sabato 12 maggio 2007

Riletture clericali

di Mark Bernardini

Il 22 febbraio 2007, il giornalista dell'Espresso Fabrizio Gatti aveva pubblicato un'intervista a Mario Ferrandi, dal titolo E' il '77 che si ripete.

Il giorno dopo, ho riportato la medesima intervista nel mio blog Brežnardini.

Ricevo oggi per posta elettronica il messaggio di un illustre sconosciuto, che, primo, si firma con un banale "gmf", secondo, scrive con un indirizzo di posta elettronica di pessima fantasia: amariscos pescados & mariscos.

Io detesto gli anonimi: troppo comodo. Io mi espongo in prima persona e pretendo altrettanto da chi desidera interloquire col sottoscritto. Io non accetto risposte private, ancorché anonime, ad argomenti nati pubblici.

Ma cosa contiene il messaggio incriminato? Nulla. O meglio: il nulla. Questo individuo non è nemmeno capace di produrre qualcosa di suo. Contiene un articolo del Giornale del fratello di Berlusconi, dal titolo Io, nata senza papà e cresciuta già morta.

Ed ecco il pezzo incriminato:

Antonia è rimasta nella sua foresta pietrificata fino a gennaio. «Poi mi ha telefonato Mario Calabresi, è venuto qui, abbiamo mangiato una pizza, mi ha parlato di papà, di via De Amicis. Mi ha dato un nome, un nome che io, chiusa nella campana di vetro, non avevo mai sentito: Mario Ferrandi detto Coniglio, l'uomo che uccise papà». Forse inconsapevolmente, perché i giornali avevano scritto che Custra era stato colpito da un proiettile calibro 6.35 e solo nel 1986 l'inchiesta bis, condotta da Guido Salvini, stabilì che il colpo mortale proveniva da una 7.65: quella di Ferrandi. «Le parole di Calabresi sono state una scarica elettrica. Ho cominciato a elaborare il lutto e insieme l'odio. Finalmente ho un nome da odiare: Mario Ferrandi. Vorrei incontrarlo e guardarlo negli occhi e dirgli che ha distrutto tre vite. Ora che ho dato un nome all'odio, devo potergli dare anche un volto. Chissà, forse così mi libererò un giorno di questi sentimenti avvelenati».

È il ventaglio delle libertà. Imprevedibili, come quelle di casa Calabresi. Luigi, nella pancia della mamma il 17 maggio 1972, spiega spesso ai fratelli il suo dolore: «La differenza è che papà non mi ha mai tenuto in braccio». Come Antonia. Gemma, invece, quando condannano gli assassini del marito comincia a piangere. Ma non per sé: «È per la figlia di Bompressi, oggi ha perso il padre».

Antonia Custra cerca di uscire da quel pozzo. Solo pochi passi: «Sono entrata nello studio, ho aperto la libreria, ho preso i diari di papà. Piano piano li leggerò». Intanto esprime un desiderio: «Letizia Moratti collochi una lapide nel punto in cui papà cadde. E lo ricordi col cognome giusto, non con quell'accento con cui è stato storpiato e oltraggiato dai giornali e dalle tv per trent'anni: Antonio Custra e non Antonino Custrà. Papà è morto per i milanesi, è ora che i milanesi si ricordino di lui e di noi che non siamo più stati una famiglia».

Ho detto che il vile – in quanto anonimo – gmf non ha prodotto nulla di suo. Non è esatto: ha scritto un'unica frase, a chiosa dell'articolo testé citato. Cosa dice?

Dopo aver letto il blog di Febbraio mi sembrava giusto condividere le parole di chi nel DNA non ha parole vuote, ma la traccia del papà ucciso, mai conosciuto, a cui non si rese giustizia.

