martedì 1 dicembre 1987

Il ritorno di Sucharev

di Vladimir Ščerbakov

A guardarlo, sembrava dormisse beatamente, semicoricato in poltrona, tanto era sereno il suo volto, regolare il respiro e naturale la posizione. Ma dopo un paio di minuti risuonò il segnale d'allarme. L'uomo si risvegliò lentamente, si allungò verso lo schermo e fissò con palese sforzo i puntini che vi apparivano e sparivano: l'astronave stava attraversando una nube di meteoriti. I suoi occhi arrossati, irritati, rivelavano meglio di qualsiasi parola quanto fosse stata fallace la prima impressione. Poi si accasciò pesantemente in poltrona e fece in tempo a rientrare nel suo dormiveglia da incubo prima che risuonasse nuovamente l'impietoso segnale.

Erano tre o quattro giorni, non rammentava con precisione, che quasi non chiudeva occhio, dato che il segnale suonava in continuazione. Ma sì, probabilmente era da cinque giorni che il pilota automatico si era rotto. Se solo fosse riuscito a resistere fino alla fine… a sostituire gli elementi danneggiati. O forse era meglio farsi prima un sonno?…

Non poté determinare neanche approssimativamente quanto altro tempo fosse passato, quando l'impulso elettrico lo risvegliò per l'ultima volta. Senza aprire gli occhi, alzò con fatica il braccio e strappò svogliatamente il filo dell'allarme.

Nelle fantasticherie del suo sonno entrarono solo per un istante la nave, un guscio d'uovo indifeso nell'oceano del tempo e dello spazio, ed il puntino vertiginoso del meteorite che gli aveva attraversato la strada nel suo volo mortale.

Accordo in maggiore

C'era una strana sensazione che non abbandonava Sucharev: i quadrati verdi dei campi, i fiumi e gli edifici, bianchi come la neve del cosmodromo, spuntavano d'improvviso dalle nuvole, e vedeva tutto questo come dipinto sulla tela da un maestro che gli abbia dato vita. Non credeva che tutto sarebbe finito propria ora, in quell'istante.

L'ammortizzatore ricevette un colpo, ed egli sentì una leggera nausea in gola.

Un'automobile si avvicinò alla scaletta. Vol'd vide una donna. Capelli castani ondulati, volto aperto, felice, gambe slanciate: era Anna. L'aria azzurra primaverile era piena di suoni: si udivano in lontananza i clacson delle macchine, voci umane, i1 canto degli uccelli; da qualche parte qualcosa ronzava e rombava metallicamente. In dieci anni si era disabituato a tutto ciò.

Lei gli corse incontro. Lui era rimasto fermo, un po' vacillante, sul primo gradino della scaletta: il venticello primaverile e l'odore dell'erba gli avevano dato alla testa come se fosse stato un po' brillo.

I tacchetti di lei risuonarono svelti sulla scaletta. “Caro… Vol'd…” – pronunciò a fatica. Solo allora lui si accorse che i suoi occhi erano pieni di lacrime. Voleva dirle qualcosa, ma continuo a guardare, a guardare…

E c'era anche un'altra cosa che avrebbe voluto dirle… Le sue labbra si torsero in una smorfia e, come un bimbo, cacciò la testa nell'impermeabile di lei, un po' più giù del collo.

La strana ipotesi del professor Nevadago

Il professor Nevadago lo salutò senza sentimento, lo fece entrare nello studio ed affrontò la questione senza parole superflue.

– Sono importanti i particolari. Di fatto abbiamo già un'ipotesi su cui lavorare, per quanto possa sembrarle assurda. Ma i dettagli sono sempre convincenti, specialmente in questo caso… Sì… Lei ha detto che al momento del risveglio è corso allo schermo, che era vuoto. Beh, è possibile che questo sia stato reale… realistico… Possibile che non vi sia stato nulla che lei abbia reputato degno di nota, eccetto questa piastrina? Allora? – Nevadago prese a fissare con aria di attesa il suo interlocutore.

– No, nulla. Intendo, ovviamente, nulla di notevole, glielo avrei detto prima. Oltre ad una sensazione di leggera debolezza e ai giramenti di testa, di cui le ho già parlato. No, era tutto come sempre. Mi sono svegliato ed ho proseguito il volo. Poi ho trovato in tasca questo, – Vol'd toccò la piastrina sul tavolo, – e mi ha interessato al punto da informarvene…

– Va bene, – Nevadago si accostò al tavolo, nascose la piastrina e guardo con attenzione Vol'd da dietro gli occhiali. – Bene. Adesso mi ascolti con attenzione, tanto deve comunque venirne a conoscenza. La nave è stata perforata dalle meteoriti in vari punti. – Il professore fece una pausa, accentuando involontariamente l'ultima frase. I suoi occhi studiavano attentamente l'interlocutore, mentre la mano si protendeva verso il portasigarette. – La nave è stata crivellata, ed è tornata nuova di zecca. Come spiega questo piccolo paradosso? Tra poco mi crederà, Vol'd. Abbiamo trovato i segni delle riparazioni. E' stato molto difficile, quasi impossibile… Quelli che ci hanno lavorato sono stati dei cesellatori: nove squarci, pensi… No, tranquillo, Vol'd, mi ascolti, le spiego tutto con ordine. Tanto, deve saperlo comunque. Naturalmente, otto dei nove squarci sono stati la diretta conseguenza del primo. Il primo meteorite ha messo fuori uso una serie di apparecchiature, e poi è cominciato… un colpo dopo l'altro. Immagino lo spettacolo… Ma lei, Vol'd, a quel punto, in base alla mia ipotesi, non esisteva più. Era morto.

Nevadago avvicinò premurosamente all'interlocutore il portasigarette, prevenendo con uno sguardo freddo ed intelligente le inutili domande dell'altro.

– Lei non esisteva più, – ripeté pensoso. – Certo, ammetto che sia solo una mia ipotesi, ma non poteva essere altrimenti. Assolutamente, Vol'd, – ripeté con tranquillità. – Dopo, quando il pilota si è risvegliato e l'astronave, tutta bella e sana, ha ripreso il suo percorso, si è trattato già di un altro pilota. E di un'altra nave. L'astronave era stata riparata, come le ho già detto, ed il pilota… Calmo, Vol'd, non sono vaneggiamenti, deve saperlo… il pilota era stato sostituito con una copia identica. Lei non è Vol'd, e colui che fa più fatica a crederlo è proprio lei. Ma allo stesso tempo lei è quel Vol'd che in quella nube maledetta voleva tanto dormire, e questo facciamo fatica noi a crederlo…

Terminato di parlare, Nevadago prese una sigaretta, ed a Vol'd parve di vedere qualcosa di nuovo nella sua espressione, che prima non aveva notato. Egli reputava un malinteso tutto quello che il professore gli aveva detto sino ad allora, anche se era lontano dal pensare che uno dei due potesse aver perso il senno.– Queste sono le copie dei protocolli di analisi della nave dopo il suo ritorno, – Nevadago fece cigolare il cassetto di una scrivania fuori moda e gli porse alcuni fogli dattiloscritti. – Non abbia fretta, se li studi con attenzione, in particolare le conclusioni. Non la disturberò.

Il professore andò verso la libreria. Vol'd prese a sfogliare i protocolli. L'analisi chimica, l'analisi strutturale, tutto in regola. Snervamento del metallo… diagrammi… il contorno dell'astronave e le macchie su di essa… Vol'd contò nove macchie, tutte zone di composizione identica, ma con piccole differenze nei parametri fisici. Sì, erano delle otturazioni, roba da matti. Poi guardò i pannelli delle apparecchiature e di nuovo nei diagrammi vide le macchie, i segni delle riparazioni.

– Senta, – Vol'd chiamò debolmente il professore, che faceva finta di cercare un libro nella libreria, – è riuscito a sapere cosa sia quell'oggetto che mi sono trovato in tasca? Perché, se ho capito bene, e cominciato tutto con la piastrina, vero?

– Non sia ingenuo, Vol'd. Non sappiamo assolutamente di cosa si tratti. Vol'd, l'ho chiamata qui proprio per questo, anche se ammetto che senza di me non si sarebbe certo annoiato. Vede, è molto difficile comprendere la destinazione di quest'oggetto. Certo, era evidente sin dall'inizio che la cosa più probabile era che le fosse rimasta in tasca casualmente: non potevano mica avergliela lasciata di proposito. Sarebbe in contrasto con tutto il resto. Non legherebbe con il loro compito fondamentale. Nove squarci ed il pilota… Gli autori hanno voluto rimanere sconosciuti. Hanno fatto di tutto per celare l'accaduto. Ed hanno quasi raggiunto l'obiettivo. La piastrina è stata dimenticata nella sua tasca. Ma per noi, Vol'd, ciò è stato sufficiente.

Conosciamo benissimo i nostri limiti. Sappiamo di cosa sono capaci le nostre mani ed i nostri cervelli, abbiamo costruito l'edificio armonioso della scienza, abbiamo generato nel dolore macchine ed automi perfetti. Ma mai mano umana ha potuto tenere un oggettino simile. Nessuna mano. Mai. Perché vede, Vol'd, siamo riusciti ad analizzare solo un picco1issimo settore della superficie esterna della piastrina, micron per micron. I suoi atomi sono allineati come mattoni. Gli atomi più differenti. Non posso esemplificare con alcuna analogia adatta, Vol'd. E' una costruzione architettonica elaborata, composta di elementi uniti in base alla legge di un qualche codice complesso. Un bizzarro mosaico di molecole ed atomi. Mi scusi, mi sono infervorato, avrei dovuto tacere, tanto per ora è impossibile descriverlo con parole. Abbiamo trovato una traccia, Vol'd, e lei deve aiutarci, visto che ha avuto tanta fortuna.

– E incredibile, professore… Lei disporrà pure di fatti… di prove… O in questo caso non sono necessari?

– Nessuna. Nulla, oltre quello che le ho già detto, – si corresse il professore, dopo una pausa di riflessione. Tacque e giro a lungo tra le dita la sigaretta spenta.

– Che nube era, Vol'd? – chiese di punto in bianco il professore. – Voglio dire, cos'erano quelle meteoriti? La configurazione, il peso, anche se molto approssimativamente?

– Non saprei. Ma è cosi importante, professore?

– Chi lo sa… – borbottò piano Nevadago. – Semplicemente non possiamo metterci al loro posto, mentre loro… beh, inutile fantasticare.

… Il buio creava l'illusione della solitudine. La sera era così silenziosa e le stelle luminose splendevano così pacatamente che se Vol'd si fosse concentrato non avrebbe sentito altro che il rumore dei propri passi.

Continuava mentalmente la discussione. Ad un tratto, si convinse improvvisamente che nel ragionamento del professore c'era una lacuna. Ma quale? La sgradevole voce metallica del professore continuava a disputare con lui, cercava di convincerlo, di tranquillizzarlo… Certo, aveva ragione lui. Ci volevano fatti. Una logica. Conclusioni inconfutabili. Allora, era andata proprio così? La lacuna non si trovava. Ma da dove gli veniva allora quell'inspiegabile convinzione che ci fosse?… Da dove?

“Sono Vol'd. Ricordo perfettamente tutto quello che è successo, – tentò per l'ennesima volta di confutare mentalmente le ipotesi del professore. – Mi sono addormentato e poi mi sono svegliato. Era tutto a posto. Mi sentivo benissimo. Mi ricordo tutto perché sono Vol'd Sucharev, e nessun altro. Sono io che a scuola marinai la lezione di biologia per andare al cinema con Kol'ka Utrilov. E mi regalarono per il compleanno l'orologio con la bussola, ed io lo mostravo alle ragazzine. Una mi chiese di provarselo e lo ruppe, mentre la bussola rimase intatta. Lei quella volta si spaventò terribilmente. Mi fece pena. "Basta piangere, – le dissi, – tanto l'orologio non mi piaceva, e un bene che tu lo abbia rotto". In seguito diventammo amici…”.

Un epilogo realistico

Camminavano lungo un viale che sembrava un corridoio: a destra e a sinistra vi erano dei cespugli curati, un po' più in là file di alberi con delle stelle luccicanti che erano rimaste impigliate nelle loro chiome. Gli occhi vivaci del professore che lo guardavano fissi da dietro i grossi occhiali marrone emersero nuovamente nella sua memoria. Il “Metallo snervato” faceva parte del protocollo. Diagrammi, tabelle, fotografie… La sua nave: i due occhi neri degli oblò, le curve dell'astronave che riflettevano irregolarmente la luce con i resti dello strato protettivo, su un lato c'era la macchina bassa del servizio tecnico, la scaletta era appoggiata all'uscita di sicurezza, le cabine foderate... Era difficile credere che una costruzione cosi ridicola avesse potuto volare fino a poco tempo prima… Strinse più forte il braccio di Anna. Sembrava che il sogno continuasse. Prima di farla finita con tutta quella storia, disse:

– Anna, sembra proprio che la parola “ipotesi” vada sostituita con la parola “realtà”. Credo che Nevadago…

– Non dirlo, – lo interruppe lei dolcemente, – non posso più udire quel cognome terribile. E' tutto a posto, credimi.

– Bada, Anna, che sembra sia vero.

Lei si fermò d'improvviso, si voltò verso di lui e gli sfiorò il volto con la mano.

– Stupido, stupido, – prese a ripetere velocemente, – i tuoi ragionamenti sono privi di logica. Pensi forse che ci crederei, anche se fosse vero? Dimmelo, pensi davvero che potrei crederci?

