di Aleksandr Sabov
(L’autore di questo articolo, scritto a caldo nel 2004 ai tempi della cosiddetta rivoluzione arancione, ma che, in una situazione che si è ripresentata senza via di uscita, sembra quasi scritto nel 2007, alla vigilia delle nuove elezioni, è un giornalista russo esperto di politica internazionale, che è stato per molti anni corrispondente da Parigi prima della Komsomol’skaja pravda e poi della Literaturnaja gazeta. Per nascita, Sabov proviene dalla Galizia, una regione situata all’incrocio tra più nazioni. In uno dei suoi libri, ha raccontato dello strano destino di sua sorella, che, senza essersi mai mossa dal proprio villaggio, si è trovata ad essere, nel corso della sua vita, cittadina austriaca, polacca, ungherese, cecoslovacca e sovietica. Oggi, dopo il crollo dell’URSS, supponiamo sia cittadina ucraina. L’articolo di Sabov riflette abbastanza fedelmente le posizioni russe sull’argomento, che naturalmente sono diverse da quelle di molti autori ucraini).
Ormai è da più di un mese che rimaniamo incollati davanti alla televisione e soffriamo per l’Ucraina. E’ dunque vero che il Paese si trova sull’orlo della scissione? E’ già tornata la “rivoluzione castana”, o si è temporaneamente allontanata fino al terzo turno di elezioni? Ad ogni modo, in Ucraina occidentale, dove si trova la potente Chiesa greco - cattolica, l’ultima tappa della campagna elettorale coinciderà con il Natale. I propagandisti “arancioni” sono già in giro per le campagne, dove entrano nelle case a recitare poesie natalizie: “Si siedono a tavola, non bevono e non mangiano, dànno consigli…”.
Nel suo famoso saggio Kak nam obustroit’ Rossiju (Come possiamo sistemare la Russia), uscito un anno prima del dissolvimento dell’URSS, Aleksandr Solženicyn (“Io stesso per poco non sono per metà ucraino”) pensava, con un senso di dolore lacerante, proprio all’Ucraina e alla Russia con i loro venti milioni di parenti dall’una e dall’altra parte! Un anno fa abbiamo letto il libro Ukraina – ne Rossija (L’Ucraina non è la Russia) del Presidente Leonid Kučma, scritto al termine del suo decennale mandato. Ciò che più lo preoccupava era l’“incompiuta auto-identificazione degli ucraini”. Ricordiamo anche un vecchio dibattito, svoltosi in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Taras Ševčenko, quando anche la Russia, dopo l’Ucraina, aveva cominciato a cantare il suo Zapovit (“Quando morirò, seppellitemi… Seppellitemi e alzatevi, liberatevi con il sangue dei nemici, conquistate la libertà”). Un famoso giornalista della rivista Novoe vremja (Tempi nuovi), Michail Men’šikov, così si espresse a questo riguardo (Pis’ma k russkoj nacii, 1914):
«C’è da chiedersi quali “nemici” avesse l’Ucraina ai tempi di Ševčenko cinquanta anni fa. Di certo, non più i polacchi e non più i tartari. Anche a non voler considerare gli altri attacchi politici dei “parenti” di Taras, era chiaro che gli unici nemici che popolassero allora la sua fantasia erano i “moscali” [i moscoviti], che avrebbero tenuto l’Ucraina in prigione e gli ucraini in catene [kajdany]. Era vero tutto ciò? E’ stato vero allora o in qualsiasi altro momento della storia? … Forse, l’annessione della “Piccola Russia” alla “Grande Russia” nel XVII secolo avvenne in qualche modo con la forza, ma a forzarla non furono i “moscali”, bensì i polacchi, i giudei, i turchi, i tatari… Dov’è la vostra schiavitù, dove sono le catene, dov’è l’urgente necessità di cospargere l’intero Dnepr di sangue grande-russo?».
