venerdì 9 gennaio 2009

Scampoli di memoria 8

di Dino Bernardini

In una delle puntate precedenti di questi miei spezzoni di ricordi ho raccontato di come nel 1972 divenni vicedirettore esecutivo (di fatto, direttore responsabile) di Rassegna Sovietica (vedi Slavia, 2006, n. 3, pp. 141-144), che diressi poi fino al 1991, anno in cui – scomparsa l'Associazione Culturale Italia-URSS che ne era l'editore e dissolta l'Unione Sovietica – la rivista cessò di esistere. D'altra parte, venuto meno il paese di riferimento, appunto l'Unione Sovietica, una rivista che si chiamava Rassegna Sovietica non aveva più ragione di essere. Quantunque, a pensarci bene, è pur vero che uno dei quotidiani più diffusi nella Russia di oggi è la Komsomol'skaja pravda, già organo del Komsomol, l'"Unione comunista della gioventù", organizzazione che anch'essa non esiste più dal 1991. Ma andiamo avanti.

Nel 1973, o forse nel 1974, o 1975, in quanto vicedirettore di Rassegna Sovietica, venni invitato a partecipare a una riunione presso l'Associazione Italia-URSS insieme con Natale Raco, direttore dell'altra rivista dell'Associazione, Realtà Sovietica, e con Bizzoni, responsabile della diffusione delle due riviste. Premetto che Bizzoni, scomparso qualche anno fa, era un bravo compagno, intelligente e onesto, ma un po' bizzarro, forse in onore al suo cognome (successivamente, fu anche eletto al Consiglio della Provincia di Roma nella lista del PCI). All'ordine del giorno della riunione c'era appunto la diffusione delle due riviste.

Bizzoni presentò un piano che prevedeva l'invio in omaggio a ogni abbonato di un libro sovietico in lingua italiana, fornitoci gentilmente dalle case editrici in lingue estere di Mosca. Si trattava per lo più di buoni romanzi sovietici tradotti in italiano. La bizzarria del piano consisteva nel fatto che, se una persona si fosse abbonata separatamente a ciascuna delle due riviste, avrebbe ricevuto in omaggio due libri, uno per ogni abbonamento, mentre se avesse fatto un versamento cumulativo per le due riviste, pagando la somma dei due abbonamenti, avrebbe ricevuto un solo libro. Su questo argomento, prima che la riunione cominciasse, in attesa del senatore Gelasio Adamoli, segretario generale dell'Associazione, avevo cominciato a discutere animatamente con Bizzoni, che sosteneva essere la sua proposta più conveniente per l'abbonato.

Adamoli arrivò nel mezzo della discussione ed io mi affrettai a riassumergli la materia del contendere. Adamoli pensò che scherzassi o volessi mettere in cattiva luce Bizzoni, il quale però confermò quanto io avevo esposto. Bisognava vedere la faccia del senatore Adamoli nel momento in cui realizzò che non era uno scherzo, o una mia forzatura, e che le cose stavano esattamente come avevo detto io. – Senti – disse rivolto a Bizzoni – intanto decidiamo che chi paga i due abbonamenti riceve due libri. E passiamo a discutere delle altre iniziative in programma. Poi, alla fine della riunione, se tu non sei ancora convinto della decisione, vieni da me e ne parliamo con calma. Ti darò ogni possibilità e tutto il tempo per convincermi. Perché, vedete – e si rivolse a tutti i presenti – voi sapete che sono stato sindaco di Genova, ma che da tanti anni non lo sono più. E sapete anche di che fama godano i genovesi in fatto di denaro. Ebbene, Bizzoni, vorrei tanto che tu riuscissi a convincere me che per gli abbonati è più conveniente ricevere gratis un libro invece di due, perché se ci riesci, io poi vado a Genova e, se riesco a convincere anche i genovesi, quelli mi rieleggono sindaco.

Naturalmente, Adamoli non fu più rieletto sindaco di Genova.

***

Nell'estate del 1960 avevo terminato il quarto anno alla Facoltà di Filologia dell'Università Lomonosov di Mosca quando partimmo in quindici baldi giovani dalla capitale sovietica per la Cina. Eravamo tutti studenti italiani di varie facoltà, invitati dalle autorità cinesi per un soggiorno di vacanza e di studio della durata di un mese. All'interno della Cina viaggiammo con tutti gli onori e le comodità di una delegazione ufficiale, visitammo varie città, in ciascuna delle quali avemmo incontri con le autorità locali. Ma di quel soggiorno in Cina, di quel viaggio per me indimenticabile parlerò, spero, dettagliatamente in un'altra puntata, dopo che, mi auguro, avrò recuperato il mio diario di quel periodo, che sono sicuro di aver messo nella cantina di casa mia tempo fa. Adesso invece voglio raccontare del nostro viaggio sulla mitica Transiberiana, otto giorni di treno all'andata fino al confine cinese e altrettanti al ritorno fino a Mosca.

Intanto, qualche notizia sulle ferrovie sovietiche di allora (ignoro come si viaggi oggi sui treni della nuova Russia), sulle quali si viaggiava a buon mercato, con biglietti di due tipi: quelli per gli scompartimenti mjagkie, cioè "morbidi", con i sedili imbottiti, e quelli per gli scompartimenti žëstkie, cioè "duri", con i sedili di legno. Naturalmente noi studenti viaggiammo in scompartimenti žëstkie in territorio sovietico, con il biglietto pagato da noi, mentre in Cina viaggiammo "da signori" a spese del governo cinese. Adesso non ricordo se in ognuno dei nostri scompartimenti stessimo in quattro o in sei, più probabilmente in sei, con tre letti uno sopra l'altro a ogni lato.