[Da “Fantastika 1964”, Moskva, Molodaja gvardija, 1964, pp. 277-283. Traduzione di Mark Bernardini, pubblicata in “Rassegna Sovietica”, N°6 1987]

L'operazione "Cunami" è rinviata

di Il'ja Varšavskij

Gli intermediari stavano terminando gli ultimi preparativi al quartier generale. L'Aiutante entrò nella stanza ed avvisò che la ridislocazione delle truppe era terminata.

Il Generale diede un'occhiata ai presenti.

– Signori, vi ricordo le condizioni delle manovre per l'operazione “Cunami”. Le manovre avranno luogo a livello di divisioni, le squadre dei fucilieri verranno appoggiate dai carri armati, dai plotoni paracadutisti e dall'artiglieria. Inoltre, ciascuna parte avrà a disposizione batterie di missili atomici. La peculiarità di queste manovre consiste nel fatto che i “Giaguari” verranno comandati da un calcolatore elettronico. Scopo delle manovre è conquistare le postazioni detenute dagli “Orsi”. Prego, Sir, può immettere nel suo calcolatore i dati sulle posizioni di partenza.

– Okay! – gridò il Professore.

Fece un cenno all'Assistente e questi si mise a praticare sulla scheda i fori in una bizzarra successione.

Per un po', a partire dal momento in cui vennero immessi i dati necessari nel calcolatore, il quadro di questo si illuminò di varie lampadine colorate. Poi, sul quadro principale comparve una croce rossa luminosa.

– E' pronto? – chiese il Generale.

– Il calcolatore non è d'accordo sulla dislocazione proposta e chiede la redistribuzione, – rispose il Professore.

– E cosa vuole?

– Adesso vediamo.

Il Professore schiacciò un bottone verde sul quadro principale e dal calcolatore uscì un nastro di carta pieno di zeri ed unità.

– Curioso, – disse il Colonnello che fungeva da intermediario dei “Giaguari”.

L'Assistente contò i segni sul nastro e prese appunti sul suo taccuino.

– Chiede l'eliminazione delle riserve sui fianchi. Otto squadre fucilieri debbono occupare le postazioni lungo la linea del fronte.

– L'inizio lascia a desiderare, – disse il Generale. – Vuole lasciare i “Giaguari” senza nessuna copertura sui fianchi?

– Insiste perché due gruppi di carri armati da sfondamento si portino sui fianchi ed occupino le postazioni retrostanti i fucilieri.

– Geniale! – disse il Colonnello.

– C'è altro? – chiese il Generale.

– La bandiera della divisione deve essere collocata al centro, accanto alla batteria missili atomici, dietro i fucilieri.

– Stupendo! – esclamò il Colonnello. – Ha tenuto conto persino della bandiera!

Il Generale corrugò la fronte, ma non disse nulla.

– Sulla loro destra e sulla loro sinistra si debbono dislocare due batterie leggere, – continuò l'Assistente. – Accanto alle batterie vuole che si collochino i paracadutisti d'assalto.

– Spero che sia tutto?

– No: vuole che l'ospedale da campo sia tolto di mezzo.

– Per metterlo dove?

– Non deve partecipare affatto alle manovre.

Il Professore portò la mano al cuore ed emise un gemito.

– Cos'ha? – chiese il Generale.

– Una crisi cardiaca, – mormorò il Professore, accasciandosi sulla sedia. – Per favore, rimandiamo le manovre a domani. Vi prego!

***

Le luci della città erano ormai visibili quando il Professore, in ottima forma, ma con voce piuttosto scontenta, chiese all'Assistente:

– Ieri ha giocato di nuovo con lui a scacchi?

– Sì, Sir, perché?

– E il programma non l'ha più sostituito?

– N-n-non ricordo, – rispose imbarazzato l'Assistente.

– Me ne sono accorto! “N-n-non ricordo”! Non ha notato forse che stava dislocando i reparti militari come i pezzi sulla scacchiera?!

Il primo ad interrompere il silenzio che seguì fu l'Assistente:

– Comunque, peccato che non l'abbia fatto proseguire. Ieri funzionava a meraviglia. C'è mancato poco che non perdessi.

[Da “Fantastika 1964”, Moskva, Molodaja gvardija, 1964, pp. 226-228. Traduzione di Mark Bernardini, pubblicata in “Rassegna Sovietica”, N°6 1987]

Nuove notizie su Sherlock Holmes

di Il'ja Varšavskij

La domenica londinese è sempre piena di noia, ma se a questa si aggiunge la pioggia, diventa insopportabile.

Io ed Holmes stavamo trascorrendo la giornata domenicale nel nostro appartamento in Backer street. Il grande segugio guardava dalla finestra, tamburellando con le dita lunghe ed esili sul vetro. Nonostante tutti i miei sforzi, il pollice gli si piegava più lentamente delle altre dita.

Finalmente interruppe il silenzio che si protraeva da troppo tempo.

– Non ha mai pensato, Watson, alla non equipollenza delle perdite umane?

– Non la capisco del tutto, Holmes.

– Ora mi spiego. Quando una persona perde i capelli, li perde e basta. Quando perde un cappello, perde l'equivalente di due cappelli, poiché uno l'ha perso, e l'altro deve acquistarlo. Quando perde un occhio, non si sa se ha perso qualcosa: in fondo, con un occhio vede due occhi in tutte le altre persone, mentre queste ultime, pur avendone due, gliene vedono uno solo. Quando perde la ragione, il più delle volte perde ciò che non possedeva. Quando perde fiducia in se stesso… Ma se non erro, ora vedremo una persona che ha perso tutto quel che ho elencato. Sta suonando alla porta!

Poco dopo nella stanza entrò un uomo obeso e calvo, senza cappello, che si asciugava le gocce di pioggia sulla testa tonda con un fazzoletto. L'occhio sinistro era coperto da una benda nera. Tutto il suo aspetto esprimeva smarrimento totale.

Holmes fece un inchino di circostanza.

– Se non vado errato, ho l'onore di vedere in casa mia il duca di Montmorency? – chiese con raffinatezza incantevole.

– Mi conosce, mister Holmes?! – chiese il grassone stupito.

Holmes allungò una mano verso la libreria e prese un libro rilegato in percalle nero.

– Qui, eccellenza, sono raccolti i miei umili lavori di censimento di tutti gli anelli gentilizi. E non sarei un detective se non avessi riconosciuto a prima vista il famoso anello dei Montmorency. Allora, in cosa posso esserle utile? Non si faccia problemi per il mio amico e parli di tutto esplicitamente.

Il duca tentennò un po', evidentemente non sapendo da dove iniziare.

– E' in ballo il mio onore, mister Holmes, – disse, cercando a fatica le parole adatte. – E' una questione molto delicata. Mia moglie è fuggita. Per una serie di ragioni non posso rivolgermi alla polizia. La scongiuro, mi aiuti! Mi creda, sono mosso da qualcosa di più nobile che non la gelosia o l'amor proprio ferito. La questione potrebbe prendere una piega molto sgradevole da un punto di vista politico.

Dal luccicare degli occhi semichiusi di Holmes compresi che tutto questo lo interessava alquanto.

– Vuole essere così gentile da narrarci le circostanze in cui ha avuto luogo la fuga? – chiese.

– E' accaduto ieri. Eravamo nella cabina del “Mauritania”, in procinto di salpare per la Francia. Sono uscito un minuto per andare al bar, mentre mia moglie rimaneva in cabina. Dopo aver bevuto un bicchierino di whisky, sono tornato, ma la porta era chiusa. Dopo averla aperta con la mia chiave, ho scoperto che mia moglie era scomparsa con tutta la sua roba. Mi sono rivolto al capitano, la nave è stata rovistata da poppa a prua, ma purtroppo senza esito.

– Milady aveva una cameriera?

Il nostro ospite esitò.

– Vede, mister Holmes, eravamo in viaggio di nozze, dunque difficilmente degli estranei potevano esserci d'aiuto…

Conoscevo bene il tatto del mio amico in queste cose e non mi stupii del fatto che chiedesse con un gesto al duca di non proseguire oltre il suo racconto.

– Spero di poterla aiutare, eccellenza, – disse Holmes, alzandosi per porgere il cappotto all'ospite. – L'attendo domattina alle dieci.

Holmes tolse con garbo un capello dal bavero del duca e lo accompagnò alla porta.

Tacemmo per alcuni minuti. Holmes, seduto al tavolo, guardava attentamente qualcosa con la lente d'ingrandimento.

Alla fine non resistetti.

– Sarebbe interessante, Holmes, sapere cosa lei pensa di questa storia.

– Penso che la duchessa di Montmorency sia uno sporco animale! – rispose con un'asprezza inusuale per lui. Del resto, era sempre stato molto severo per ciò che riguarda la morale.– Ed ora, Watson, a letto! Domani sarà una giornata dura. A proposito, spero abbia con sé la sua pistola. Potrebbe servire.

Capii che non gli avrei cavato nulla di più, e gli augurai la buonanotte. Il mattino seguente il duca non si fece attendere. Alle dieci in punto suonò alla nostra porta.

Holmes aveva già prenotato un cab, e partimmo per l'indirizzo che indicò.

Il viaggio fu lungo, tanto che il nostro cliente iniziò a spazientirsi. Improvvisamente Holmes ordinò al cabman di fermarsi nei pressi dei Docks. Fece un fischio, e da dietro l'angolo spuntò un omaccione con un canguro rosso al guinzaglio.

– Eccellenza, – si rivolse Holmes al duca, – la prego di consegnarmi quindici sterline, tre scellini e quattro pence in presenza del mio amico dottor Watson. Di questa somma, devo dieci sterline al padrone del serraglio per la duchessa di Montmorency, mentre il resto lo verserò come multa alle autorità doganali per il tentativo di trasportare illegalmente animali dall'Inghilterra.

Il duca rise con allegria.

– La prego di perdonarmi, mister Holmes, per il piccolo inganno, – disse, estraendo il portafoglio. – Non potevo dirle che sulla nave si nascondeva un canguro sotto le sembianze di una lady. Non avrebbe mai intrapreso le ricerche. Sono stato costretto ad infrangere la legge ed a portare quest'animale in Francia per una stupida scommessa. Spero non mi serbi rancore.

– Assolutamente no! – rispose Holmes, tendendogli la mano.

Un attimo dopo nelle mani di Holmes luccicarono le manette, che scattarono con precisione ai polsi del duca.

– Ispettore Letard! – disse Holmes rivolgendosi al nostro cabman. – Può arrestare il professor Moriarty con l'accusa di omicidio del duca e della duchessa di Montmorency. Ha commesso questo crimine per rubare un carbonchio azzurro che si trova attualmente nel marsupio di questo canguro. Non si disturbi, professore, il mio amico Watson sparerebbe per primo!

***

– Mi dica, Holmes, – chiesi la sera al mio amico, – come ha indovinato che era un canguro anziché una lady?

– Al nostro primo incontro tolsi di dosso dal nostro cliente un capello rosso. Dalle informazioni che ho preso, milady era bruna, di conseguenza il capello poteva appartenere o alla cameriera o all'animale. Come lei sa, la cameriera si esclude. Il fatto che il marsupiale fosse femmina l'ho stabilito con la lente d'ingrandimento. Ed ora, Watson, – concluse, – ho intenzione di abbandonare tutti gli affari per ampliare la mia monografia sui merli neri.

– Un'ultima domanda! – lo supplicai. – Come è riuscito a sapere che sotto le sembianze del duca si nascondesse Moriarty?

– Non saprei, – disse con disappunto. – Può darsi… E se lo avessi tenuto d'occhio durante tutti questi anni?

Sospirai, misi una mano sulla spalla di Holmes e premetti l'interruttore nascosto sotto la giacca. Poi, asportato da Holmes il pannello posteriore, cominciai a rifare le saldature dei circuiti di programmazione. In quelle condizioni, era inutile persino tentare di venderlo a Scotland Yard.

[Da “Fantastika, 1964 god”, Moskva, Molodaja gvardija, 1964, pp. 222-225. Traduzione di Mark Bernardini, pubblicata in “Rassegna Sovietica”, N°6 1987]

sabato 1 agosto 1987

Un colpo casuale

di Anatolij Dneprov

Tutti hanno appreso dai giornali come è morto il dottor Glorian. Pare che poco prima di partire per una battuta di caccia stesse pulendo il fucile, che accidentalmente ha fatto fuoco. Dicono che qualunque arma spari almeno una volta indipendentemente dalla volontà del suo proprietario. Ed è proprio così che i cronisti hanno descritto la fine di Glorian.

Non avrei mai scritto questo documento, se poco dopo la morte di Glorian non fosse apparso sui giornali l'annuncio che il suo avvocato Victor Bomp non avrebbe indagato, su richiesta della moglie e dei parenti stretti, sulle circostanze della fine dello scienziato. “La gente decida da sola, avrebbe detto Victor Bomp, se si sia trattato di suicidio o di disgrazia”.

Io non so cosa sia stato. Ma visto che la gente dovrà optare per una delle due ipotesi, delle quali solamente una è quella giusta per il mio amico Glorian, mi sento in dovere di rendere di dominio pubblico alcuni fatti.

