lunedì 6 ottobre 2008

Fregnacce

Fin da piccolo, ho sempre avuto una naturale predisposizione per la matematica, nel senso più puro del termine, o piuttosto per i numeri.

Avevo circa due anni e mezzo, quando per settimane me ne sono stato seduto per terra a studiare il centimetro da sarto. A un certo punto, venne a trovare mio padre a Roma un amico di famiglia, un fisico ceco (nel senso di Cecoslovacchia: lo so che a molti non entra in testa che il “non vedente” è cieco, non ceco). Con la sicumera tipica dell’infanzia – ma qualcuno non se ne libera manco da adulto – gli comunicai di sapere fare qualunque addizione e sottrazione. Visti i suoi sorrisi comprensivi e compassionevoli, insistetti. Va beh, disse, quanto fa sette più cinque? …Dodici, risposi. Troppo facile. Quarantatré più trentotto? Rotelle in fibrillazione… ottantuno. In pratica, non sapevo né leggere, né scrivere, e non conoscevo le moltiplicazioni e le divisioni, ma potevo fare ogni addizione e sottrazione… fino a centodieci, perché è a questo numero che arrivava il centimetro che avevo pazientemente studiato.

Negli anni, a scuola, sia a Mosca che a Roma, fui sempre considerato l’asso della matematica nella mia classe, ed era anche l’unica materia, assieme al francese, in cui eccellevo, per il resto un disastro.

Agli inizi di settembre di quest’anno, prima di rientrare da Roma a Mosca, siamo riusciti a vederci con mio padre. Casualmente, ci siamo cimentati in un dialogo che aveva del surreale. Stavo ultimando alcune traduzioni per un catalogo fieristico. Molte aziende italiane, che avevano ricevuto per posta elettronica il modulo da riempire in italiano in formato word, anziché riempirlo, salvarlo e rispedirlo, lo hanno invece stampato, riempito a mano, scannerizzato e quindi rimandato in formato jpg. Fin lì, passi. Solo che quasi la metà di queste aziende, alla voce “indirizzo”, ha indicato la via ed il numero civico, senza CAP e città. Come dire: “Via Nazionale, 7” e basta. O, al limite, città senza provincia. Non sto qui a discettare sulla superficialità italica, per la quale ancora non capisco come facciamo ad essere così apprezzati sui mercati esteri. Ma quel che a quel punto ho fatto notare a mio padre, è che, per fortuna, ho la testa piena di informazioni perfettamente inutili, quali, ad esempio, tutte le sigle di capoluoghi di provincia e buona parte dei prefissi telefonici d’Italia. Che so io, “Via Nazionale, 7”, nome di cittadina di duemila anime e telefono che inizia per 045, sicuramente la ditta si trova in provincia di Verona. Meglio che niente. Mio padre, incredulo, si alzò ed andò a consultare la Treccani. Ovviamente, avevo ragione.

Da questo episodio, ne scaturì un ragionamento più generale. Credo che ogni persona adulta ed istruita sappia un minimo fare di conto, per esempio sette alla seconda, undici alla seconda, eccetera. Io però, entro certe grandezze, non ne ho bisogno. Voglio dire: 4, 9, 16, 25, 36, 49, 64, 81, 100, 121, 144, 169, 196, 225, 256, 289, 324, 361, sono tutte potenze quadre che so a memoria, non debbo calcolarle. Un kilobyte è pari a 1.024 bytes (e non a 1.000, come di solito si dice), un megabyte corrisponde a 1.024 kilobytes, un gigabyte a 1.024 megabytes, perché 1.024 altro non è che due alla decima: 2, 4, 8, 16, 32, 64, 128, 256, 512, 1.024, 2.048, 4.096, 8.192, 16.384, 32.768, 65.536. A che serve? A niente. Eppure, stanno lì, ad occupare inutilmente alcune cellule del mio cervello. Ed il cervello umano è come il cestino di Windows: quanto che sia grande, una volta pieno, cancella le informazioni più vecchie, indipendentemente dalla loro importanza.

Ecco la ragione del titolo di questo mio scritto: il commento di mio padre è stato “figlio mio, quante fregnacce che hai in testa”. Ed ha perfettamente ragione. Però, di gente che dice un sacco di fregnacce è pieno il mondo, e non sanno manco quanto faccia diciassette alla seconda. Tanto vale saperlo, a parità di fregnacce…

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