Un punto fermo su questa discussione dimenticata venne posto a suo tempo da una trojka itinerante della VČK (1): nel 1918 il “černosotenec” [membro dell’organizzazione di estrema destra dei “Cento neri”] M. O. Men’šikov venne fucilato sulla riva del lago Valdaj, vicino alla sua dača. Oggi, dopo 75 anni, è stato riabilitato. Gli estimatori del suo talento, in collaborazione con il museo cittadino di Valdaj, hanno organizzato un ciclo patriottico di letture intitolato Men’šikovskie čtenija e si stanno adoperando affinché vengano ripubblicati i suoi libri.
Sono tante le spine di questo genere rimaste infisse nella memoria dei nostri popoli durante la vita vissuta in comune all’interno degli imperi russi. Ma adesso vogliamo soffermarci sugli ucraini: come si evolvono oggi i loro rapporti?
I nuovi “federalisti”
Già durante la prima presidenza di Leonid Kučma, trenta storici ucraini avevano scritto un’opera imponente, Ukrainskaja gosudarstvennost’ v XX veke (L’ordinamento statale ucraino nel XX secolo). Il libro inizia così:
“Per fortuna o per sfortuna, nel XX secolo il socialismo è stato l’ideologia più influente in Ucraina. A partire dai primi tentativi di fondazione dei partiti politici nelle zone a nord del Dnepr, proprio all’inizio del secolo, passando attraverso la guerra di indipendenza del 1917-1922 e fino al crollo dell’URSS, il movimento politico ucraino e tutti i governi ucraini (o pseudo - ucraini) sono stati socialisti”. L’autore di queste righe è James E. Meis, importante collaboratore scientifico dell’Istituto di Relazioni nazionali e di Politologia dell’Accademia delle scienze ucraina, il quale sottolinea anche che gli ucraini sono sempre stati dei “sognatori federalisti”. Né si deve dimenticare che il “padre della nazione” Michail Gruševski, famoso storico nonché primo Presidente della Repubblica Popolare Ucraina, eletto dalla Rada centrale (2), un’assemblea che non era stata eletta da nessuno, a suo tempo aveva proposto di ritagliare le circoscrizioni amministrative in modo che avessero una popolazione di circa un milione di persone e fossero in grado di gestire “le questioni in materia di sanità, trasporti, agricoltura, territorio, industria e istruzione”. Chissà che Chruščëv non abbia ripreso da lui l’idea dei sovnarchoz (3)?
Tuttavia, la prima a cui questa idea piacque fu la Repubblica Sovietica Donecko-Krivorožskaja, il cui fantasma è stato alla testa dell’attuale parata ucraina di rivendicazioni di sovranità. Nel febbraio del 1918 questa “repubblica” propose che tutta la futura Federazione Russa venisse formata da analoghe regioni economicamente omogenee e non dalle repubbliche nazionali sovietiche, come era stato già deliberato dal terzo congresso panrusso dei Soviet. Mosca però non riconobbe la Repubblica Sovietica Donecko-Krivorožskaja né come repubblica separata né come componente della Federazione russa. E’ curioso che, se si paragonano quegli eventi con quelli attuali, si potrebbe pensare che sulla scena agiscano le stesse forze motrici e persino gli stessi leader, magari con nomi diversi. Quali ragioni, per esempio, emersero allora a sostegno della separazione? Le stesse di oggi: la vicinanza con la Russia, l’eterogeneità della popolazione, l’ucrainizzazione e la derussificazione, il rifiuto di consegnare il denaro al bilancio dello Stato e di “nutrire” così quelle regioni dell’Ucraina che vivono con le “dotazioni”. Solo che questa volta la posta in gioco è più alta: il Congresso ucraino dei deputati, riunitosi recentemente a Severodoneck a sostegno di Viktor Janukovič, ha minacciato di costituire una “Repubblica Federale Sud-orientale con capitale Char’kov”. Il governatore di Char’kov, Evgenij Kušnarev, è salito subito alla tribuna: «Voglio ricordare una cosa alle teste calde che sfilano sotto i vessilli arancioni: da Char’kov a Kiev ci sono 480 chilometri, mentre il confine con la Russia è a 40 chilometri (applausi). “In piedi, mio grande Paese, questa è una guerra per la vita o per la morte, contro le forze oscure del fascismo, contro la peste arancione! (valanga di applausi)”» [salvo l’accenno finale alla “peste arancione”, sono le parole di una famosa e commovente canzone nata nei primi giorni dell’invasione nazista dell’URSS (N.d.R.)] . Ci sono anche altri progetti di separazione: ad esempio, quello del kraj di Novorossijsk, che rivendica uno status di territorio libero autogovernato. Una particolarità notevole del “separatismo orientale” è data dal fatto che, con rare eccezioni, l’apparato amministrativo è compatto.