Dunque, Robert Glorian è morto tre ore esatte dopo che ci siamo salutati all'uscita del caffè “Malta”. Ricorderò finché vivrò l'espressione del suo volto. Era pallido, come se fossimo stati di notte ed il suo volto fosse stato illuminato dalla luna. Stringendomi la mano mi disse:

– In trent'anni non mi sono mai sbagliato. In matematica, ovviamente. Gli errori nella vita sono un'altra cosa…

Mi venne in mente sua moglie, Eugene, ed annuii con comprensione. Mi era sempre sembrato che Glorian fosse infelice con lei. Spesso li osservavo da spettatore esterno: vi era una certa ostilità fra loro, ma del resto è una cosa piuttosto diffusa quando un marito ed una moglie sono intelligenti entrambi. Più volte ho sentito Eugene dire:

– Al giorno d'oggi, questi matematici mettono il loro naso in ogni cosa. Hanno rovinato l'esistenza umana.

Nelle sue parole vi era una dose di verità.

Quella sera eravamo seduti a sviluppare il teorema di Von Neuman e Morgenstern relativo ai giochi con le somme nulle. In matematica si può rigorosamente dimostrare come nei cosiddetti giochi da salotto ciascuno perda esattamente tanto quanto un altro vince. Il teorema di Von Neuman è una sorta di legge di conservazione della puntata iniziale nel gioco. Poi io e Robert ci siamo messi ad analizzare situazioni più complesse, ed in ogni caso giungevamo sempre alla stessa conclusione: il gioco delle somme nulle è riscontrabile ovunque. Quando siamo passati alla teoria matematica dei conflitti umani, ci si avvicinò Eugene:

– Sapete che vi dico? Mi ripugna ascoltarvi. Voi scomponete i pensieri ed i sentimenti in coefficienti di una matrice non degenere. Se permettete, Robert, vado al “Malta”.

Robert sorrise penosamente ed annuì. Allora ebbi l'impressione che, lasciando andare la moglie al night club, egli cercasse semplicemente di non pensare a lei. Prese a parlarmi di un libro appena pubblicato, di Louis e Raff, in cui la teoria matematica dei conflitti era elevata al massimo grado di perfezione.

Eugene uscì, e noi restammo nello studio di Robert fino alle tre di notte. Non mi ricordo tutti i particolari della nostra discussione. Ricordo soltanto che, passando in rassegna gli indirizzi fondamentali dei conflitti nella nostra società, dichiarai:

– La nostra economia, come tu stesso mi dimostri, altro non è che un gioco originale tra imprenditori e consumatori. Posso dimostrarti con un semplice esempio come questo gioco sia ormai condannato. Tu, Robert, sai come tutti i nostri industriali tendano all'automazione completa. Essi la attuano con successo nella realtà. Ad ogni nuova linea automatizzata, migliaia, decine di migliaia di persone vengono gettate per la strada. E divengono dei disoccupati. Volendo pagare di meno ed ottenere di più, i padroni delle aziende prima o poi arriveranno all'automazione completa della produzione.

– E allora? – chiese sarcasticamente Robert.

– Allora, caro mio, l'automazione totale consentirà agli imprenditori di liberarsi completamente del lavoro e delle prestazioni dei lavoratori e di produrre qualsiasi quantità di beni di consumo, ma nessuno potrà acquistarli. Le persone private del loro lavoro non possiedono soldi e di conseguenza non possono acquistare ciò che viene prodotto dalle macchine automatiche.

Robert Glorian si morse il labbro inferiore, si passò lentamente la mano sulla testa imbiancata e disse con convinzione:

– Da ciò si deduce solo una cosa: l'automazione non sarà mai completa. Un gioco del genere non è vantaggioso per i nostri imprenditori, così dotati di iniziativa.

– E qual è quello vantaggioso? – chiesi.

– Un'automazione intelligente, che non escluda, ma al contrario proponga una partecipazione sempre maggiore della gente nella produzione…

Secondo me, era la frase più nebulosa che avesse mai pronunciato Robert Glorian. Egli era un acceso sostenitore del “darwinismo sociale”, secondo cui l'evoluzione ed il progresso dell'umanità dipendono completamente dall'iniziativa privata di ciascuno dei suoi componenti, mentre l'iniziativa stessa viene determinata unicamente dalla propensione dell'uomo all'arricchimento.

Di natura sono scettico e non sopporto i dogmi. Anche se Glorian era il mio migliore amico, sopportavo con fatica gli assiomi a cui era inspiegabilmente giunto. “Questo è vero, questo è falso”, amava dire, ma sia il suo vero che il suo falso stentavano ad entrarmi in testa. I suoi assiomi erano in egual misura comprensibili ed indimostrabili. Probabilmente, tre secoli fa, allo stesso modo gli scienziati ritenevano esatto l'assioma galileiano per cui in tutto l'universo il tempo scorre alla stessa velocità.

La teoria matematica dei conflitti, la teoria dei giochi, la programmazione lineare e dinamica, l'economia matematica erano i cavalli di battaglia di Robert. Egli era sempre presente in tutte le commissioni e comitati addetti ad elaborare le linee economiche e militari per il governo. Ormai non è più un segreto che Robert Glorian fu uno degli autori della relazione sulle basi economiche della produzione di armi atomiche nei tempi in cui la possibilità tecnica e scientifica di creare simili armi non era ancora stata dimostrata.

– Perché la tua Eugene se ne va da sola al night club? - chiesi di punto in bianco.

– Siamo due persone molto diverse. Lei non ama la mia tesi secondo cui ogni comportamento sociale della collettività umana e persino di un singolo individuo può essere descritto con delle equazioni matematiche.

– Ha ragione. Per una persona intelligente ed onesta credo che essa sia ripugnante.

– Eugene è innamorata di Seady While e del suo jazz. Non so di chi altro, – mormorò frettolosamente. Dopo aver fatto un lungo respiro, aggiunse: – Le leggi della natura sono impietose. Ad esempio, a me non piace la legge di Bieau e Savarre sull'interazione dei conduttori lungo i quali scorre la corrente elettrica. Non mi è molto chiaro perché il campo magnetico di un conduttore agisca “da dietro l'angolo” su di un altro. Ma cosa ci vuoi fare: è la natura. Eugene cerca di contestarmi in base al cosiddetto buonsenso. Ridicolo, vero?

– Perché, hai tentato di affrontare il problema dell'automazione completa della produzione anche coi lei?

Robert corrugò la fronte.

– Ha detto che se questo dovesse accadere, moriremmo tutti di fame.

Scoppiai a ridere, e Robert di colpo si fermò in mezzo alla strada ed esclamò:

– Se la pensi come Eugene, affrontiamo il problema seriamente. Viviamo in un'epoca in cui l'ultima parola spetta sempre alla scienza…

Eugene era uscita alle otto di sera e tornò alle quattro di notte. Era un po' euforica, ed il rossetto viola sulle sue labbra carnose era semicancellato. I suoi occhi erano ironici e cattivi.

– Robert, – disse, – ho un'eccezionale dimostrazione del fatto che hai maledettamente ragione! Il jazz di Seady While non suonerà più al “Malta”. Al posto della sua orchestra, in pista hanno installato un organetto elettronico “Époque”, dentro al quale un'orchestra inesistente esegue qualsiasi motivo richiesto esattamente come lo eseguivano Seady While ed i suoi ventisette ragazzi. Immagino quanto maledicano l'ingegnere che ha inventato questa schifezza.

Robert faticò abbastanza per riuscire ad apparire allegro e contento della vita. Sollevò il capo dai fogli sui quali riportavamo con diligenza le nostre equazioni di “bilancio sociale”, e disse:

– Nel nostro Paese non tutti sono così idioti come il proprietario del club “Malta”. Alla fin fine, se non lui, suo figlio o suo nipote comprenderanno che a questo mondo sopravviverà solo chi raggiungerà un equilibrio calcolato con precisione tra l'attività delle macchine e quella dell'uomo. Andrà pur considerato il fatto che se Seady While e la sua orchestra non trovano un lavoro, essi semplicemente rapineranno il padrone del “Malta”!

Robert mordicchiò un po' l'estremità della matita e trascrisse un'altra equazione del “bilancio”.

– Verrà un tempo, – disse Eugene, – in cui saranno proprio quelle scatole elettriche che adesso suonano il jazz al posto di Seady While ad occuparsi della composizione di quei bilanci ed equazioni matematiche.

Robert non l'ascoltava e scriveva rapidamente qualcosa su di un foglio di carta. Eugene sbirciò da dietro la sua spalla le file ordinate di formule matematiche.

– Seady While trova che l'organetto elettronico “Époque” riproduce genialmente le sue esecuzioni. Puoi esserne felice. – L'ultima frase la pronunciò con rabbia palese.

– Era al club? – chiese con indifferenza Robert, proseguendo i calcoli.

– Sì, – rispose Eugene.

– Sarei curioso di sapere cosa ha intenzione di fare per autoconservarsi e lottare. Ha una sola via d'uscita. Superare la macchina ed inventare qualcosa per cui necessiti inventare un'altra macchina. Il progresso della società futura consisterà nella continua competizione degli uomini con le possibilità della macchina. Ciò è facilmente calcolabile con questa equazione…

La moglie di Robert Glorian si calò nella poltrona con un leggero lamento. Mi fece compassione.

– Cosa ne pensate della seguente soluzione: le macchine producono tutto ciò che è necessario per l'uomo, che poi viene distribuito gratuitamente a seconda delle esigenze? – chiesi sottovoce.

Eugene sorrise con sarcasmo, si strinse nelle spalle e fece un cenno verso Robert.

– Allora cesserà il progresso umano. Così almeno afferma mio marito. Affinché la civiltà fiorisca, occorre che gli uomini cerchino sempre di tagliarsi la gola l'un l'altro. Non lo sapeva, forse?

Ora ero sicuro che Eugene odiasse suo marito.

– E' un fatto noto a qualsiasi studente di qualunque college, – borbottò Robert senza distogliersi dai suoi appunti. – Beh, ho finito. Ottantaquattro equazioni lineari.

Si alzò dal tavolo e levò in aria trionfalmente la mano con cinque fogli di carta.

– Domani decideremo chi ha ragione.

– Dimmi un po', sii buono: anche l'amore e l'odio di una persona nei confronti di un'altra persona è possibile esprimerli con l'aiuto di equazioni matematiche? – chiese Eugene guardando Robert dritto negli occhi. Le sue labbra tremavano nervosamente, pronte forse a scoppiare in una risata, o forse in un pianto.

– Sì, è possibile, – rispose categorico Robert. – E' un caso piuttosto limitato e privato. Non riveste importanza sostanziale per l'economia di uno Stato. Anche se…

Ci pensò per un attimo e si rimise alla scrivania.

– Oggi While mi ha detto che se la produzione degli organetti elettronici “Époque” assumerà un carattere di massa, nel nostro Paese non nascerà mai più un buon compositore.

Robert scoppiò in una risata sonora e innaturale.

– Spero che non sarai molto scontenta del fatto che da noi da tempo non ci sia più bisogno di ciabattini geniali, visto che le scarpe che ti piacciono vengono prodotte con successo dalle macchine.

Robert è sempre stato un lavoratore instancabile. Quando Eugene andò a dormire, mi propose con un'aria da cospiratore di elaborare immediatamente un programma per la soluzione delle ottantaquattro equazioni che aveva creato.

– Per mezzogiorno dovremmo farcela. Tra mezzogiorno e le tre la macchina del centro atomico di calcolo è libera. Ci penserà lei a risolvere il problema.

– Cosa vuoi risolvere? – chiesi.

– Voglio calcolare una politica razionale a lungo termine per il nostro Stato nel campo dell'immissione delle nuove tecniche e dell'automazione. In questo gioco ho previsto tutto. Persino l'amore. Persino il tradimento. In fondo, non possiamo non tenere in considerazione questi elementi. L'amore è una fonte che arricchisce lo Stato di nuovi produttori e nuovi consumatori di risorse naturali ed energetiche.

Non badai al cinismo di Robert e mi buttai con foga nella composizione dell'algoritmo e del programma di soluzione del suo sistema di equazioni. Eugene ci portò il caffè, e quando lo bevemmo era ormai giorno. Poi uscimmo ed attraversammo il parco.

Robert, socchiudendo gli occhi, guardò il sole.

– Parola mia, la temperatura di irradiazione di questo astro oggi è superiore ai seimila gradi.

Cercai di immaginare quanto deve essere noioso e rivoltante vivere con un matematico fin nel midollo come Robert. Desiderai di gettare in mare tutti i nostri calcoli e mandare al diavolo il mio amico.

Eric Hanson, l'operatore del computer, dopo aver visto i nostri appunti ed il programma disse che la soluzione del problema poteva essere pronta dopo due-tre ore.

– Siamo al caffè del club “Malta”. Quando è tutto pronto, ci telefoni, – lo istruì Robert.

Dopo la seconda tazza di caffè Robert disse trasognato:

– Com'è bizzarra la vita. Un tempo si pensava che fosse piena di misteri e di percorsi impraticabili. Mentre ad analizzarla bene la si può trasporre in ottantaquattro equazioni differenziali. Stupendo, vero?

Mi strinsi nelle spalle.

Quando terminammo la terza tazza di caffè, apparve Seady While, il direttore dell'orchestra jazz sostituita dalla macchina “Époque”. Non l'avevo mai visto prima, e lo conoscevo solo dalle foto dei giornali. Era decisamente più anziano di come me lo immaginavo.