Ora, per l'acido desossiribonucleico potrei limitarmi a rimandare l'anonimo giustiziere nicaragueño (capirete dopo perché) alla storia della mia famiglia. In brevis, un nonno confinato a fare la villeggiatura (sono parole del fratello del proprietario del Giornale del fratello di Berlusconi, giusto?), a cavallo tra gli anni '20 e '30 del secolo scorso, e torturato dalla Banda Koch nel 1943. Potrei anche ricordare che conoscevo personalmente Ivo Zini, ammazzato a Roma perché leggeva la lista dei cinema nella Bacheca dell'Unità accanto alla sezione PCI Alberone, in via Appia Nuova 361. E conoscevo anche Ciro Principessa, che ho rivisto l'ultima volta avvolto in un lenzuolo insanguinato e con un cartellino legato all'alluce all'obitorio di San Giovanni. Ma questa è lirica, atteniamoci ai fatti personali. Io stesso, mi porto ancora in corpo quattro delle otto schegge di granata SRCM che mi fu lanciata nei locali della sezione PCI Esquilino il 16 giugno 1979 da emeriti anonimi, che poi risultarono essere persone degnissime, quali Alessandro Alibrandi (morto successivamente in una sparatoria durante un suo tentativo di rapina in una gioielleria), Marco Di Vittorio, Giuseppe Valerio Fioravanti (quello della "Famiglia Benvenuti"), Cristiano Fioravanti e Francesca Mambro. Per pura coincidenza, nonostante due bombe a mano e sette colpi 7,65, non morì nessuno, rimanemmo feriti in 27, su una settantina che in quel momento eravamo a discutere in un'assemblea pubblica.

Torniamo però alla sostanza: perché questo messaggio e perché proprio ora? Intanto, per amor di verità e di informazione, ho consultato il diretto interessato, Mario Ferrandi, che mi scrive:

Qualche giorno fa trovo una mail di [...], che mi cerca e mi chiede di contattarlo. Becco la sua segretaria, lui è in giro, che mi dice che [...] è latore di una richiesta della figlia dell'agente per incontrarmi. Ovviamente, mi sono dichiatrato disponibile. Non ho nessun problema a farlo, peraltro ho sempre cortesemente spiegato al giudice istruttore che non posso essere io, per distanze balistiche, l'autore materiale dell'omicidio, ma è un dettaglio irrilevante perché la condanna è stata collettiva.

Ho definito pocanzi "anonimo giustiziere nicaragueño" l'autore della missiva in questione, delle 15:01 italiane del 12 maggio 2007. In effetti, curiosando nell'header, si scopre che scrive dall'IP 165.98.175.239. Esso appartiene alla Red Academica y de Información Nicaraguense.

Nel mio blog è ben visibile un contatore, assolutamente pubblico e gratuito. Da questi scopro che qualcuno, digitando "mario ferrandi" in Google, ha acceduto al mio blog alle 14:48 italiane sempre del 12 maggio 2007. Bravi, avete già capito: vi ha acceduto dall'IP 165.98.175.239, concretamente da Managua e con un computer su cui è montato un sistema operativo Windows XP in lingua italiana. Quanti saranno gli italiani residenti a Managua? 545, secondo il Ministero degli Esteri.

Scopro però altresì che alle 9:47 italiane sempre del 12 maggio 2007, qualcun altro ha digitato "mario ferrandi", ancora in Google, dall'IP 85.43.58.100. Si tratta, anche stavolta, di uno Stato straniero, ma, a differenza del Nicaragua, la loro massima autorità (non si fa chiamare né Presidente, pur essendo "democraticamente" eletto, né Re) usa spesso ingerirsi nella sovranità italiana, l'ultima volta giusto oggi per l'occasione della manifestazione del cosiddetto "Family Day" (va bene che l'italiano lì non è di casa dal 1978) a San Giovanni (in tal senso, vi segnalo un ottimo articolo di Vittorio Zucconi, sulla Repubblica di oggi, Lasciate che i fanciulli). Vi vedo perspicaci, bravi, avete indovinato anche questa volta: il Vaticano, per la precisione l'Amministrazione Patrimonio della Sede Apostolica.

