di Dino Bernardini
La liberazione di Roma
La mattina del 4 giugno 1944, dopo giorni che se ne parlava, si sparse la notizia che le truppe angloamericane erano finalmente arrivate alle porte di Roma. In realtà si trovavano non proprio «alle porte», che per i romani sono quelle delle mura aureliane e, in particolare per noi «san-giovannini», quelle di Porta San Giovanni. Tuttavia stavano ormai davvero a pochi chilometri dalla città, ferme in attesa di capire se i tedeschi si sarebbero ritirati senza combattere, o se invece avrebbero trasformato Roma, «città aperta», in un campo di battaglia. In questo secondo caso, ci si aspettava che il comando tedesco avrebbe proclamato lo stato d’assedio. Questo timore quella mattina indusse tutti i romani a uscire di casa, finché era possibile, a cercare di procurarsi qualche provvista in vista del peggio che poteva accadere.
Avevo dodici anni e scesi anch’io per strada a vedere, speravo, l’arrivo degli americani. Tutte le strade del nostro quartiere brulicavano di gente che si aggirava con l’aria inquieta. Da via Corfinio girai a sinistra per via Magnagrecia, la attraversai e la percorsi fino all’angolo con Piazzale Appio, dove voltai a destra per via Appia Nuova. Era da lì, si supponeva, che gli americani sarebbero arrivati. Notai subito che in via Appia Nuova, all’altezza delle prime due traverse, via Veio a destra e via Faenza a sinistra, i tedeschi avevano allestito una postazione di mitragliatrici con dei sacchetti di sabbia posti al centro della strada. Le mitragliatrici erano puntate verso sud. Tornai a casa e sul pianerottolo incontrai mia madre, indecisa se uscire o rimanere in casa. Il fatto è che nella nostra trattoria di Largo Brindisi avevamo lasciato il giorno prima un grosso borsone contenente il pane da vendere ai clienti in cambio dei bollini della tessera annonaria. Se fossimo stati costretti a rimanere chiusi in casa chissà per quanti giorni, sarebbe stato un peccato lasciar sprecare tutto quel pane. Ci consultammo e mia madre decise che dovevamo andare a prenderlo.
Da via Corfinio attraversammo subito via Magnagrecia e imboccammo via Veio in direzione di via Appia Nuova. Era il percorso più breve per arrivare a Largo Brindisi passando per le due traverse, via Veio e via Faenza, che sono l’una la continuazione dell’altra. Giunti però alla fine di via Veio, ci accorgemmo che per continuare in linea retta e proseguire quindi per via Faenza bisognava attraversare via Appia Nuova proprio all’altezza della postazione di mitragliatrici. Ci ponemmo subito il dilemma: era più prudente passare davanti alle mitragliatrici o dietro? Le facce di quei tedeschi non erano più quelle pulite, spensierate e sorridenti delle sentinelle tedesche che da mesi stavano in via Sannio a guardia della centrale telefonica e che ogni tanto davano un calcio al pallone con noi ragazzini. Quel giorno i tedeschi erano sporchi, brutti e cattivi, avevano una faccia feroce, la faccia di un esercito sconfitto, costretto forse a lasciare la capitale d’Italia senza combattere, oppure a battersi strada per strada in una città ostile, contro l’esercito angloamericano e anche contro la guerriglia dei partigiani. Passare davanti a loro e alle loro mitragliatrici puntate poteva essere considerato un atto di sfida, una provocazione, ma anche a passare alle loro spalle c’era un rischio. Potevano pensare che volessimo fare un attentato, che so, lanciare una bomba contro di loro.