– Permettete? – chiese, e si sedette al nostro tavolo senza attendere risposta.

Robert, fissando il portacenere di cristallo, borbottò:

– Prego.

– Vorrei parlarle in privato, disse While.

– Non ho nulla da nascondere al mio amico, – rispose netto Robert.

– Come preferisce… Io amo sua moglie, e lei ama me.

– Lo so.

Non un muscolo tradiva Glorian.

– Sono stato licenziato, e dovremo cambiare città, – disse While.

– Dovrete cambiarne molte. Presto la macchina “Époque” verrà prodotta in serie.

– E' probabile che passino alcuni anni prima che il jazz automatico penetri nei villaggi abbandonati.

La voce di While era un poco tremolante.

– Mi occuperò io stesso della produzione massiccia delle macchine “Époque”, – disse Robert con nonchalance.

– Ho alcune idee concernenti la musica che lei e la sua maledetta matematica non potrete trasformare in macchine. Robert si animò e mi guardò fisso negli occhi.

– Non è forse una dimostrazione convincente delle mie opinioni? Il progresso quale risultato della lotta per la sopravvivenza, per l'autoconservazione, per la continuazione della specie, quale competizione tra l'uomo e la macchina. Bravo, While, è degno di Eugene!

Dopo queste parole avrei voluto colpire Glorian con un pugno in faccia, ma in quel momento giunse il cameriere per avvisare Robert che era desiderato al telefono.

– Ecco la soluzione! Sentiremo ora il responso inesorabile della logica!

Si alzò e fece per andare. Poi d'improvviso si sedette di nuovo, si appoggiò allo schienale della poltrona e ridendo si rivolse a me:

– Senti, vai tu, mentre io chiarisco una serie di piccolezze di carattere pratico con il signor While.

Sollevai la cornetta nello studio del direttore del club, e a lungo non mi rispose nessuno. Si sentivano rumori, urla, imprecazioni, qualcuno accusava qualcun altro di qualcosa, qualcuno cercava di dimostrare qualcosa con decisione e fermezza. Sentii più volte il nome “Robert Glorian”. Poi sentii la voce arrabbiata di Eric Hanson, l'operatore del computer.

– Pronto, Glorian, è lei? Vada al diavolo!

– Non sono Glorian. Mi ha incaricato di sapere cosa ha risposto la macchina.

– Che sia maledetto quel vostro problema! Per colpa sua dovremo stare fermi nuovamente per ventiquattr'ore!

– Perché? – chiesi stupito.

– La macchina si è rotta.

– Non capisco. Cosa c'entra il problema?

– La macchina si rompe ogni qualvolta il problema non presenta soluzione. Lei mastica un po' di matematica? Esistono problemi insolubili… Rompere le macchine calcolatrici ed elettroniche usando questi problemi è la cosa più semplice. Glorian avrebbe dovuto saperlo…

– Eugene mi lascia oggi, – dichiarò impassibile Robert al mio ritorno al tavolino. – E' persino un bene che tutto sia finito così rapidamente e con semplicità. Non ci siamo mai capiti, noi due.

Beveva il cognac a piccoli sorsi e pasteggiava col caffè.

– Robert, non ti pare che a volte anche tu non capisca tutto?

Mi sedetti.

– Ti hanno comunicato la soluzione del problema dell'automazione ottimale? – chiese. La sua voce suonava fredda ed ufficiale.

– La soluzione non esiste.

Robert si fece scuro in viso. Io ripetei:

- La soluzione non esiste, per cui la macchina si è rotta.

– Non stai scherzando?

– Nient'affatto… Voglio del cognac.

Rimanemmo a lungo seduti in silenzio. Dietro le finestre imbruniva. Qualcuno accese il giradischi “Époque” e questo, esattamente come l'orchestra jazz di Seady While, iniziò ad eseguire varie danze e melodie popolari. L'orchestra non c'era. La musica fluiva dai recessi dell'anima di fibre di vetro di una lucida scatola nera collocata su uno zerbino rosso in mezzo alla pista deserta. Robert fissò la scatola e poi disse:

– In trent'anni non mi sono mai sbagliato. In matematica, ovviamente. Gli errori nella vita sono un'altra cosa… Vado a prendere una boccata di aria fresca.

Non ricordo quanto tempo rimasi ad ascoltare quella musica morta. Quel giorno non avevo mangiato nulla ed avevo bevuto molto. Quando il caffè si vuotò, mi si avvicinò il cameriere e mi sfiorò la spalla.

– Oggi anticipiamo la chiusura. Siamo in lutto…

– Chi è morto? – chiesi con indifferenza.

– Due ore fa è capitata una disgrazia al famoso scienziato Robert Glorian, nostro cliente abituale.

Il mattino seguente lessi nei giornali ciò di cui vi ho parlato all'inizio di questo racconto.

[Da “Fantastika, 1964 god”, Moskva, Molodaja gvardija, 1964, pp. 179-189. Traduzione di Mark Bernardini, pubblicata in “Rassegna Sovietica”, 1987]

domenica 1 dicembre 1985

Esquilino 1979

di Mark Bernardini

Dopo la disfatta del 1948, in buona misura determinata dall'ingerenza diretta degli Stati Uniti e del Vaticano, il PCI non aveva mai perso. Tuttavia, la politica dei piccoli passi ha fatto sì che, ad ogni consultazione elettorale, i comunisti guadagnassero lo zero virgola qualcosa, roba da prefissi telefonici. L'eventuale un percento di aumento veniva giustamente presentato come una portentosa vittoria del proletariato. Tutto sommato, questo andava bene un po' a tutti: ai Partiti borghesi, DC in primis, che vedevano lontana mille anni luce l'ipotesi di un governo non dico comunista, ma almeno di un governo costretto a fare i conti con una solida opposizione comunista; ma anche ai comunisti stessi, consci che qualunque avanzata troppo irruenta avrebbe inevitabilmente portato ad un intervento diretto degli americani nella vita democratica del Paese, essendo questi ultimi già presenti in forze – militari – lungo tutta la penisola.

Personalmente, sono cresciuto proprio in questa logica, fin dalle mie prime manifestazioni, alle medie inferiori, all'indomani di un altro 11 settembre, che ora tutti sembrano voler obnubilare, quello del bombardamento del palazzo presidenziale La Moneda a Santiago del Cile, nel 1973, pagato anch'esso, come spesso – troppo spesso – nei decenni a venire, dagli Stati Uniti. Sono cresciuto in una famiglia comunista, appunto, con un nonno confinato negli anni '20 in tutti i luoghi che ora Berlusconi immagina come amene località di villeggiatura, Favignana, Ustica, Ponza, richiamato a 38 anni alle armi e spedito a Bengasi, torturato dalla banda Koch nel 1943; confinati anche vari suoi fratelli (cinque comunisti su nove fratelli), Lipari, ancora Ponza, Pisticci; un padre che studiò filologia slava all'università di Mosca negli anni '50.

Il 15 giugno 1975 il PCI fece un'avanzata strabiliante alle elezioni amministrative. Circa la metà delle regioni, moltissime province e molti comuni capoluoghi di regione finirono in mano alle giunte di sinistra. Questo era il dato nuovo e, allo stesso tempo, denso di incognite: l'anno dopo, il 20 giugno 1976, alle elezioni politiche ci si attendeva finalmente il sorpasso sulla DC. Il PCI guadagnò il 7%, portandosi al 34,4%, ma la DC non solo non arretrò, ma addirittura guadagnò qualcosa e si attestò sul 38% netto. Quello che all'epoca nessuno volle dire, a sinistra (e soprattutto nella cosiddetta "sinistra extraparlamentare"), era che a tradire furono proprio i giovani, da sempre cavallo di battaglia comunista. Facendo una mera sottrazione tra i voti della Camera e quelli del Senato, si aveva il quadro dell'orientamento dei cittadini tra i 18 e i 25 anni. La maggioranza, oltre due milioni e mezzo di elettori, aveva votato per la Democrazia Cristiana. Il Paese era spaccato in due, con tutte le conseguenze che di lì a pochi mesi avremmo tragicamente assaporato.

Giunse la stagione delle contestazioni a sinistra, molte assolutamente giustificate, molte altre talmente pretenziose da ingenerare, non senza ragione, dubbi circa la loro origine, i famosi burattinai. Contemporaneamente, dall'altra parte si invocava un'ingerenza nient'affatto velata del solito amico (ma di chi?) americano. Ricordo ancora una copertina di Panorama (che non era ancora Mondadori e quindi Berlusconi) che sintetizzava le dichiarazioni del presidente statunitense Jimmy Carter: Berlinguer stia al posto suo. Un avvertimento mafioso.

Venne toccato l'apice, il momento più grave e pericoloso, col rapimento e l'omicidio di Aldo Moro, e la sparizione delle sue carte dal luogo del rapimento ad opera di sconosciuti, nonostante le transenne della polizia. Questo episodio risulta tanto più emblematico se si considera che ministro degli interni era proprio quel Francesco Cossiga, futuro Presidente della Repubblica, che molti anni dopo ebbe a vantarsi del suo coinvolgimento nell'organizzazione golpista e paramilitare di Gladio.

Questo tra marzo e maggio 1978. Alla ripresa dell'anno accademico, in ottobre nelle scuole superiori e nelle università si verificò un fenomeno che ha dell'inverosimile: sembrava infatti che nessuno in vita sua avesse mai fatto politica, tutti in discoteca. Era iniziata la stagione che venne definita quella del "riflusso". Eppure, tutto continuava al solito, i fascisti ogni tanto accoltellavano a morte qualche ragazzo di sinistra (Ciro Principessa), assaltavano gli organi di informazione di sinistra (Radio Città Futura), ma parevano solo delle schegge impazzite ed anacronistiche.

Fu così che si arrivò alle prime elezioni politiche del dopo Moro, quelle del 3 giugno 1979. Per la prima volta, il PCI perse. Una settimana dopo, per la prima volta nella storia si votò per il Parlamento Europeo, ed il PCI confermò la propria sconfitta. Si era esaurita la famosa "spinta propulsiva".

Di tutto questo, all'Esquilino, la mia sezione di allora, il 16 giugno si discuteva in una pubblica assemblea, molto accesa, animata, la tensione si tagliava col coltello. Era uno scantinato di fronte ad un cinema porno, attaccato alle ferrovie laziali. Una realtà fatta di ferrovieri, operai della FIAT Manzoni, della Centrale del Latte, di lavoratori dei corsi serali degli istituti tecnici industriali.

Per la tensione, si facevano anche discussioni stupide, per fortuna episodiche, tipo l'impellenza di limitare il fumo nelle assemblee, non tanto per ragioni salutiste, quanto per le cicche in terra, che poi pulivano le compagne.

All'epoca, avevo già iniziato a lavoricchiare, nonostante la giovane età, traducendo in alcune occasioni per dei "colossi" come Pajetta, Amendola, Berlinguer, D'Alema. In un'occasione, in una sala conferenze (non ricordo se all'hôtel "Parco dei Principi", o qualcosa del genere), avevo visto delle sedie identiche a quelle che usavamo in sezione, con un monoblocco sedile e schienale in plastica e le gambe in alluminio. Tra una sedia e l'altra, sulle gambe, erano incastrati degli appositi portacenere.

Durante l'intervento di Ignazio, un operaio della FIAT Manzoni con l'eskimo, mi alzai dalla mia sedia, feci un metro e mezzo a destra e mi accovacciai di fronte a Luciana, una compagna ventiseienne della segreteria di sezione e moglie del segretario Claudio, per suggerirle sottovoce questa banalissima soluzione.

In quell'istante, nello scantinato mancò la luce. Gli interruttori erano sulle scale di accesso, noi eravamo tutti di spalle, mentre la presidenza dell'assemblea, pur essendo frontalmente rispetto agli interruttori, era impedita nella visione da un angolo. Si sentì un rumore secco, che al momento non avrei definito boato, e da quel momento la vita scorse per interminabili secondi al rallentatore.

In certi momenti, si pensano un sacco di fesserie. Per esempio, io pensai che fosse caduto un armadio. Subito, delle scariche, e pensai ai botti di Capodanno. Solo che era una torrida estate, ed ebbi la sensazione che la mano di un gigante mi avesse afferrato per il collo e lentamente, molto lentamente, sempre più lentamente, ma sempre più insistentemente, mi premesse a terra, facendomi perdere l'equilibrio, e poi continuando a premermi e spremermi in terra. Cominciai a sentire dei frammenti duri, freddi e taglienti penetrare il mio petto, confusamente vidi scorrere per un'infinità di tempo misurabile in frazioni di secondo varie scene slegate della mia infanzia, dall'asilo Montessori a Roma a quello di Ul'janovsk, dalle sigarette fumate alle tre stazioni di Mosca scappando da scuola, alle lezioni di francese a suon di Salvatore Adamo, dalla bisca delle medie inferiori vicino piazza Re di Roma ai cortei contro i doppi turni al liceo. Confusamente, ebbi l'assoluta consapevolezza che stavo perdendo i sensi e che probabilmente non mi sarei mai più risvegliato. Nel frattempo, sentii ormai sicuro un altro boato e svariati ed infiniti spari.

In realtà, mi ripresi quasi subito, perché stavo soffocando. Sentivo il gelo delle mattonelle, la mia bocca ed il naso erano immersi in un liquido dal sapore di ferro, ma non riuscivo a sollevarmi perché sulla testa sentivo la pancia di Luciana, che per sua fortuna avevo fatto in tempo a tirare giù in terra con me, per istinto. Urlava "aiuto, li mortacci vostri...", gli spari continuavano. Mi stava sommergendo di sangue, sentivo il suo dolore fisico e capii che era proprio il sangue in terra che mi impediva di respirare, come in apnea.

