Per ragioni familiari, avevo bisogno di produrre una serie di certificazioni, tra cui l’”estratto per riassunto dagli atti di matrimonio”. Tale estratto, per noi italiani residenti all’estero, iscritti all’AIRE, non può essere richiesto dall’autorità consolare, deve farlo il diretto interessato rivolgendosi al Comune della sua ultima residenza in Italia.
Ho quindi chiamato il Comune di Milano, che mi ha rimpallato da un interno all’altro per oltre mezzora (non sto scherzando), in chiamata internazionale: “se desidera...”, “digitare...”, e giù musichette sintetizzate. Il Paese dei call center. Poi è stata la volta del rimpiattino tra i vari uffici: al sesto funzionario a cui ho spiegato daccapo cosa desiderassi, abbiamo scoperto assieme che era il... primo. Il cerchio s’è chiuso.
Insomma, a quel punto vengo affidato finalmente alla persona giusta. Essa mi spiega, ed io rimango sinceramente e piacevolmente sorpreso, che, se lo desidero, essi possono mandarmi l’estratto al mio indirizzo estero per posta prioritaria in dieci giorni lavorativi. L’unico limite, mi dicono, è che bisogna pagare per forza con una carta di credito.
Figuriamoci, non chiedo di meglio. Detto le coordinate della carta e sento l’addetta digitare in tempo reale quanto le comunico. Alcuni secondi... Operazione non andata a buon fine. Un euro e sessantasei, non so se mi spiego. “Mi scusi”, fa lei, “ma di che carta si tratta?”. E’ una VISA, rispondo. “Sì, ma su quale banca italiana è appoggiata?”. Fermi tutti. Ma se ho appena spiegato che sono un italiano residente all’estero! “Mi spiace, signore, accettiamo solo carte emesse da istituti bancari italiani o, al limite, europei”. Lasciamo stare Mosca, ma quanti emigranti italiani ci sono, che so io, in Sud America? Cos’è, hanno tutti un conto in Italia? O forse a Milano sono più abituati a fuoriusciti residenti a Montecarlo o nel Liechtenstein?
E così, per un euro e sessantasei (che poi, ritirato direttamente allo sportello, è sceso addirittura a ventisei centesimi), dovevo venire a Milano a mie spese. Una soluzione, pur se massacrante, era quella di partire all’alba e tornare a notte inoltrata, ovvero dalle cinque del mattino alle due di notte. Ma la tariffa aerea ammontava a poco meno di mille euro. Viceversa, essendo il mercoledì l’unico giorno in cui il Comune di Milano lavora anche dopo pranzo, comprendere un sabato o domenica nel mio viaggio e spendere quindi “appena” trecento euro poneva il problema dell’alloggio, ad evitare di far lievitare le spese e raggiungere il migliaio menzionato pocanzi. La soluzione è stata andare a Roma, dove c’è casa di mio padre, e fare otto ore di treno in giornata, tra andata e ritorno, il mercoledì. Una soluzione onorevole: diciamo pure che un certificato da ventisei centesimi mi è costato cinquecento euro, che importa.
Ogni mio viaggio in Italia mi fornisce dei nuovi aneddoti da raccontarvi. Andiamo in ordine cronologico. Aeroflot ed Alitalia fanno parte entrambi dello Sky Team, e gestiscono inoltre una serie di voli condivisi. Ciò nonostante, a Malpensa, il chiacchierato ultimamente hub del nord, mette in una specie di riserva indiana, o di ghetto, tutti i voli delle compagnie che considera quasi di “selvaggi”. Infatti, gli imbarchi 19, 20, 21 e 22 si trovano in fondo a tutto, ci sono quattro (quattro di numero) seggioline, non ci sono negozi, non ci sono bar, non ci sono bagni. Provate ad indovinare le destinazioni? Mosca, Tirana, Bucarest, Varsavia.
Analogamente, a Fiumicino si atterra nel punto più distante e si viene portati con l’autobus per circa mezzora, fino a raggiungere la navetta ferroviaria, che poi porta al controllo passaporti ed al ritiro dei bagagli. Ecco perché ero rimasto contento nel vedere che stavolta ci hanno trattati come dei “bianchi”, ovvero ci avevano attaccato la “giraffa” (quella specie di fisarmonica, un corridoio mobile di collegamento tra l’aeromobile e la palazzina aeroportuale).