Decidemmo di passare davanti, ma a passo lento. Quelle poche decine di metri ci sembrò che non finissero mai, il cuore ci batteva forte, la paura era tanta. I tedeschi ci guardavano con odio, come ormai guardavano con odio tutti gli italiani. Arrivammo in via Faenza senza problemi, la percorremmo e attraversammo Largo Brindisi. La trattoria era chiusa, ma entrammo dal retro, dalla parte del cortile, prendemmo il borsone del pane e ripercorremmo la stessa strada in senso inverso. Questa volta, nel passare di nuovo davanti a quelle facce minacciose, avevamo un motivo ulteriore di paura: con quel borsone potevamo essere scambiati per «borsari neri» – così si chiamavano allora a Roma coloro che si dedicavano alla «borsa nera», il mercato nero illegale – e magari essere fucilati sul posto. Invece non ci successe niente.
Dopo qualche ora i tedeschi raccolsero le loro mitragliatrici, salirono sui camion e partirono in direzione nord. Noi intanto eravamo rientrati in casa.
Nel primo pomeriggio, subito dopo pranzo, ero di nuovo in strada, sul Piazzale Appio. Improvvisamente da via Appia Nuova sbucò un carro armato e si fermò al centro del piazzale, davanti a Porta San Giovanni e in vista della basilica. Dalla torretta del carro spuntò un uomo che prese a fare cenni alla gente presente affinché qualcuno si avvicinasse. Sul piazzale c’erano decine di persone, ma tutti stavano prudentemente a distanza di sicurezza. Io stavo tra loro e sentivo qualcuno chiedersi e chiedere: «Ma quel carro armato, sarà americano o tedesco? E se facessero finta di essere americani e invece sono tedeschi?». Poi a poco a poco qualcuno cominciò ad avvicinarsi, ma emerse subito il problema della lingua perché nessuno parlava né tedesco né inglese. Allora un tale disse: «Ma io conosco uno che è stato emigrato in America, abita qui in via Magnagrecia, adesso lo vado a chiamare».
Tutti si misero ad attendere l’ex emigrato, ma intanto, con il linguaggio dei cenni, si cercò di far capire al carrista che bisognava aspettare. Finalmente l’ex emigrato arrivò, ma si vedeva che aveva una gran paura anche lui. Lo costrinsero ad avvicinarsi al carro armato e a parlare con il carrista. Dopo un breve scambio di battute si rivolse agli altri italiani presenti e disse: «E’ americano». Roma era libera. Andai a cercare mio padre che da qualche mese, dopo le torture dei fascisti della banda Koch, era al sicuro dentro il perimetro della basilica San Giovanni, che godeva dell’extraterritorialità. Come fosse finito lì, l’ho già raccontato in un’altra puntata di questi Scampoli di memoria. Tuttavia mio padre non c’era più, era già uscito, finalmente libero. Nei giorni successivi, per settimane, le colonne della V armata americana e della VII armata inglese (se non ricordo male) percorsero la via Appia, che nell’ultimo tratto urbano fino a Porta San Giovanni si chiama appunto Appia Nuova, tra due fitte ali di folla festante. Particolarmente festeggiati erano gli americani, che lanciavano alla folla tavolette di cioccolata, pacchetti di sigarette, carne e fagioli in scatola, gomme americane, di cui sembrava avessero una scorta infinita. Naturalmente, anch’io ero tra quella folla festante e portavo a casa ogni giorno qualche scatoletta (le gomme americane le tenevo per me).
Questi miei ricordi di quella giornata divergono però da quelli di Giulio Andreotti relativamente alla data dell’arrivo degli americani. Andreotti ha raccontato recentemente che il generale americano Clark il 5 giugno, alle 8 del mattino, «con una colonna di jeep cercava il Campidoglio e finì a San Pietro». Questo episodio sarà sicuramente vero, perché è noto che il senatore a vita Giulio Andreotti ha un’ottima memoria. Il fatto poi che all’epoca lui avesse 25 anni, mentre io ne avevo soltanto 12, ha contribuito a far sorgere in me più di un dubbio. Tuttavia quell’episodio potrebbe essere non in contrasto con i miei ricordi. Infatti il generale Clark potrebbe essere entrato a Roma la mattina del 5 giugno e il carro armato dei miei ricordi il 4 giugno. Certo, la data non è poi così importante, ma resto convinto che i tedeschi lasciarono Roma il 4 giugno 1944, anche perché questa data mi pare di averla vista anche in qualche pubblicazione. Comunque sia, la visione di quel carro armato al centro di Piazzale Appio, davanti a Porta San Giovanni, è ancora nitida nella mia mente.