Al contrario, in Ucraina occidentale il separatismo ha preso quasi ovunque la forma di opposizione contro i dirigenti delle amministrazioni presidenziali, ossia dei governatori. La rada regionale di L’vov [Leopoli], subito dopo aver riconosciuto Juščenko come presidente legalmente eletto, ha rimesso in piedi il vecchio oblispolkom [Comitato esecutivo regionale], escludendo la oblgosadministracija [Amministrazione regionale statale] da ogni attività. Quando poi la Rada nazionale [Parlamento] ha insistito per lo scioglimento degli ispolkom in quanto forme illegali di potere, a L’vov e subito dopo anche a Černovcy sono stati eletti direttamente nelle piazze dei “comitati di salvezza nazionale”. Funzionari regionali di livello dirigenziale vanno adesso, quasi senza nascondersi, a tenere discorsi presso questi comitati.
In questa situazione estrema, il sistema statale ucraino ha mostrato segni di cedimento. Ormai chiunque sia il presidente dovrà affrontare lo stesso compito: arrestare un processo che sta facendo scivolare il Paese verso la creazione di “due Ucraine”. Ma perché una tale separazione è divenuta possibile?
La cicatrice dell’annessione
Nel 1921 la Polonia riconobbe l’Ucraina sovietica mentre la RSFSR (4) e l’USSR (5) riconobbero i diritti della Polonia sulla martoriata Galizia. Due anni dopo, questa decisione venne confermata anche dal Consiglio degli ambasciatori dei Paesi dell’Intesa (6). Per i leader storici della causa ucraina si trattò di un colpo terribile: la speranza di istituire in Galizia un’Ucraina indipendente era fallita. Dovettero rivolgere lo sguardo a un’altra Ucraina, quella “sotto i Soviet” (così la chiamavano). Allora l’ex presidente della UNR (7) Michail Gruševski, l’ex presidente del Direttorio Vladimir Vinničenko, il “romantico dell’idea ucraina” Mikola Michnovski e altri esponenti del Tovariščestvo ukrainskich postepencev espressero al potere sovietico la loro disponibilità a “ritornare a casa” e a contribuire alla lotta contro la Polonia dei pan, a patto che in cambio venisse attuata una piena ucrainizzazione della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina.
La proposta venne accettata. In quello stesso anno 1923, il Comitato Centrale del VKP(b) (8) approvò una risoluzione sulla necessità di “ucrainizzare” l’Ucraina. La campagna di ucrainizzazione assunse ritmi intensi nel 1925, quando L. M. Kaganovič venne nominato primo segretario del CC del KP(b)U (9). Lo stesso Lazar’ Moiseevič imparò l’ucraino a tempo da record e pretese che tutto il personale seguisse il suo esempio. La lingua russa venne bandita ovunque: furono chiuse numerosissime scuole ad indirizzo russo e in sostituzione vennero aperte scuole ucraine. Cinquantamila insegnanti di lingua ucraina residenti in Galizia si trasferirono in Ucraina. Per gli uffici giravano i “controllori linguistici”, gli scrittori vennero sfidati a ripulire le loro opere dai “russismi”. I linguisti, invece, ripulirono urgentemente Ševčenko: questi scriveva «car’», «kobzar’», sostituite con «car», «kobzar»; scriveva «osen’», «kamen’», sostituite con «osin’», «kamin’»; «Kiev» divenne «Kiïv», sebbene Taras Grigor’evič non conoscesse affatto la lettera ï. Gli accademici ripulivano i vocabolari, fenomeno che, tra l’altro, dura tuttora. Recentemente, sono arrivato in un vicolo cieco: cosa vuol dire «pidtjagul’nicja»? Sembra che voglia dire «ipotenusa» [gipotenuza]: cosa vuol dire, invece, «matolok»? Pare voglia dire «idiota» [idiot]. Ma gipotenuza e idiot sono parole che ancora di recente facevano parte del lessico ucraino.
