di Dino Bernardini
Nel 1960 ero all’ultimo anno del corso di laurea in lingua e letteratura russa all’Università Lomonosov di Mosca quando Ettore Lo Gatto, il decano degli slavisti italiani, venne nella capitale sovietica invitato dalla nostra facoltà di lettere, la Filologičeskij fakul’tet. Di lui avevo letto la Storia della letteratura russa e i saggi su Puškin, ma non lo conoscevo di persona. L’occasione che mi si presentò per conoscerlo fu ghiotta. Ero allora in ottimi, affettuosi rapporti con Sergej Michajlovič Bondi, puškinista di fama internazionale e relatore della mia tesi di laurea, il quale mi pregò di andare a prelevare il professore italiano in albergo e accompagnarlo in Čistye prudy, dove Bondi viveva. Fu un incontro indimenticabile. Nonostante i suoi titoli accademici e il suo prestigio, l’anziano professor Bondi viveva in una kommunal’naja kvartira, cioè in un appartamento in coabitazione. La famiglia Bondi occupava due stanze, le altre due o tre stanze dell’appartamento erano occupate da altre famiglie. L’unico bagno (separato dalla toletta, come in tutte le case russe), il corridoio e la cucina erano in comune. Nonostante che all’epoca questa fosse la condizione in cui viveva la maggior parte dei moscoviti, Bondi non poté ugualmente non provare un certo disagio di fronte al suo collega occidentale, sicuramente più agiato di lui. Ma riuscì a nasconderlo abbastanza bene, aiutato in questo da Lo Gatto, che si comportò con grande semplicità, come se quella fosse una situazione normale anche per lui.
Si cominciò a parlare della conoscenza di Puškin all’estero e in particolare in Italia, delle traduzioni italiane dell’Evgenij Onegin, che era l’argomento della mia tesi di laurea. A un certo punto notai che troppo spesso i due anziani professori avevano qualche difficoltà a capirsi, costringendosi reciprocamente a ripetere le frasi. Parlavano in russo, ovviamente, e Lo Gatto parlava un buon russo: qual era dunque il problema? Allora mi ricordai che Bondi, notoriamente, ci sentiva poco da un orecchio. Adesso non ricordo bene se il destro o il sinistro, è trascorso quasi mezzo secolo, ma mi pare che fosse il destro. Così chiesi discretamente a Lo Gatto se per caso anche lui avesse difficoltà di udito. Mi confidò che ci sentiva poco da un orecchio. Anche per lui non so dire quale fosse, ma di certo era il contrario di quello di Bondi. Erano seduti in poltrona, i due puškinisti, l’uno accanto all’altro, ciascuno con l’orecchio difettoso rivolto al proprio interlocutore. Mi alzai in piedi e feci loro invertire le posizioni. Da quel momento la conversazione proseguì senza intoppi con reciproca soddisfazione.
Dopo quell’incontro, Lo Gatto volle che lo accompagnassi ad altre visite e a un paio di spettacoli teatrali, durante i quali mi chiedeva sottovoce di chiarire il significato di qualche battuta in slang dei giovani moscoviti. Quando partì mi diede il suo telefono e mi disse di farmi vivo con lui appena fossi tornato a Roma. Mi promise che mi avrebbe aiutato nella carriera universitaria.
* * *
Nel gennaio del 1961 potei finalmente partire per Roma dopo cinque anni durante i quali non mi era stato permesso di tornare a casa neppure in occasione della morte di mio padre. Ma questo fa parte di un’altra storia, che racconterò in un altro "Scampolo". Torniamo invece alla carriera universitaria. La situazione in quel momento all’università di Roma, per ciò che riguardava la cattedra di letteratura russa, era in una fase di transizione. Ettore Lo Gatto stava andando in pensione e al suo posto subentrava Angelo Maria Ripellino. La presentazione che l’anziano professore doveva aver fatto di me al suo già prestigioso allievo doveva essere stata più che benevola, giacché Ripellino mi accolse come meglio non sarebbe stato possibile. Mi disse che dal 1 ottobre avrei lavorato in facoltà come suo assistente e che nel frattempo sarebbe stato bene che cominciassi a frequentare le sue lezioni. Chi ha avuto la fortuna di essere allievo di Angelo Maria Ripellino sa che cosa significasse non tanto assistere alle sue lezioni – che pure suscitavano un interesse generale – quanto partecipare ai “dopolezione”. Ripellino incantava, affascinava l’uditorio, al quale trasmetteva la sua passione per la letteratura e in particolare per la poesia. Ogni tanto, durante questi “dopolezione”, si rivolgeva a me chiedendomi di esprimere un mio giudizio su questo o quel poeta russo contemporaneo. Forse Lo Gatto aveva esagerato nel parlargli bene di me, ma è più probabile che Ripellino volesse conoscere meglio il mio livello di preparazione.
In quei giorni cercavo anche di fare qualche collaborazione con le riviste italiane. Tradussi la poesia Io sono Goya di Voznesenskij che venne pubblicata sull’Europa Letteraria (in anni più recenti l’ho ripubblicata più volte, ogni volta limandola e modificandola, senza rimanerne mai completamente soddisfatto). Ma ciò che mi occupava e preoccupava maggiormente era allora il ritardo del visto sovietico di uscita dall’URSS per mia moglie Ženja, cittadina sovietica, che avevo sposato quando eravamo ancora tutti e due studenti. Così andavo almeno una volta alla settimana alla Direzione del PCI per chiedere aiuto. Una volta venni ricevuto cordialmente da Mario Alicata, responsabile della sezione culturale, che aveva fama di uomo burbero, ma che con me fu gentile e mi scrisse un paio di lettere di raccomandazione. Ma i giorni passavano e il visto non arrivava. Finché un giorno alla sezione Esteri di Botteghe Oscure mi fecero questa proposta: abbiamo bisogno di mandare qualcuno a Praga a lavorare presso la redazione italiana di Problemi della pace e del socialismo, la rivista del movimento comunista internazionale. Ci vuole qualcuno che conosca bene il russo e tu sei la persona adatta. Se accetti, puoi partire subito, vedrai che i sovietici non faranno storie per far venire tua moglie a Praga. Era estate, Ripellino era in vacanza e non potevo consultarmi con lui. Dovevo prendere una decisione rapida e, come dire?, l’amore prevalse sull’università. Qualche mese dopo, Ripellino venne a Praga, ospite dell’Università Carlo, e lo invitai a cena in un ristorante per scusarmi. Ma ormai la mia vita aveva preso un’altra strada.
Dino Bernardini, "Slavia" N°1 2008
Nessun commento:
Posta un commento