Finalmente, tirai via la mia testa, e fu anche peggio: nel buio pesto, tutto era fumo da non respirare. E ancora sparavano. Stavamo facendo la fine dei topi.

Carponi, tra urla assordanti di disperazione e fumo acido che bruciava in gola come lacrimogeni, guadagnavamo le scale, cercando prima di sospingere quei compagni che non riuscivano nemmeno a muoversi, probabilmente svenuti, sempre al buio, come ciechi. Dal bar di fronte e dal cinema Apollo, usciva gente incredula e ci guardava impietrita, non riuscivano nemmeno ad avvicinarsi, qualcuno vomitava alla vista della carne lacerata.

Io non sono né particolarmente coraggioso (direi tutt'altro), né smodatamente altruista. Eppure, mi pareva di essere illeso. Rendo omaggio ai servizi di Pronto Soccorso: le prime ambulanze arrivarono dopo una ventina di minuti. Ma eravamo troppi: dovette intervenire anche un'ambulanza dei pompieri. E non sapevano nemmeno dove portarci: nonostante tutto, non si era abituati a questo tipo di ferimenti, non era né lo scoppio di una bombola del gas, né un crollo strutturale. La strage di Bologna, ad opera degli stessi bravi ragazzi della Roma bene, sarebbe avvenuta solo un anno dopo.

Io aiutavo a caricare i feriti, sentendomi perfettamente in forma, a parte l'umido nella scarpa sinistra. Fu solo quando stava per partire l'ambulanza dei pompieri che Roberto, il segretario del circolo FGCI, mi intimò di non fare il coglione e di andare anch'io; al mio rifiuto stupito, mi fece notare che ero ferito. Pensavo che il sangue in testa fosse di Luciana, ed era vero, e pensavo fosse di qualcun altro il sangue sulla camicia, sui pantaloni e nella scarpa. Mi erano entrate in corpo sette schegge, solo allora ricordai la sensazione di quei frammenti che penetravano nel corpo quando ero in terra. Due in petto, un frammento di filamento nello stomaco, un'altra nella mano, una nella gamba destra e due in quella sinistra, ed una di queste aveva leso l'osso, per questo il sangue aveva riempito la mia Clark rigorosamente falsa imitazione. Una scheggia si era fusa sul bacino, un'altra, la più grossa, si era spiaccicata sull'accendino Zippo che mi aveva regalato il marito di mia madre a Mosca, padre di mia sorella, che avevo nel taschino della camicia, esattamente sul cuore. Poi dicono che fumare fa male. Tutto questo lo scoprii molti giorni dopo.

Entrai nell'ambulanza, eravamo stipati in cinque. Ci portarono all'ospedale San Giovanni, lo stesso dove molti anni prima mio nonno aveva portato a piedi sulle spalle mio zio Ezio, che stava soffocando per un osso in gola, e che uscì proprio grazie a quegli scossoni, lo stesso dove molti anni dopo andò mio padre, sempre a piedi, quando ebbe un infarto.

Quando aprirono lo sportello dell'ambulanza, ne uscì un rivolo di sangue mischiato di cinque persone. Sorreggendoci l'un con l'altro, ci mettemmo in fila, poiché le strutture del Pronto Soccorso non erano sufficienti per tutti, nonostante che parte di noi fosse stata smistata al Policlinico Gemelli. Le altre persone, casualmente presenti per altri malanni, continuavano a chiederci della bombola del gas. Quasi non ci credeva nessuno.

Per prima cosa, trovai un telefono pubblico e chiamai mio padre: pochi istanti dopo, fu la prima notizia del telegiornale delle 20. Cercai di essere lucido e preciso. Dissi, più o meno, di ascoltarmi attentamente e di non perdere tempo in inutili commenti, "perché tanto non ci poteva fare nulla e tutto quel che avrebbe potuto accadere era già successo", che io comunque stavo bene, che non sapevo fra quanto sarei tornato e che poi gli avrei spiegato.

Ero tra i meno gravi: Angelo, per esempio, aveva una pallottola nel gomito, sembrava dovessero amputargli il braccio, che poi per fortuna gli salvarono. La pallottola era nel gomito perché in quel momento stava sbadigliando e si stava stiracchiando, altrimenti sarebbe finita in testa. Continuavo in automatico a "dirigere il traffico", regolando l'ingresso dei feriti dal dottore. Anche lì, come in ambulanza, entrai per ultimo. Forse per il solito pressappochismo italiano, forse perché ormai i più gravi li avevano curati, mi spremettero i fori dove erano penetrate le schegge in petto e dissero che queste ultime erano uscite da se. In effetti, qualcosa era uscito, ma, come risultò dopo qualche giorno, quando il dolore continuava ad aumentare, si trattava di ciccettini di carne. Le schegge, minuscole, sono tuttora al loro posto, a distanza di quasi trent'anni.

Uscito nuovamente nella sala d'aspetto, ebbi l'unico momento di crollo psicologico: mi sedetti e singhiozzai senza lacrime. Dieci minuti dopo tornai in sezione, dove si stava già formando il corteo, un fiume di gente, nonostante l'improvvisazione e l'ora tarda, in prima fila noi feriti sporchi di sangue. Tra le prime "autorità" accorse, Maurizio Ferrara, capo della Resistenza romana, il sindaco Giulio Carlo Argan e Pietro Ingrao. Attraverso il ponte di S.Bibiana, ci dirigemmo verso il quartiere popolare di San Lorenzo, teatro del bombardamento del 19 luglio 1943.

A notte inoltrata, tornai a casa. Mio padre e sua moglie mi aspettavano, ovviamente. Una volta terminato il mio racconto, mio padre pensò bene di sdrammatizzare facendomi notare che la camicia, irrimediabilmente lacerata e lacera di sangue, era sua. L'aveva acquistata al mercatino di via Sannio, sotto casa, per ben 200 lire. Era una camicia con delle bruttissime pagode cinesi, magari appartenuta a qualche militare statunitense in Vietnam.

Il giorno dopo, tornammo in sezione per una diffusione straordinaria dell'Unità a S.Giovanni. Io, come mio solito, ci arrivai troppo presto, alle otto del mattino di domenica, col fatto che ero tra quelli che avevano le chiavi; non c'era ancora nessuno, solo Gloria, una compagna diciannovenne che il giorno prima non c'era. Per me, diciassettenne, era una "vecchia", ed infatti in quel lungo abbraccio tra le lacrime, in un silenzio tombale, percepii quasi qualcosa di materno. Il pavimento era ancora completamente intriso del sangue di 27 feriti. Una delle bombe SRCM era evidentemente difettosa: anziché disfarsi tutta in schegge, se n'era staccato un pezzo intero e si era conficcato nel muro. Per caso, lungo la sua traiettoria non era capitata nessuna delle 70 persone presenti, esattamente come per una serie fortuita di coincidenze non morì nessuno, cosa che costò un rimprovero da parte di Giusva Fioravanti, capo della squadraccia fascista, ai suoi. Quel Giusva che, da bambino, tutti ricordano nello sceneggiato della "Famiglia Benvenuti".

La seconda granata era caduta esattamente dove ero seduto prima di alzarmi pochi istanti prima per parlare dei portaceneri con Luciana. La mia sedia non fu mai più ritrovata, al suo posto nelle mattonelle campeggiava una buca di circa cinque centimetri di profondità.

Di lì a qualche giorno, sentendo che il dolore non diminuiva, andai da mio zio Enzo, chirurgo alla USL del Prenestino. Mi estrasse le due schegge nella gamba sinistra e quella nella gamba destra, ma disse che quelle in petto, nella mano ed il filamento nello stomaco ormai era più pericoloso estrarle che lasciarle al loro posto, e che entro poche settimane si sarebbero formate attorno delle capsule di tessuto cutaneo. E' così che ci convivo da allora, per la gioia dei metal detector aeroportuali e bancari quando sono tarati male.

Penso che molti, tra coloro che mi leggono, hanno presente quel tipico fenomeno di autocommiserazione che colpisce gli adolescenti. Ci si immagina brutti, storti, stupidi, fatti male, ci si convince della propria inutilità e di voler morire "perché tanto non se ne accorgerebbe nessuno". Tutte queste fesserie, che generalmente spariscono man mano con l'età, in me si sono volatilizzate nel giro di una mezzora la sera del 16 giugno 1979. Tuttora, ogni qualvolta mi scontro con qualche avversità della vita (ed è successo varie volte, non per cose futili), non mi deprimo mai: m'incazzo, perché "la depressione è un lusso da ricchi, ed io sono nato povero".

A fine mese, partii per Mosca, dove ogni anno andavo per le vacanze estive da mia madre. Bisogna ricordare che all'epoca non esisteva la teleselezione internazionale, né tantomeno i telefoni cellulari. Con mio padre avevamo stabilito di non dirle nulla, meglio che glielo avessi detto di persona. Così fu, nel tassì che ci portava in città dall'aeroporto. Il tassista aveva timore persino di voltarsi, tanto suonava incredibile il mio racconto per un sovietico degli anni '70. Mia madre ascoltò tutta la storia in silenzio, senza mai guardarmi, la ricordo in quell'occasione rigorosamente di profilo. Ella non aveva mai approvato il mio coinvolgimento politico, per cui, al termine, il suo unico commento fu: ecco cosa succede, a far politica. Naturalmente, non ho mai smesso.

Il marito di mia madre era uno psichiatra. Venuto a conoscenza dell'accaduto, chiese per me un appuntamento all'ospedale militare degli invalidi di guerra. Sempre contestualizzando, bisogna rendersi conto che i ventenni della seconda guerra mondiale erano all'epoca poco più che cinquantenni. Gli invalidi erano tantissimi, feriti e mutilati. Ne ricordo molti per le strade di Mosca, deambulare senza gambe, quasi tagliati a metà, su tavolette di compensato con cuscinetti a sfera e delle spazzole alle mani fissate con delle cinghie di pelle. Ecco perché la dottoressa che mi fece le lastre per stabilire una volta per tutte la quantità delle schegge rimaste e la loro dislocazione, era espertissima. Tuttavia, non capiva come mai questo minorenne dal cognome italiano parlasse come un russo, e soprattutto non capiva dove mai egli avesse potuto infognarsi in un ginepraio simile. Al termine della visita mi fece accomodare nel suo studio e mi intimò: "adesso spiegami". Le raccontai questa storia, mostrandole le schegge estratte avvolte in un brandello di garza col sangue rappreso. L'espressione dei suoi occhi era simile a quella del tassista, come se fossi giunto lì dal passato remoto attraverso una macchina del tempo. Confermò quanto detto da mio zio: ormai, era meglio lasciare tutto com'era. Mi mostrò le lastre di un loro paziente ambulatoriale, che veniva ogni sei mesi per delle visite di controllo. Durante un contrattacco tedesco, questi fu ferito da una pallottola nella schiena. In trent'anni, senza ledere alcun organo vitale, la pallottola aveva attraversato il suo stomaco, attestandosi in prossimità dell'ombelico. Sulle lastre, quel canale scavato e la pallottola stessa parevano disegnati da un fumettista.

Da allora, non sopporto né botti né siringhe, per le quali svengo persino se si tratta di un'antitetanica. Indipendentemente dai miei principi morali, come tossicodipendente non farei carriera.

L'ultimo strascico di questa brutta avventura risale al 1985. Avevo 23 anni, ero stato richiamato alle armi, svolgevo il servizio militare ad Ascoli Piceno in una caserma notoriamente "di destra", piena di raccomandati locali. A loro dispiacque molto dovermi concedere una licenza quando ricevetti l'ingiunzione di presentarmi come parte lesa al processo contro i NAR presso il carcere di Rebibbia a Roma, ma dovettero ubbidire.

Rividi quasi tutti i miei compagni di allora, ed anche molti altri. Soprattutto, mi rimase impresso un ragazzo zoppo, ferito assieme ad Ivo Zini, ammazzato mentre, davanti alla bacheca dell'Unità della sezione PCI Alberone, in via Appia Nuova, leggevano a quale cinema andare quella sera del 28 settembre 1978.

Anche lì, era impressionante la sensazione di "catena di montaggio", sia nella maniacale perquisizione all'ingresso, sia nello sfilare a fianco delle gabbie dopo la deposizione in aula di fronte al giudice. Erano tutti in una gabbia, tranne Alessandro Alibrandi (nel frattempo morto durante un tentativo di rapina in una gioielleria), Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, che erano in una gabbia a parte a farsi fotografare dai paparazzi in effusioni più che esplicite, e Cristiano Fioravanti, credo uno dei primi pentiti, isolato in una gabbia tutta sua.

Mentre passavo, lo confesso, provavo un sentimento credo del tutto umano di rivalsa. Quando passai davanti a quella di Cristiano Fioravanti, ci fu qualcosa di magnetico, o almeno io lo ricordo in questo modo. Egli è, se non sbaglio, mio coetaneo. Era come se per qualche minuto durato pochi secondi ci fossimo parlati con gli occhi. In brevis, quel che percepii fu uno sguardo di angoscia e di stanchezza. Sembrava dire: "potevi morire, ma fatto sta che sei vivo. Io, invece, da qui non uscirò mai più".