Ero tra i primi a scendere, quando arrivai alla fine della giraffa anche gli ultimi passeggeri ormai erano entrati nel budello. Solo a quel punto ci siamo resi conto che la porta tra il budello e l’aeroporto... era ben chiusa, senza nessuno dall’altra parte che ci potesse notare. Mi sono voltato nel vedere sopraggiungere gli altri circa cento passeggeri... Avete presenti le ultime scene di Animal House, la banda degli ottoni che, fila dopo fila, si sfracella addosso al muro in un vicolo cieco? Per fortuna, c’era una cornetta per le emergenze. Alle nostre rimostranze, una voce annoiata e molto seccata ci ha comunicato che avrebbero provveduto. Cosa che hanno “puntualmente” fatto dopo appena un quarto d’ora (noi sempre nel budello di su’ ma’).
Mica finisce lì. Eh! Di navetta ne funzionava una sola, ed è arrivata dopo un altro quarto d’ora. Sulla banchina, un avviso beffardo che ci informava che passa una navetta ogni due minuti.
Al controllo passaporti, un solo sportello UE ed uno extra-UE. Mezzora. Insomma, tre ore e mezzo di volo ed un’ora per uscire dall’aeroporto. E per fortuna avevo solo bagaglio a mano. Dulcis in fundo, i bancomat aeroportuali erano vuoti, ed io avevo con me giusto qualche monetina. Per fortuna, mi erano venuti a prendere mia sorella ed il suo compagno.
Sarei stato molto contento, se a suo tempo l’Aeroflot si fosse comprata l’Alitalia. Comunque, va bene anche Air France, anche se avrei preferito Air Uganda (chissà se esiste).
Il fatidico mercoledì mi sono alzato alle cinque, per prendere il treno delle 6:25, l’unico che ci mette quattro ore anziché quattro e mezzo, e che perciò costa 65,60 € (93,10 in prima classe) anziche 56,10 (80,80), ossia 9,50 € (12,30) in più. Infatti, è arrivato a Milano con mezzora di ritardo, e dunque quattro ore e mezzo come tutti gli altri. Anzi: 25 minuti, così non pagano i rimborsi.
Il giorno dopo, finalmente, si torna a casa, a Mosca. Nel prendere la metropolitana, noto un annuncio abusivo incollato all’ingresso:
Questa la può apprezzare solo chi capisce sia l’italiano che il russo: orrori grammaticali in entrambe le lingue.
Al binario dell’espresso per Fiumicino, vedo una turista conversare col bigliettaio. Quanto costa? “Tuelfe euro”, le risponde. E in seconda? “No, onli ferst classe”, dice. “O anche solo seconda”, gli dico sorridendogli. Non m’ha mica capito. Si vede che lui non c’è mai salito.
Finalmente sono all’imbarco. Ho ancora tempo, mi vado a fumare una sigaretta nella saletta fumatori, per quanto basterebbe semplicemente entrarci, anche senza fumare. Due ragazzi giapponesi vogliono farsi una foto davanti alla vetrata, con sullo sfondo gli aerei parcheggiati. Chiedono di farla ad un altro fumatore, che per caso è un addetto alle pulizie. “No, ma che sei matto”, gli risponde, incrociando i polsi, mimando un paio di manette. “Sinnò te s’enculano!”. Dubito che l’incauto nipponico abbia recepito la minaccia sessuale, ma ad ogni buon conto, rinuncia.
Già: perché non si possono fare foto? Questioni di sicurezza, si dice. Ma quali? Per la planimetria dell’aeroporto? Ma quella si vede in qualunque rivista a bordo. Per gli aerei? Al di là delle compagnie, i modelli sono un po’ sempre gli stessi, dagli airbus ai boeing, in rete si trova di tutto di più, in fatto di descrizione delle caratteristiche tecniche. E allora? Niente, è solo che qualcuno non si è ancora accorto che la guerra fredda è finita da quasi vent’anni.
L’anno scorso ero stato in Kazachstan. Al ritorno, di notte, il pilota annunciò di affacciarci tutti agli oblò a destra, per vedere un satellite appena lanciato da Bajkonur. E’ stata un’esperienza commovente, ed ovviamente tutti hanno fatto foto ed anche filmini. A Fiumicino, invece, “te s’enculano”. Bah.
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