggere le bozze nei vari passaggi fino al “visto si stampi”, preparare il borderò di ogni numero per pagare i collaboratori, rispondere alle telefonate ecc. La situazione nel 1972 era la seguente.
Come ho già detto, il direttore Umberto Cerroni era ormai tutto preso dalla sua cattedra all’università e formalmente la rivista era affidata alla vicedirettrice Irina Colletti, ex moglie di Lucio Colletti, donna all’epoca bellissima, di origine russa, intelligente e gentile, ma priva di polso nei suoi rapporti con i collaboratori. La rivista aveva ormai accumulato un ritardo cronico di tre o quattro numeri, che per una rivista trimestrale come era allora Rassegna significava un anno. Questo, perché, se un professore universitario prometteva a Irina Colletti un suo saggio per il prossimo numero, quel numero non poteva uscire finché il saggio non fosse pronto, ma nel frattempo un altro professore, che aveva consegnato il suo saggio qualche mese prima, chiedeva di fare qualche aggiornamento bibliografico o di sostanza, giacché nei mesi intanto trascorsi era uscita qualche nuova pubblicazione sull’argomento. Così gli aggiornamenti si rincorrevano a vicenda e la rivista accumulava mesi di ritardo. Inoltre c’erano pressioni da parte dell’ambasciata sovietica affinché il materiale tradotto dal russo e pubblicato in Rassegna Sovietica non si limitasse, come era da qualche anno, quasi esclusivamente agli inediti delle avanguardie sovietiche degli anni Venti e Trenta del Novecento, ma rispecchiasse anche la realtà contemporanea. A dire la verità, c’era anche il fatto che il nostro editore, e cioè l’Italia-URSS, Associazione Italiana per i Rapporti culturali con l’Unione Sovietica, pubblicava anche un mensile, Realtà Sovietica, in formato rotocalco, con molte fotografie, e che questo mensile era più gradito ai sovietici, ai quali non sarebbe dispiaciuto vedere la chiusura di Rassegna Sovietica.
Il senatore Gelasio Adamoli, Segretario Generale dell’Italia-URSS, mi propose di prendere in mano la direzione operativa di Rassegna. Concordammo la linea editoriale, mi illustrò i problemi e mi mise in guardia contro i possibili rischi. Alla fine del colloquio mi apprestai ad accomiatarmi, ma lui mi fermò con un certo imbarazzo.
– Abbiamo parlato di tutto, – disse, – ma non del tuo stipendio.
Si deve sapere che a quell’epoca ero uno dei pochi italiani a conoscere il russo ed ero ricercato continuamente come interprete, ben pagato. Avevo accumulato così un discreto gruzzoletto e mi consideravo una persona quasi ricca. Quanto a Rassegna Sovietica, era stata il mio sogno fin dagli anni in cui studiavo letteratura russa alla facoltà di filologia dell’Università Lomonosov di Mosca. Naturalmente le mie speranze di studente si limitavano a una eventuale collaborazione, non certo alla carica di direttore. Ed ecco che mi si offriva di colpo la direzione.
“Caro Adamoli”, – gli risposi scherzando, “Rassegna Sovietica è una rivista unica nel panorama editoriale italiano e mi piacerà moltissimo lavorarci. Quanto ai soldi, la penso così: quando uno va al cinema per vedere un film che gli piace, paga per entrare, non gli passa neanche per la testa che qualcuno possa dargli dei soldi. Ora tu mi chiedi quanto voglio per dirigerla, ma a me la cosa piace a tal punto che ti potrei chiedere quanto devo pagare io per farlo”. Dopo questa mia bella battuta ci accordammo per la favolosa somma di 30 mila lire al mese.
Fu l’inizio di un’avventura per me affascinante che spero di poter raccontare in futuro, a poco a poco.
Dino Bernardini, "Slavia" N°3 2006
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