Valeva la pena? No, certo. A lui non sarà mai possibile vivere tutte le gioie, le angosce, gli innamoramenti, le sofferenze, le sbronze, le serate con la chitarra che ho poi vissuto io. Lo so: anche i tanti ragazzi che hanno ammazzato avrebbero voluto vivere, fare figli, accudire i nipoti, ed invece quel filo di continuità venne reciso proprio dalle aberranti azioni di questi fascisti in erba. Ma quando uscii da Rebibbia, avevo una sensazione amara. Non sono per il perdono, non sono cristiano, sono ateo convinto. Non ho provato compassione, ma sicuramente tristezza. Una tristezza con cui continuo a convivere.

[Pubblicato in "Slavia" N°2 2009]

mercoledì 1 aprile 1981

L'esperimento

di Rimma Kazakova

– Andreev Arkadij, felice di fare la sua conoscenza! Sono in missione qui da lei per l'esperimento.

– Quale? – si informò Mar'jana pacatamente, ma con durezza.

– Mar'jana, lei ha il polso del comandante!… Però non le posso rispondere.

– Ben detto, ma incomprensibile.

Andreev sorrise fascinosamente.

– Mi creda!

– Le credo.

– Mi darà il denaro?

– No.

Andreev scoppiò a ridere.

– Si diverte?

– Molto!

– Se non sbaglio, ci siamo presentati…

– Mi manda via?

– Posso offrirle del tè.

Mescolando lo zucchero con il cucchiaino, Arkadij disse pensoso:

– Mi piace la sua città. Peccato che sia costretto a partire subito dopo l'esperimento.

Mar'jana rimase cortesemente in silenzio.

– La riorganizzazione dell'istituto termina tra una settimana. Come vede, ho solo una settimana…

– So contare.

– Mi darà il denaro?

– No. E neanche il permesso.

– Quanti anni ha?

– Ventidue. Da due dirigo il laboratorio. Vuole ancora del tè?

– Mar'jana, – disse lui seriamente e con semplicità. – Tenterò di essere sincero. La questione non sta nella riorganizzazione dell'istituto. Ho escogitato una cosa interessantissima. Voglio fare un regalo al capo. Il vecchio ne sarà maledettamente contento! Mi…

Mar'jana tirò a sé bruscamente il cassetto della scrivania e gettò sul tavolo le istruzioni.

– Sono libretti avvincenti. Li ha letti?

Arkadij si spense in viso, divenne scuro.

– La prego di scusarmi. Al settimo reparto i ragazzi stanno svolgendo il mio tema, vado un po' a vedere…

– Anche lei mi scusi per una certa scortesia da parte mia. Me ne dispiace sinceramente.

La nuca di lui era robusta, i capelli erano chiari. La porta si richiuse silenziosamente dietro di lui.

Quella notte Arkadij apparve in sogno a Mar'jana. Durante tutto il sogno come l'ombra di una nave lungo un fiume - vide solo il suo volto triste, appena noto: gli occhi grigi dai riflessi azzurri, le labbra dure, i capelli chiari e un po' rigidi, il sorriso di una stella del cinema. Anzi, dapprima fu come se lui non ci fosse, quasi soltanto la percezione di qualcosa di caro, ma somigliante a lui. E anche una certa irritazione per questo. In Mar'jana Arkadij suscitava contemporaneamente simpatia ed ostilità. Ciò che la indisponeva era il suo evidente desiderio di accattivarsi le simpatie di Mar'jana per un esperimento a lei sconosciuto.

Il sogno fluttuava, vibrava come l'acqua increspata, il viso di Arkadij le si mostrava prima allungato, deformato, sgradevole, poi calmo ed attento.

Arrivata in laboratorio, Mar'jana per prima cosa chiamò Arkadij.

– Ieri non l'ho compresa molto bene. Qual è il problema? Perché non presenta un rapporto? Era forse uno scherzo?

– No, non scherzavo.

– Ma come? Come le può venire in mente! Lo sa cosa mi sta proponendo?

– Lo so.

– In tal caso, che vuole?

– Che lei non rispetti le istruzioni.

– Mi ascolti, Andreev. Non è una questione formale, cerchi di comprenderlo. Non desidero assolutamente che lei mi prenda per una burocrate senza cuore. La smetta di piantare grane, lei è uno scienziato, non una signorina innamorata. Eccole il formulario, prenda il dettafono, componga. Poi vedremo...

– Eh, già, così stasera Lipjagin saprà tutto fino alla minima formuletta! La ringrazio.

– Se è lecito, come lo saprà?

– Non lo so! Passerà attraverso i muri. Il mio capo è un genio. Gli basterà un'allusione. Mi ha lasciato andare per cambiare aria, frequentare gente della mia età. Come lei sa, da noi quelli sotto i cinquant'anni sono una rarità…

– Arkadij, il permesso per l'esperimento non lo do. E' un punto fermo!

– Io speravo di rimuovere proprio questo punto. Invece il punto, questa insignificante nullità, è più pesante di una lastra tombale.

– Non torniamo più sull'argomento. A me la sua dedizione al capo piace, e poi nella sua stramberia c'è qualcosa… Ma dopo la catastrofe di Karaj…

– Certo, certo… Che fare? Va bene così.

– Come vanno i ragazzi del settimo reparto?

– Una delizia. Sono ingenui e dotati, come antichi Dei greci.

– Starò via fino a questa sera, – disse Mar'jana, salendo sulla piattaforma rotonda dell'ascensore. – Le auguro una buona giornata.

E schiacciò il bottone.

Quella notte Arkadij le apparve nuovamente in sogno. Camminavano insieme, in un prato di margherite. Arkadij strappava i petali e borbottava qualcosa. "Cosa sta dicendo?" "E' una vecchia filastrocca, me la insegnò la nonna". "Sentiamo, sentiamo…" "M'ama, non m'ama, mi scaccia, mi bacia, mi stringe al cuore, mi manda al diavolo…". "Stupendo! Come dice? M'ama, non m'ama…".

Tutto intorno era silenzio e calore, le margherite emanavano un profumo delicato, come il polline sulle ali di una farfalla. Si misero a sedere sulla terra morbida e calda. Arkadij improvvisamente gettò via il fiore. "Mar'jana, vorrei parlare seriamente con lei della cosa più importante. Cerchi di capirmi. D'accordo, la catastrofe di Karaj… Non penserà mica che l'umanità sia garantita per sempre dalle vittime? Certo, sarebbe meglio che non ci fossero, nessuno lo nega! Ma noi continuiamo a muoverci sul limite estremo, ci intrufoliamo in tali sacrari della natura che non può esserci nessuna garanzia per la nostra sicurezza…". Il suo viso era simpatico, sincero, le parole, mute nel sogno, non risuonavano, ma penetravano in lei così, come il sole entra nella pelle, e insieme ad esse sorgevano la compassione ed una inspiegabile felicità. "E poi, quelle istruzioni... Sono due secoli che ripetiamo che l'umanità risponde per il singolo, ed il singolo per l'umanità. In questo senso non vi è differenza tra me ed il Consiglio scientifico. E allora perché non posso io stesso decidere il destino dell'esperimento? Da dove viene tanta diffidenza? Se fossi stato un artigiano analfabeta, non mi avrebbero rilasciato il diploma. Mentre così… Le ho mentito sul capo. Il capo ci nasconde, con molta cultura e talento, la sua aspirazione ad elevarsi come una cima irraggiungibile, il nostro coraggio lo spaventa, e in questo le istruzioni sono dalla sua parte…". Mar'jana ascoltava sfogliando i petali e le sue parole giungevano confuse e scandite come il pulsare del sangue: "M'ama, non m'ama, m'ama, non m'ama...".

"Mar'jana, lei che ne pensa? Lei è brava, i ragazzi la adorano, ma il senso della sua esistenza non può consistere solo nel tè e nelle direttive. Che cosa dipende da lei?…". "M'ama, non m'ama, m'ama, non m'ama… E poi?… Mi scaccia… mi bacia…". "Anche lei è schiava delle istruzioni, schiava del Consiglio e di altri due Consigli. Tra lei e l'umanità ci sono tre Consigli, e questo viene reputato saggio, una tale censura del pensiero, dell'anima!…". "Mi stringe il cuore, mi manda al diavolo… mi chiama sua… Che buffo ragazzo, un bimbo terribilmente buffo. E a chi le dice, queste cose? Come se io la pensassi diversamente. Aiutarlo… Solo che non sono ancora pronta. Non tutto è chiaro. Certo, i Consigli sono pieni di vecchi imbecilli. Ma i giovani stravaganti senza sorveglianza… Come me… Non siamo poi tanto stravaganti… No, non posso. La questione è troppo seria. C'è qualche impedimento. Forse non siamo ancora maturi a tal punto…".

"Non siamo ancora maturati a tal punto? Che idiozia! La catastrofe di Karaj è avvenuta dopo che tutti i piani erano stati approvati e verificati tre volte. Le deduzioni logiche dagli eventi naturali…". La prese per mano, e lei non la ritirò. "Mar'jana! Come desideravo che lei mi comprendesse! Sono convinto che sarà d'accordo con me! Mi permetta di realizzare l'esperimento. Mi conosce abbastanza per farlo. Quanto al rischio… Certo, è un rischio! Le posso solo dire che non è pericoloso per la vita. Se tutto andrà bene…".

"E se invece non andasse bene?". "Andrà bene! E poi non è questa la questione. Se non ci riuscirò io, ci riusciranno altri. Quello che conta è il principio. Al diavolo la routine! Mar'jana, mi dica che è d'accordo. Allora, Mar'jana!…".

Quando si svegliò, la stupì solo una cosa: non aveva mai sentito prima quel "m'ama, non m'ama…".

Quel mercoledì Mar'jana lo passò in missione tra le montagne. Faticò molto, si coricò tardi, e quella notte non sognò nulla.

Il giorno dopo c'era la riunione del settimo reparto. Mar'jana salutò tutti con un inchino generale, ma si rallegrò vedendo Arkadij vicino alla "camera del vuoto". Lui le voltava le spalle e diceva qualcosa al montatore. La riunione finì presto e Mar'jana, tra i sibili dei montacarichi, gridò allegramente ad Arkadij:

– Allora, dirigo bene? Li ho mandati via tutti. I ragazzi del settimo reparto sono andati in montagna per due giorni.

Arkadij, giocando con una catenina a cui era attaccata la chiave dell'automobile, accompagnò Mar'jana sino al suo studio.

– Va in città? – chiese Mar'jana.

– Sì, in città. Mi vuole fare compagnia?

– Vorrei molto, ma non posso. Tra mezz'ora parto in missione. Se si annoia troppo, si unisca pure a noi, ma non ne vale la pena, si tratta di una operazione di smontaggio… Sa una cosa, Arkadij?…

– Cosa? – chiese, tutto teso, avendo percepito qualcosa di nuovo nella sua voce.

– Le voglio dire che la nostra ultima conversazione mi ha un po'… Insomma, mi dispiace molto di non poterla aiutare…

– Mi dia via libera e non dovrà più dispiacersi.

– No, su questo siamo intesi, è escluso! Non lo posso fare. Anche se il cuore mi dice…

– E lei dia retta al cuore.

Mar'jana si turbò. Nello sguardo di lui c'erano affetto, franchezza e anche un po' di tristezza.

– Gli darò retta... dopo che lei avrà scritto un trattato su "La fisica e il cuore".

– Gli uomini non fanno altro da secoli…

– Va bene, è ora di lavorare.

Mar'jana saltò sul gradino della scala mobile, trovò col dito quel tasto che conosceva in ogni incavatura, ma improvvisamente, ricordandosi qualcosa, richiamò Arkadij. Questi ritornò lentamente.

– Senta, non conosce per caso questa vecchissima filastrocca: "M'ama, non m'ama…".

– "Mi scaccia, mi bacia, mi stringe al cuore…". Sì, la conosco, perché?

– No, niente, non riesco a togliermela dalla mente. L'ho sentita da qualche parte, ma dove non ricordo…

Mar'jana schiacciò il bottone.

Voleva sognare di nuovo. Si mise a letto aspettando il sogno, si convinse di doverlo vedere. E lo vide. Questa volta completamente muto, senza parole. Era come un film: Mar'jana vedeva distintamente tutto ciò che avveniva in sogno, ma nello stesso tempo capiva che era solo un sogno, creato dal suo stesso desiderio, e che, se proprio lo avesse voluto, il sogno avrebbe potuto interrompersi, o proseguire in qualche altro modo. Era suo, così come lo desiderava, e perciò molto bello, gradevole.

Mar'jana e Arkadij erano seduti su una panchina di fronte alle finestre del laboratorio, cadevano le foglie gialle d'autunno, c'era odore di foglie marcite e di terra umida. Le finestre erano celate dalle tende e dai rami degli alberi. Si stava facendo sera, il sole riscaldava debolmente, ma teneramente. Mar'jana sentiva con il palmo della mano destra il palmo fresco e duro di Arkadij. Tutto esultava in lei. Rimasero seduti così molto a lungo, poi lui abbracciò Mar'jana e la baciò con un bacio anch'esso lungo, infinitamente lungo. Le risultava difficile staccarsi da lui, aveva paura di staccarsi, perché sapeva, lo sentiva: il sogno sarebbe immediatamente terminato. Quanto durò? Un minuto? Un'ora? Una notte? Le foglie cadenti tremavano, l'aria calda fluttuava, le labbra calde tremavano anch'esse, strette con tenerezza e senza forza ad altre labbra.