Nelle regioni orientali dell’Ucraina, dove si parla il “suržik”, che tra l’altro è un lingua viva ed espressiva, l’ucrainizzazione forzata era sempre stata percepita come un’offesa e, di conseguenza, venne avversata. Persino Lazar’ Moiseevič, a suo tempo, fece un gesto di rinuncia. In Galizia, invece, che si era ritrovata nuovamente sotto il dominio della Polonia dei pan, emersero nuove forze. Nel 1929 il pensatore Dmitro Doncov, con un gruppo di ammiratori del suo libro Nacionalizm, fondò quell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini che, in seguito, diede vita all’esercito ucraino degli insorti di Stepan Bandera. Ecco succintamente riassunte le idee di Doncov, in base alle quali si erano formati gli uomini di Bandera: il nazionalista ucraino deve rifiutare la concezione razionale della vita e rafforzare dentro di sé “la volontà di tendere alla vita, al potere, all’espansione”; essere romantici significa «nutrirsi della leggenda dell’“ultima battaglia”»; essere dogmatici vuol dire “obbedire agli ordini senza discutere”; essere fanatici significa “ritenere la propria verità come unica, generale, obbligatoria per gli altri”. Essere, se necessario, un fanatico amorale significa “estendere le rivalità intestine e la reciproca infedeltà, portare il dissidio in casa. Senza tutto ciò, non può sussistere alcuna unione, alcuna comunità!”.
Agli occhi di queste persone, la storia appariva come un crudele e ingiusto paradosso. Si erano sacrificati per l’ideale di un’Ucraina indipendente, erano arrivati a massacrare per questo la lingua ucraina, e i bolscevichi si erano appropriati di tutto ciò con il loro “pseudo - stato ucraino”. Avevano persino firmato la pace con i polacchi, e a loro era rimasto il buco della ciambella.
I tentativi di riabilitare gli uomini di Bandera come eroi nazionali, di cui dànno conto le notizie provenienti dalle regioni occidentali dell’Ucraina, adesso non dividono più la Russia e l’Ucraina, bensì la società ucraina stessa. Il rischio non consiste più nel ritorno del fenomeno Bandera, che certo non tornerà: il pericolo è nel ritorno delle idee su cui esso era germogliato.
Le arance blu
Sfogliamo il manuale di storia su cui oggi studiano i ragazzi ucraini della quinta classe, senza interrompere il filo del discorso: che cosa si dice riguardo all’OUN (10) e all’UPA (11)? Sembra che, verso il 1943, l’esercito di Bandera “liberò dai tedeschi la maggior parte delle città ucraine”. Mi stropiccio gli occhi, ricorro ai documenti, alle fonti: nel 1943 tutti i dirigenti dell’UPA passarono un corso di aggiornamento professionale nei campi tedeschi. Agli ordini di chi, dunque, combatté quell’esercito, quali città liberò… dai tedeschi?
I russi figurano nel manuale solo come “moscali”. Si tratterebbe, a quanto pare, di varie tribù ugro-finniche provenienti dal nord, dove si sarebbero spinte “anche genti appartenenti alle tribù ucraine”. Nel manuale si sostiene che, provenendo da Kiev, giunto a Suzdal’, Andrej Bogoljubskij vi trovò non solo una nuova capitale ma anche un nuovo popolo. Con il quale nel 1169 saccheggiò Kiev in modo tale che “più tardi il pogrom tataro non aggiunse molto a quei pogrom intestini”. Gruševski si limitò a questa breve constatazione. I nuovi storici ucraini, invece, hanno dedotto che fu appunto questa marcia su Kiev a portare al divorzio definitivo tra Ucraina e Russia. Non si vede però come si possa parlare di divorzio se prima non ci fosse stato un matrimonio.