Per otto giorni dovemmo rimettere avanti di un'ora i nostri orologi ogni giorno, perché i chilometri percorsi quotidianamente corrispondevano a un fuso orario. Quando attraversammo gli Urali, che pure segnano il confine tra l'Europa e l'Asia e sono segnati su tutte le carte, non ce ne accorgemmo, sebbene fosse di giorno. Evidentemente la ferrovia passava attraverso un varco enorme, perché non vedemmo montagne né a destra né a sinistra, sebbene fossimo stati attenti e vigili per "vedere gli Urali". Semplicemente, a un certo punto apprendemmo dagli altri viaggiatori che li avevamo passati.

La prima sorpresa circa il modo di viaggiare dei sovietici la avemmo già a Mosca pochi minuti prima di partire, quando la maggior parte dei viaggiatori indossò subito il pigiama – tutti a righe – e lo tenne per giorni durante tutto il viaggio fino all'arrivo. Per mangiare confesso che non ricordo nemmeno se ci fosse un vagone ristorante. Qui mi sarebbe di aiuto il mio diario, ma per ora mi devo affidare ai ricordi. Si vede che non era poi così importante per noi. Sicuramente, se non c'era il ristorante, ci sarà stato un qualche spaccio dove comprare ogni giorno da mangiare. O forse il ristorante c'era, ma noi non ce lo potevamo permettere, chissà. Ricordo comunque che a ognuna delle rare fermate nell'immensa Siberia i viaggiatori scendevano quasi tutti – rigorosamente in pigiama – a comprare qualcosa, sia cibo che oggetti di prima necessità, vestiario o souvenir, presso le bancarelle sempre presenti sui marciapiedi dei binari. Ricordo soprattutto una fermata durante il lungo aggiramento del lago Bajkal, che si stende per più di trentamila chilometri quadrati, un decimo dell'Italia. La ferrovia arriva dritta dritta fin quasi sulla riva, poi costeggia il lago fino ad arrivare alla riva opposta e riprende il cammino proseguendo in linea retta lungo la stessa direttrice precedentemente abbandonata. Durante il nostro viaggio, mentre costeggiavamo il lago, il treno si fermò ad un tratto. Non c'era nessuna stazione, né segno di vita. Improvvisamente da dietro gli alberi sbucarono delle contadine che, forse d'accordo con il macchinista, avevano aspettato il treno per vendere ai viaggiatori gli omul', i famosi pesci del Bajkal, sia cotti che essiccati. Ne comprammo anche noi ed erano squisiti.

Ogni giorno, per ammazzare il tempo, noi italiani in ogni scompartimento giocavamo a carte, interminabili partite di scopone, briscola o tressette. Un giorno nel nostro scompartimento si presentò un paio di ufficiali della Marina militare sovietica che erano diretti a Vladivostok.

Qualcuno aveva detto loro che sul treno c'erano degli italiani ed erano venuti per invitarci a bere nel loro scompartimento. Naturalmente pensammo che ci volessero offrire della vodka e accettammo di buon grado. Invece avevano una gran quantità di alcool puro e pane e guanciale, o pancetta di maiale. I nostri ospiti erano di una simpatia straordinaria, ma io cercai di rifiutare la bevuta. Tuttavia, chi ha frequentato i russi sa come sono fatti quando si tratta di bere: è praticamente impossibile convincerli che non tutti sono bevitori. Io all'epoca reggevo bene la vodka, che generalmente ha quaranta gradi, ma lì si trattava di alcool puro! Fu allora che uno dei nostri due nuovi amici mi istruì sulla preparazione necessaria per poter bere l'alcool puro e rimanere indenni.

– Vedi – mi disse – anch'io se adesso bevessi questo bicchiere – e mi mostrò un normale bicchiere da acqua pieno di alcool – alla maniera di come voi occidentali bevete il whisky, starei male. L'alcool mi brucerebbe la bocca, il mio stomaco non lo reggerebbe e la testa mi girerebbe. Invece guarda, mangia questo buon guanciale con il pane, mangiane più che puoi, tanto da creare nello stomaco uno strato di grasso. Anche questo grasso, da solo, se non ci bevessi sopra l'alcool, ti farebbe male. Invece i due mali si neutralizzano a vicenda. E un ultimo accorgimento: devi evitare che l'alcool stazioni nella bocca, perché te la brucerebbe. Guarda come si fa – prese il bicchiere e ne trangugiò il contenuto zalpom, come dicono i russi, d'un colpo. Poi riempì di nuovo il bicchiere – sarà stato un quinto di litro – e me lo porse, dopo avermi fatto mangiare tre fette di guanciale con il pane. Feci come aveva fatto lui, buttai l'alcool in gola, senza farlo fermare nella bocca. Devo confessare che, dopo, lo stomaco era a posto, la bocca anche, solo nella testa sentii una leggerissima, piacevole ebbrezza. E per ora, in attesa del mio diario, non mi viene in mente altro. Resta comunque da raccontare della Cina, ma lo farò, come ho detto, in una prossima puntata.

Slavia, rivista trimestrale di cultura

Dino Bernardini, "Slavia" N°2 2008

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