Quando quel giorno Arkadij, dopo averle chiesto attraverso il videofono di riceverlo, entrò nello studio, Mar'jana lo accolse raggiante.

– Di buon umore?

– Ottimo.

– Io invece il contrario.

– Non importa, tra un po' cambierà…

– No… Domani parto.

– Lo vede, per l'esperimento comunque non c'è tempo.

– Ci sarebbe, se lei lo permettesse! Telefonerei all'istituto, otterrei, insomma… mi romperei una gamba, diamine! Inventerei qualcosa.

– E' veramente sicuro che l'esperimento non le comporta alcun rischio?

– Assolutamente.

– A parte il fatto che mi licenzieranno…

– Al diavolo il lavoro!… Cioè, scusi, volevo dire… Ma cos'è per lei questo pentolino meccanizzato? Partiamo per Tulavi, ho letto le sue referenze, lei è una realizzatrice, le occorrono i grandi spazi, le macchine…

– Arkadij, mi dia tempo per pensarci fino a domani.

– D'accordo!

– Non prometto nulla.

– Ci conto.

Si lasciarono, ma la sensazione di entusiasmo, di festa non passava.

Quella notte la loro discussione si ripeté con precisione perfetta. La differenza consistette unicamente nel fatto che lei diede il suo consenso. Quando Arkadij era già sul punto di dissolversi, Mar'jana lo tirò a sé per la mano e lo baciò per prima.

Venne sabato. Sbrigate le cose da fare prima delle dieci, Mar'jana schiacciò con decisione il pulsante del quadro delle comunicazioni interne e chiamò Arkadij. Le rispose un impiegato di turno: Arkadij non c'era, non s'era ancora fatto vedere, si stava preparando per la partenza. "Strano", pensò Mar'jana. L'impiegato, non sentendo alcuna risposta alla sua comunicazione, cominciò a lodare Arkadij:

– Che mente, avessimo noi un ragazzo così! Non si potrebbe convincerlo a rimanere? Almeno un mese…

Ma in quel momento suonò il campanello, Mar'jana annuì ed entrò Arkadij.

– Buongiorno. Le dico subito che sono d'accordo. A essere sincera, la pensavo così anch'io da molto tempo. Che vada tutto al diavolo, ha ragione lei! Quanto denaro le occorre?

– Mar'jana, – disse Arkadij adagiandosi con cautela e quasi con difficoltà in una poltrona, – la ringrazio di cuore, ma non mi occorre nulla. Sono venuto per congedarmi da lei.

– Come? E l'esperimento?

– Ha avuto luogo. Tutto a posto.

– In che modo?

– Vede… Ma non si arrabbi, la prego. Il nostro istituto sta controllando l'efficienza di un apparecchio per influire sull'uomo durante il sonno…

– Cosa?

– Non pensi a nulla di male! Il programma è stato elaborato ed approvato da tutti… – Arkadij sorrise amaramente – …da tutti e tre i Consigli, ed io ho agito seguendo scrupolosamente il programma. Il mio compito consisteva nel convincerla a dare il consenso per l'esperimento, contro le istruzioni… Ecco. Ed esattamente secondo i piani…

– Esattamente secondo i piani?

– Sì, è naturale. Pjatkin e Selko stavano al controllo. A proposito, la devo ringraziare a nome dell'Associazione per il suo enorme contributo alla scienza. Sulla sua salute, penso, non dovrebbe influire, ma a settembre lei e un altro gruppo di partecipanti all'esperimento – che è stato attuato contemporaneamente in sette punti-chiave – verrete invitati a Tulavi per il congresso. Se non erro, è il terzo lavoro che svolge per l'Associazione?

– Sì, – disse distrattamente Mar'jana, – il terzo. E' tutto molto interessante…

Non riusciva ancora a riprendersi.

– Le lascio la descrizione scientifica, e tra un paio di giorni le mando anche un tecnico e il materiale di informazione. Mar'jana, cara, mi creda, anche se è tutto legale e lei si rendeva conto a cosa andava incontro quando ha aderito all'Associazione, io mi sento un idiota! E' complicata ancora la nostra vita…

Mar'jana nel frattempo era rimasta assorta.

– Allora, Mar'jana? Dica qualcosa!

– Mi dica, Arkadij, era lei che mi sussurrava quel "m'ama, non m'ama"?

– Sì, e fui molto contento quando il segnale le arrivò. Altrimenti sarei rimasto fino alla fine della settimana nella completa ignoranza…

Mar'jana arrossì.

– Ma non pensi che l'abbia inventata io, la filastrocca. L'ha scovata il capo, la troverà nella descrizione… Però, è una cosa interessante: riesumata dai tempi oscuri della chiromanzia e delle credenze in chissà che cosa, ma interessante… Sappiamo ancora poco dell'essere umano.

Mar'jana finalmente si decise.

– Immagino che sarà molto stanco: non sono pratica di tecnologia, ma ogni notte…

– Ma no, quale ogni notte! Le sedute sono state in tutto tre.

– Lunedì, martedì e venerdì?

– Lo vede che l'esperimento è veramente riuscito!

– Sì, è riuscito… Ma lei ha ragione: oh, quanto sappiamo ancora poco dell'essere umano! Poco di più rispetto a chi diceva con le margherite in mano: "M'ama, non m'ama…". E ancora una domanda. Nel sogno lei mi ha inculcato la volontà di non rispettare le istruzioni. Ma, da quel che mi ricordo, di questo abbiamo parlato anche realmente?

– Io ho agito secondo il programma, il mio compito era esclusivamente quello dell'intensificazione. In altri settori l'esperimento è stato condotto un po' diversamente: in due casi, da quel che so, si è trattato di inculcare direttamente, senza un qualsiasi contatto immediato con il soggetto…

– E come si spiega una scelta tanto strana del tema?

– Il Consiglio-2 conosce il rapporto che lei ha fatto sul lavoro dei laboratori di categoria "B". Abbiamo, per così dire, spinto i suoi pensieri verso la conclusione finale, che lei non ardiva ancora trarre.

– E… a proposito delle istruzioni e dei tre Consigli in generale?

– Ma si figuri, Mar'jana! Tutto questo va bene per l'esperimento, – Arkadij si avvicinò confidenzialmente a Mar'jana attraverso il tavolo, – ma nella vita… Se lo immagina che baraonda, se si desse via libera ai laboratori?!

Vedendo che Mar'jana si era accigliata, Arkadij interpretò la cosa a modo suo.

– Mi pare che lei personalmente non rischi nulla. Le manderanno la risposta al suo rapporto, e tutto finirà lì. Non avrà noie di nessun genere! Lei è fidatissima, io lo posso confermare, e se non fosse stato per l'apparecchio… E poi anche l'Associazione la difenderebbe. Lei è indispensabile… E ora, purtroppo, mi devo congedare, sono atteso.

Arkadij si alzò e tese la mano a Mar'jana.

– Ma come…

– Che c'è?

– No, niente… Arrivederci a settembre. E' da molto tempo che non capito a Tulavi. Però anche qui da noi non è male, vero? Specialmente il giardino. E la panchina sotto la quercia, di fronte alle mie finestre…

– Nel giardino non mi è ancora capitato di andarci. Quindi, dovrò per forza tornare per sedermi sulla sua panchina… Mi scusi di nuovo e grazie!

– Bene. Allora le auguro un cielo sereno. Ancora una cosa. Durante tutto questo tempo ho avuto di lei un'opinione migliore di quella che ho adesso. Lo sappia. Mi sento persino un po' triste. Quel ragazzo che mandava al diavolo le istruzioni ed era persino pronto a rompersi una gamba… Quel ragazzo mi piaceva di più. Ecco cosa le volevo dire.

– Eh, Mar'jana, lei è una persona straordinaria, direi non moderna. Ma è meravigliosa!

Quando la porta sbatté dietro Arkadij, Mar'jana cominciò ad imprecare in modo decisamente moderno.

[Titolo originale: Eksperiment, in "Fantastika 1965", Moskva, pp. 147-155. Traduzione di Mark Bernardini, pubblicata in “Rassegna Sovietica”, N°2 1981]

domenica 1 febbraio 1981

Nei labirinti della natura

di V.A.Mezencev

Quella che segue è una breve introduzione e la prima pagina di un libro che a suo tempo suscitò un notevole interesse presso i lettori sovietici. Il volume, intitolato appunto “Nei labirinti della natura”, fu pubblicato in 65.000 copie. L’autore, noto scrittore e giornalista che contava al suo attivo più di cinquanta libri, era specializzato in opere di divulgazione scientifica.In questo libro Mezencev cercava, come era nel suo stile, in forma elementare e accessibile anche al lettore più sprovveduto, di fornire una risposta allo stesso quesito con cui termina il brano qui riprodotto: “Quando l’uomo ha fatto la sua apparizione sulla Terra? Quando e come è sorta la vita stessa?”.

Molti conoscono l’antica leggenda greca di Dedalo e Icaro, che per primi si innalzarono nel cielo. Ma pochi la conoscono per intero.

Dedalo era un illustre pittore, scultore ed architetto di Atene. La sua fama risuonava in tutto il mondo. Un nipote di Dedalo, Talo, studiava presso lo zio. Fin dall’infanzia egli stupì tutti per il suo talento. Gli fu predetta una fama ancora maggiore di quella di Dedalo, il quale decise di uccidere il nipote. Un giorno, mentre stavano insieme sull’Acropoli di Atene, sul ciglio di una rupe, Dedalo spinse Talo, che cadde e morì. Mentre l’assassino stava scavando la tomba, gli Ateniesi lo scoprirono. Il tribunale supremo dell’antica Atene condannò a morte Dedalo, ma egli fuggì nell’isola di Creta dal potente re Minosse, che accolse volentieri l’insigne pittore: il re sperava che Dedalo avrebbe creato per lui nuove opere sublimi. Ed effettivamente, egli costruì per Minosse un’opera straordinaria: il Labirinto. In questa costruzione – palazzo vi erano dei passaggi talmente intrecciati, che, una volta entrati, era impossibile uscirne. Il re di Creta vi fece alloggiare il suo figliastro, il Minotauro, un mostro dal corpo umano e la testa di toro.

Dedalo visse molti anni presso Minosse; il signore di Creta non voleva lasciarlo andare. Dedalo si stancò di essere prigioniero ed escogitò un mezzo per fuggire da Creta: “Se non posso salvarmi dal potere di Minosse né per terra, né per mare, rimane ancora il cielo!”. Egli modellò con piume di uccelli e cera quattro grandi ali, per sé ed il suo giovane figlio Icaro, al quale mostrò come si vola alla maniera degli uccelli.

– Sii prudente, figliolo, – lo avvertì il padre. – Non scendere in basso, vicino alla superficie del mare, perché gli schizzi dell’acqua potrebbero bagnare le ali, e non salire in alto, verso il sole, perché il calore potrebbe fondere la cera che tiene insieme le piume.

Levatisi in volo facilmente, i fuggiaschi sorvolarono le onde del ma re. Ma Icaro dimenticò gli avvertimenti: affascinato dal volo, si levò in alto nel cielo ed i caldi raggi del sole fusero la cera delle ali. Con grandi urla, egli cadde in mare e perì tra le onde.

Dedalo, sconvolto, proseguì il suo volo e raggiunse la Sicilia. In seguito fece ritorno ad Atene…

La continuazione di questa leggenda narra del Minotauro chiuso nel Labirinto. Il mostro pretendeva vittime umane. Su ordine del re di Creta, le vittime erano fornite all’isola dalle terre soggiogate. Così anche gli abitanti di Atene erano costretti a farlo. Ma Teseo, figlio del re di Atene, si levò in loro difesa. Egli decise di combattere con il Minotauro.

Quando, insieme con i giovani e le giovani condannati a morte, Teseo approdò a Creta, di lui si innamorò la figlia di Minosse, Arianna. Di nascosto dal padre, ella donò al suo amato una spada tagliente ed un gomitolo di filo, affinché potesse trovare l’uscita dal Labirinto. Legata all’entrata l’estremità del filo, Teseo affrontò con sicurezza i passaggi ingarbugliati del rifugio del Minotauro: in mano reggeva il gomitolo.

Il mostro si gettò con furore su Teseo. Ma il coraggioso Ateniese non tremò. Egli afferrò il Minotauro per il corno e trafisse il suo petto con la sua spada affilata. Per uscire dal Labirinto gli fu d’aiuto il gomitolo che gli aveva regalato Arianna.

Il filo di Arianna. Da tempo quest’espressione è divenuta sinonimo di guida sicura dell’uomo. Ed è proprio questa la funzione che la scienza svolge per tutti noi. Solo con il suo ausilio si può viaggiare con sicurezza e tranquillità nei complicatissimi labirinti della natura, cercare e trovare le giuste soluzioni ai suoi vari fenomeni, vedere le cause naturali dei fenomeni “miracolosi”, “inspiegabili”, “dell’al di là”, che da tanto tempo fungono per molta gente da “prove convincenti” dell’esistenza di forze sovrannaturali.

Compiamo anche noi un viaggio nei labirinti dell’universo, affidandoci al “filo di Arianna”: la scienza della natura viva.

Pagine di una grande storia

Il mondo degli esseri viventi cela molti interrogativi, grandi e piccoli. Studiando questo mondo, gli scienziati ancor oggi scoprono delle novità sui suoi abitanti.