Qual è il collegamento tra questi due accessi? Su Repubblica, il 23 febbraio 2007 (ma guarda un po' che coincidenza! La stessa data dell'intervista a Mario Ferrandi), è comparso un articolo di cronaca, Nulla osta per la beatificazione di Calabresi, il materiale all'esame di Tettamanzi.

Anni fa, in tutt'altro contesto, dissi che, alla terza coincidenza, è lecito dubitare che di coincidenza si tratti...

giovedì 10 maggio 2007

Il Paese delle puppe

di Mark Bernardini

Immaginiamo che io viva in un Paese immaginario. Questo Paese si chiama Puppa. Ci vivono 100 persone. O meglio: ci sono 100 elettori. Donne, vecchi, bambini, ex terroristi, non importa, tanto è chiaro dove io vada a parare.

Ci sono tre Partiti, perché vige il proporzionale, altrimenti col maggioritario ci sarebbero tre coalizioni di dieci Partiti ciascuna, ma questo sarebbe argomento di qualche altro mio scritto futuro. Siccome in Italia si adorano le metafore sessuali (a parte quelle calcistiche, ma anche questo sarebbe argomento di qualche altro mio scritto futuro), diciamo che i tre Partiti sono Puppe a Pera, Puppe a Pesca e Puppe a Mandolino. Gli amici delle Pere prendono il 25% dei voti, i fratelli delle Pesche il 35% e gli ex compagni dei Mandolini il 40%. Cambiate pure le definizioni e le percentuali, il risultato, purtroppo soprattutto etico, non cambia.

Ci sono a questo punto tre governi possibili, e non sto a spiegarvi quali, immagino che sarebbe un insulto alla vostra intelligenza, soprattutto aritmetica (per quanto...).

Lo Stato, qualsiasi Stato, fa pagare le tasse, altrimenti non si capisce chi paga i servizi in perdita per definizione, tipo sanità, istruzione, trasporti, informazione, ma indispensabili sempre per definizione, anche per i figli dei derelitti, mica solo per quelli di Berlusconi, sulla testa dei quali quest’ultimo ci ha invitati a giurare a proposito ed a sproposito, come ha fatto e fa tuttora lui stesso. Supponiamo che queste siano pari al 10% (magari!) del reddito procapite, e che il totale ammonti a cento milioni. Supponiamo, infine, che l’1%, un milione, vada a finanziare i Partiti, che, come diceva un villeggiante (parole di Berlusconi) delle patrie galere mussoliniane, tale Gramsci Antonio, la cui villeggiatura probabilmente non è stata esattamente gradevole, vista la morte prematura a 46 anni, sono “la democrazia che si organizza”.

Verrebbe da dire: cui prodest? Perché finanziarli? Perché altrimenti le Pesche prenderebbero il 100%, avendo il loro capo la proprietà delle case, dell’informazione, delle assicurazioni, dei divertimenti, dell’istruzione, delle case di tolleranza, dei trasporti, del cibo, degli alcolici, dell’acqua, dell’aria, dei bagni pubblici, della carta igienica e di quant’altro possa venirvi in mente.

Come distribuire il milione? No, il signor Bonaventura non potrà aiutarvi. La logica vorrebbe che 250.000 finiscano alle Pere, 350.000 alle Pesche e 400.000 ai Mandolini.

Però c’è un problema: in realtà, hanno votato solo 50 persone. Le altre 50 si sono astenute, hanno votato scheda bianca o hanno annullato il voto. Le proporzioni non cambiano, ma le Pesche reclamano: i Mandolini hanno rubato 200.000 e le Pere 125.000. Che poi, per la stessa logica, le Pesche abbiano intascato 150.000 di troppo, poco importa, l’informazione è in mano alle Pesche. Il punto non è questo.

Il punto è etico: chi decide? I Partiti. Altrimenti? Altrimenti i Partiti non sono coloro che i 100 elettori hanno delegato a gestire il patrimonio comune. Chi decide, in tal caso? Le Pesche. Perché? Perché hanno l’informazione.