* * *
Dopo una settimana, andammo tutti e cinque, l’intera nostra famiglia finalmente riunita, a Genzano per vedere in che condizioni si trovasse la nostra piccola vigna. Era meno di un ettaro, frutto dell’«invasione» delle terre incolte negli anni Venti del secolo scorso, che successivamente il governo fascista aveva lasciato in proprietà agli «invasori» a patto che le riscattassero pagando una certa somma. A Genzano, che dista 33 chilo-metri da Roma, arrivammo non ricordo più se con il tram della Stefer o con un pullman, ma poi da Genzano ci avviammo a piedi per raggiungere la vigna. Si trattava di percorrere sette o otto chilometri in un territorio devastato dai carri armati americani e tedeschi che lì si erano dati batta-glia. I confini di tutte le piccole vigne erano stati cancellati dai carri armati, la strada era piena di crateri provocati dalle bombe, ai lati c’erano montagne di armi e munizioni abbandonate. Ricordo che in quel periodo i vignaioli di Genzano giravano per le campagne a raccogliere i nastri di cotone delle mitragliatrici: i proiettili li buttavano, ma i nastri si riusciva a trasformarli in gomitoli di filo robusto con cui si facevano calzini e cal-zettoni. A metà strada, sotto il cavalcavia crollato della ferrovia Roma-Napoli, c’era un carro armato tedesco semidistrutto, che dovemmo aggirare. A un certo punto vidi davanti a me un elmetto tedesco in mezzo alla strada. Fu quello uno degli episodi più orrendi della mia vita. Infatti avvicinai il piede destro e, come se fosse un pallone, lo colpii di piatto. L’elmetto rotolò e scoprimmo tutti con orrore che dentro all’elmetto c’era la testa di un uomo.
* * *
Nei giorni successivi ci fu, lungo quella strada, un altro episodio che ricorda la storia del film La Ciociara, ma che colpì la famiglia di una cugina di mia madre. Anche loro erano andati a controllare lo stato di un terreno e stavano tornando a Genzano, naturalmente a piedi. Erano in quattro, i due genitori, una figlia di quindici anni e un figlio di otto o nove anni. A pochi chilometri dal paese si accorsero di essere seguiti da una decina di militari marocchini dell’esercito francese. I marocchini procedevano a passo svelto e li avrebbero sicuramente raggiunti prima di arrivare al paese. Allora la famiglia allungò il passo, ma i marocchini si misero a correre. A quel punto anche la famiglia cominciò a correre. Genzano era ormai vicina e i marocchini capirono che non sarebbero riusciti a raggiungere in tempo le loro prede. Sapevano tutti nella zona, e forse anche i marocchini sapevano, che Genzano la «rossa», la «Stalingrado dei Castelli romani», era stata un centro della Resistenza e che in quei giorni i partigiani erano ancora tutti armati. Così, i marocchini spararono, forse per far fermare i fuggiaschi, o forse per la rabbia di dover rinunciare alle due donne. Fatto sta che uccisero i due genitori e il ragazzo. L’unica che si salvò, perché era la più veloce, la più lontana dagli inseguitori, fu proprio la preda più ambita, la ragazza.
E con questo brutto episodio termina anche questa puntata di ricordi.
NOTE
* Le puntate precedenti sono state pubblicate in Slavia, 2005, n.3; 2006, nn. 2, 3 e 4; 2007, nn. 1 e 3; 2008,nn.1 e 2.
Dino Bernardini, "Slavia" N°4 2008
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