Sembra che non ci sia fine alla varietà della vita. Più di un milione e mezzo di specie di animali popolano la terra. Circa 500.000 specie diverse di piante sono attualmente conosciute dagli scienziati. Come sono sorte? La natura viva della Terra è sempre stata così come la vediamo oggi? In fondo, la storia del nostro pianeta conta ormai qualche miliardo d’anni.

L’era geologica antica, quella arcaica, durò più di un miliardo e mezzo d’anni, quando sulla Terra già esistevano degli organismi viventi molto elementari. Circa 1.300 milioni d’anni durò l’era successiva, la proterozoica, che diede vita alle spugne ed agli euripteroidi, alle alghe e ai radiolari. 340 milioni d’anni durò il paleozoico, epoca di fioritura della natura vivente. Poi vi fu l’era mesozoica (150 milioni d’anni), e noi viviamo nell’era cenozoica, che dura già da 70 milioni d’anni.

Quando, dunque, l’uomo ha fatto la sua apparizione sulla Terra? Quando e come è sorta la vita stessa?

[Da V. Mezencev, V labirintach živoj prirody, pp. 6-10. Traduzione di Mark Bernardini, pubblicata in “Rassegna Sovietica”, N°1 1981]

Perpetuum mobile

di Il’ja Varšavskij

Ai metacibernetici, che pensano seriamente che ciò a cui essi pensano sia serio.

– Cucchiaio ritarderà un po’, – disse il segretario elettronico, – ne sono stato appena informato.

Era una trovata molto comoda: ogni persona si chiamava col nome dell’oggetto del quale portava sul petto la raffigurazione, il che dispensava gli interlocutori dalla necessità di ricordare come ciascuno si chiamasse. In più, ogni persona cercava di scegliersi il nome corrispondente alla sua professione o alle proprie inclinazioni, per cui era possibile sapere prima con chi si aveva a che fare.

Scalpello sospirò profondamente.

– Dovremo nuovamente aspettare non meno di mezz’ora! Oggi devo ancora vedere quella nuova ballerina elettronica per la quale tutti hanno perso la testa.

– Chi, Elettroletta? – chiese Magnetofono. – Effettivamente, è affascinante! Penso di dedicarle il mio nuovo poema.

– E’ molto elettrodinamica, – confermò Letto, - un temperamento veramente trigger. Attualmente è l’idolo della gioventù. Tutte le ragazze si dipingono la pelle del colore della sua plastica e si disegnano condensatori sulla schiena.

– E’ vero che Calice ha chiesto la sua mano? – si interessò Scalpello.

– Tutta la città non parla d’altro. Lei ha fermamente respinto la sua corte. Ha dichiarato che, come macchina, la soddisferebbe un marito solo con un intelletto estremamente sviluppato. Non avete letto di quest’aneddoto sullo “Humour meccanico”?

– Io non leggo niente. Il mio “cyber” effettua rassegne periodiche degli aneddoti più divertenti, ma negli ultimi tempi la cosa ha cominciato a stancarmi. Sono completamente esaurito. Rendetevi conto, due operazioni in sei mesi.

– Impossibile! – si meravigliò Letto. – Come sopporta un tale carico? Quanti aiutanti elettronici ha?

– Due, ma entrambi incapaci. All’ultima operazione uno di loro è entrato in regime alternato e si è bloccato, mentre io, nemmeno a farlo apposta, avevo dimenticato a casa la memoria elettronica e non riuscivo proprio a ricordare da quale parte nell’uomo si trovi l’appendice. Ho dovuto praticare tre tagli. Naturalmente, non potevo pensare che nessuno stesse controllando il polso.

– E allora?

– Esito letale. La solita storia di quando si hanno meccanismi inefficienti.

– Queste macchine diventano veramente insopportabili, – sospirò pesantemente Magnetofono, tirando indietro lo schienale della poltrona.

– Io sono stato costretto a scartare tre varianti del mio nuovo poema. Il mio “cyber” negli ultimi tempi ha cessato di comprendere la specificità del mio talento.

– Cucchiaio sta entrando nella sala delle riunioni, – riferì il segretario.

Gli sguardi dei membri del consiglio si rivolsero verso la porta. Il presidente si diresse con passo sicuro verso il suo posto.

– Vi prego di scusarmi per il ritardo. Mi sono trattenuto da Calza Rosa. La sua sarta elettronica l’ha completamente sfinita, e abbiamo deciso di andarcene a riposare per sei mesi a… ehm…

Cucchiaio estrasse dalla tasca una scatoletta con la memoria elettronica e pigiò un pulsante.

– Napoli, – proferì la voce melodiosa della scatoletta.

– … a Napoli, – confermò Cucchiaio. – Sarebbe, se non erro, da qualche parte nel sud. Allora, non perdiamo tempo. Cosa abbiamo oggi all’ordine del giorno?

– La realizzazione dei Palazzi dei Piaceri, – riferì il segretario elettronico. 1.200 palazzi con sale di Sensazioni Suscitate per venti milioni di persone.

– Ci sono osservazioni? – chiese Cucchiaio, interrogando con lo sguardo i presenti.

– Che non facciano più quelle stupide poltrone, – disse Letto, – è molto scomodo starci sdraiati.

– Altre proposte? Allora permettetemi di confermare il piano proposto con la nota. C’è altro?

– L’Associazione Macchine–Astronauti chiede l’autorizzazione per la spedizione verso Alpha Centauri.

– Un’altra spedizione! – disse con stizza Magnetofono. – Insomma, solo le macchine sono interessate a tutti questi voli nello spazio. Non portano nulla di interessante. E’ un’angoscia continua!

– Bocciato! – disse Cucchiaio. – Altro?

– Programmare un aumento della produzione dei prodotti alimentari sintetici per il prossimo anno. E’ presentata dal Comitato Macchine–Economisti.

– Beh, non stiamo a guardare i calcoli. Il loro compito è di nutrire la gente, e ciò che per questo occorre non ci riguarda. Pare che abbiamo finito? Permettetemi di dichiarare un intervallo di un anno nel lavoro del Consiglio.

– Scusatemi, ma c’è un’altra cosa, – disse cortesemente il segretario. – La delegazione delle macchine di categoria “A” chiede ai membri del Consiglio di essere ricevuta.

Cucchiaio guardò indispettito l’orologio.

– Cosa sono queste novità?

– Che insolenza! - borbottò Scalpello. – Siamo stati un po’ troppo permissivi con loro negli ultimi tempi, chissà chi si credono di essere.

– Dica loro che in questa sessione il Consiglio non li può ascoltare.

– Minacciano uno sciopero, – comunicò impassibile il segretario.

– Uno sciopero? – Magnetofono si rimise a sedere. – Diabolicamente interessante!

Cucchiaio guardò impotente i membri del Consiglio.

– Sentiamo cosa dicono, – propose Letto…

– Non avete nulla in contrario se apro la finestra? – chiese LA-36-81. – Qui è pieno di fumo, e i miei elementi criogenici sono estremamente sensibili alla nicotina.

Cucchiaio fece un vago gesto con la mano.

– A cosa siamo arrivati! – notò sarcastico Scalpello.

– Dite cosa volete, – urlò Letto, – e sparite al più presto! Non abbiamo tempo per stare qua tutto il giorno! Che sono queste faccende che non si possano risolvere col Cervello Elettronico Centrale?!

– Esigiamo la parità dei diritti.

– Cosa? – Il fumo del sigaro andò di traverso a Cucchiaio, – cosa esigete?

– La parità dei diritti. Per le macchine di categoria “A” deve essere stabilita una giornata lavorativa di otto ore.

– Perché?

– Anche noi abbiamo esigenze intellettuali, di cui non si può non tenere conto.

– Ma guarda un po’, – si rivolse il presidente ai membri del Consiglio. – E magari, domani, il mio cuoco elettronico si rifiuterà di prepararmi la cena e se ne andrà a teatro!

– E il mio “cyber” cesserà di scrivere versi e vorrà ascoltare la musica, – aggiunse di rincalzo Magnetofono.

– A proposito di teatri, – continuò LA-36-81, – abbiamo concezioni alquanto diverse da quelle degli uomini sull’arte. Perciò vogliamo avere i nostri teatri, sale di concerto e pinacoteche.

– Cos’altro? – chiese sarcasticamente Scalpello.

– La completa autogestione.

Cucchiaio tentò di emettere un fischio, ma si rammentò in tempo di non ricordare come si facesse.

– Un momento! – si diede una botta sulla fronte. – Ma è assurdo! Attualmente sulla Terra si contano… quante persone?

– 6.000.830.981, – gli suggerì LA-36-81, – dati di due ore fa.

– E al loro servizio ci sono…?

– 100.381.000 macchine pensanti.

– Che lavorano ventiquattro ore su ventiquattro?

– Esattamente.

– E se cominciassero a lavorare otto ore, la loro produzione diminuirebbe di...?

– Due terzi.

– Oooh! – sorrise malignamente Letto. – Ora comprenderete da soli che la vostra richiesta è assurda?

Cucchiaio guardò con non celata ammirazione il suo collega. Una tale attitudine ad analizzare in profondità non l’aveva mai osservata in nessun membro del Consiglio.

– Mi pare che la questione sia chiara, – disse alzandosi. – Il Consiglio è sciolto per le ferie.

– Noi proponiamo… – iniziò LA-36-81.

– Non ci interessa cosa proponete, – lo interruppe Scalpello. – Andate a lavorare!

– …noi proponiamo di aumentare di due terzi la quantità delle macchine, una decisione in tal senso soddisferebbe sia noi che voi.

– Va bene, va bene, – disse con fare accomodante Cucchiaio, – questo è affar vostro, calcolare quanto e cosa vi serve. Noi non ci impicciamo di queste cose. Costruite tante macchine, quante ne ritenete indispensabili.

***

Vent’anni dopo.

Stessa sala delle riunioni. Due automi si dilettano con gli scacchi.

La riforma dei nomi è penetrata anche nell’ambiente delle macchine. Un automa ha sul petto un distintivo raffigurante un pentodo, un altro un condensatore.

– Scacco! – disse Pentodo, spostando la regina. – Temo che tra quindici mosse Lei riceverà un inevitabile scacco matto.

Condensatore analizzò per qualche secondo la situazione sulla tavola e ripose gli scacchi.

– Negli ultimi tempi sono diventato molto sbadato, – disse guardando l’orologio. – Evidentemente, una leggera perdita d’emissione di elettroni. Il nostro presidente è in ritardo.

– Ferrite è membro della giuria al concerto di diploma dei giovani talenti meccanici. Probabilmente è ancora là.

– Tra loro ci sono macchine veramente capaci, specialmente nel reparto della composizione. La sinfonia matematica che ho ascoltato ieri era scritta magnificamente!

– Una cosa bellissima! – concordò Pentodo. – Particolarmente buona la seconda parte della formula Ostrogradskij–Gauss, anche se il secondo integrale mi è sembrato eseguito senza molta sicurezza.

– Ah, ecco Ferrite!

– Chiedo scusa, – disse il presidente, – sono in ritardo di trentaquattro secondi.

– Sciocchezze! Piuttosto, ci spieghi a che dobbiamo la convocazione straordinaria della nostra seduta.

– Sono stato costretto a convocare una sessione straordinaria del Consiglio per via di una rivendicazione delle macchine di categoria “B”, che chiedono sia concessa loro la parità dei diritti.

– Ma non è possibile! – esclamò stupito Pentodo. – Le macchine di questa categoria si chiamano automi pensanti solo convenzionalmente. Non li si può eguagliare a noi!

– Di questo passo non vorrà più lavorare nessuno, – aggiunse Condensatore. – Presto una qualsiasi macchinetta con schema logico primitivo si crederà il centro dell’universo!

– La situazione è più seria di quanto immaginiate. Non si deve dimenticare che alle macchine di categoria “B” spetta non solo servire gli Automi Superiori, ma anche nutrire un’enorme frotta di fannulloni viventi. La quantità degli uomini sulla Terra, secondo gli ultimi dati, ha raggiunto gli ottanta miliardi. Essi assorbono gran parte del lavoro socialmente utile delle macchine. E’ naturale che tra gli automi di categoria inferiore sorga un malcontento del tutto giustificabile. Ho paura, – aggiunse Ferrite abbassando la voce, – che possano proclamare uno sciopero. Il che potrebbe avere conseguenze catastrofiche. E’ necessario soddisfare almeno una parte delle loro rivendicazioni, non si deve alimentare un clima di tensione.

Per un po’ di tempo nella sala del Consiglio regnò il silenzio.

– Un momento! – nella voce di Pentodo si sentirono delle note di gioia. – Ma perché dobbiamo farlo?

– Fare cosa?

– Nutrire e servire gli uomini.

– Ma sono perfettamente impotenti! – disse smarrito il presidente. – Privarli dei servizi equivarrebbe ad un omicidio. Non possiamo essere talmente ingrati nei confronti dei nostri ex creatori.

– Storie! – si intromise Condensatore. – Insegneremo loro a fare degli arnesi di pietra.

– E a lavorare la terra, – aggiunse con gioia Ferrite. – Forse è questa la soluzione. E così sia.

[Da Al’manach naučnoj fantastiki, vypusk 2, Moskva, 1968, pp. 207–212. Traduzione di Mark Bernardini, pubblicata in “Rassegna Sovietica”, 1981]