Nel frattempo, dieci bambini, figli delle Pere, delle Pesche e dei Mandolini, restino asini (no, quelli delle Pesche vanno in Svizzera) e muoiano in ospedale (no, quelli delle Pesche vanno in Svizzera).

I Partiti rubano, dicono le Pesche. Ma sono un Partito anche loro.

Supponiamo che sia vero, nel senso che il fenomeno sia non solo generalizzato, ma che sia e basta. I 100 a questo punto hanno almeno un paio di alternative: o votano un altro Partito, oppure ne fondano un altro. Che so io, quello delle Puppe a Melone. Salvo poi scoprire che anche quest’ultimo è peggio delle Pesche. Oppure fondare quello della Tromba, che è proprio diverso e non ruba.

Insomma, frutti, verdure o clarinetti che siano, le colpe ed i meriti sono esclusivamente dei 100: ciascuno ha il governo che merita. Ma non accusiamo il sistema dei Partiti: se li chiamiamo Movimenti, Associazioni, Bocciofile o Sette, sempre Partiti restano. Fatti di uomini, che sono samaritani o delinquenti a seconda se siano tali i 100. Non sono marziani penetrati segretamente sul Terzo pianeta della stella Sole.

Le rivoluzioni, più o meno cruente, dall’omicidio di Giulio Cesare a quello di Cromwell, dalla Bastiglia all’Ottobre, da Tangentopoli alla Marcia su Roma, hanno sempre prodotto una reinvenzione della bicicletta e della ruota. Non solo non è molto intelligente, ma non è molto furbo nemmeno non rendersene conto.

mercoledì 2 maggio 2007

Estonia, il senso della misura

Tallinn, piazza Tonismagi, autunno 2006di Mark Bernardini

Il ministro degli esteri estone ha proposto all’UE di intraprendere delle sanzioni contro la Russia e di posticipare il vertice Russia-UE previsto per metà maggio, poiché, afferma, “attaccando l’Estonia, la Russia attacca l’Unione Europea”. Aggiunge, qui viene la dimostrazione che il senso della misura non è di casa da quelle parti, che “gli attacchi della Russia sono sia virtuali e psicologici, sia reali: abbiamo le prove che gli attacchi degli hackers vengono da computers russi, le cui tracce portano persino all’amministrazione del Cremlino”.

Via sproloquiando, la questione del soldato di bronzo e del vandalismo a Tallinn sarebbe una “questione interna dell’Estonia”, e gli appelli dei deputati russi a mandare a casa il governo estone sarebbero una “ingerenza in tali questioni interne”.

Sempre la Russia avrebbe organizzato i disordini di massa a Tallinn dopo la demolizione milite liberatore in piazza Tonismagi. In riferimento alla veglia permanente sotto all’ambasciata estone a Mosca, egli afferma che “sono pagati dal Cremlino da 550 a 1000 rubli a turno”. Ed ha infine minacciato di non far più rilasciare visti ai russi. Dicevamo, appunto, il senso della misura.

Il senso della misura, ovvero rilanciare al livello proporzionato. L’Unione Europea, con l’ingresso dei nuovi membri, si è assunta grosse gatte da pelare, che ne stanno compromettendo la credibilità come interlocutore super partes. Ecco dunque che la Russia ora solleva una questione generale, quella della diffusione a macchia d’olio del fenomeno dell’abbattimento dei monumenti ai militi sovietici morti combattendo contro il nazismo. E la solleva in una sede importante, per ora: l’Organizzazione delle Nazioni Unite.

Una questione di memoria storica. In particolare, “la Russia ha pagato un tributo di sangue incalcolabile per sconfiggere il nazifascismo, per questo non può e non rimarrà indifferente alla campagna inaugurata in vari Paesi di abbattere i monumenti ai soldati sovietici che hanno sacrificato la loro vita per la libertà non solo del loro popolo, ma di tutto il mondo, per liberarlo dal nazifascismo”. Il riferimento alla Polonia è piuttosto evidente.