Ai “moscali” subentrano poi i “moscali comunisti”, la cui occupazione principale sarebbe stata quella di “distruggere l’Ucraina”, “distruggere la lingua ucraina”(?!). Il capo del NKVD (12), Berija, avrebbe avuto l’intenzione di trasferire tutti gli ucraini in Siberia. Mosca avrebbe ceduto la Crimea, facendola entrare a far parte della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, al fine di “addossare all’Ucraina la responsabilità morale per l’espulsione della popolazione tatara”.
Devo ammettere che ho chiuso il manuale della quinta classe persino con un senso di sollievo: si trattava solo di vecchie controversie, di questioni del passato. Si rimestano vecchi rancori. Ben altra alienazione hanno dovuto superare altri popoli, basti pensare ai francesi e ai tedeschi. Ma oggi non c’è alternativa: i rapporti tra Russia e Ucraina si possono fondare solo sulla base degli interessi nazionali. Per non parlare poi dei caratteri nazionali: una peculiarità dei russi è che nella loro testa c’è l’idea fissa dello zar, mentre gli ucraini hanno nel sangue tutt’al più l’“atamanščina” (13). Non ho dubbi sul fatto che gli ucraini sentano più vicina a sé la repubblica parlamentare che non quella presidenziale. Se solo Leonid Kučma avesse a suo tempo introdotto una riforma politica, ma non alla fine, bensì agli inizi o a metà del suo mandato…
C’è però che il manuale delle classi superiori, quello che tratta la storia fino ai giorni nostri, non può essere messo da parte così facilmente. Qui è scritto, nero su bianco, che i russi in terra ucraina sono stranieri, che “il potere imperiale russo” ha intenzionalmente popolato di russi l’Ucraina meridionale ed orientale allo scopo di strappare in seguito questi territori a favore della metropoli. In altre parole, ci sono i “moscali interni”, c’è una “quinta colonna della Russia”. Non sarà per questo che oggi in Crimea si dice: “Le nostre arance sono blu?”. Il solo Fondo Soros, stando a quanto Bogdan Gavrilišin, presidente della sezione ucraina del Fondo stesso, ha reso noto in un’intervista di qualche anno fa al giornale di Kiev Zerkalo nedeli, ha pubblicato già 90 manuali e sussidiari di storia dell’Ucraina “di impostazione anti-colonialista”. A quanto sembra, nella storia dei nostri Paesi ci sarebbero state già quattro “guerre russo-ucraine”. Mazepa è adesso un eroe nazionale ucraino, che cercò di correggere il fatale errore commesso da Bogdan Chmel’nicki quando convocò la Rada di Perejaslav…
Se a questo punto siamo riusciti a farci una qualche idea del sottofondo storico dell’ondata “arancione”, quella “blu” la presenteremo così come appare agli occhi degli ucraini occidentali. “La popolazione di Doneck, nel complesso, è costituita da immigrati poveri provenienti da Kursk e da altre regioni della Russia. Si tratta per lo più di gente losca, avvilita, analfabeta, all’interno della quale sono diffusi l’alcolismo, il banditismo, il teppismo, i furti” (Za vil’nu Ukrainu, L’vov). “…Occorre distruggere il marciume dell’influenza moscovita e di altri influssi nelle città ucraine, che sono piene di parassiti, di quella sporca massa moscovita semicriminale e sottoproletaria, insediata intorno a fabbriche e imprese che non servono a nessuno… A qualsiasi tipo di resistenza da parte di questa biomassa si deve rispondere con immediate azioni dissuasive e punitive” (da Slovo, organo della Tovariščestvo della lingua ucraina, ente finanziato dallo Stato).
E veniamo infine a coloro che sono già pronti alla guerra. L’Assemblea Nazionale Ucraina (UNA (14)), al momento della sua fondazione dieci anni fa, si presentò quale continuatrice della causa di Stepan Bandera. Insieme con la sua organizzazione paramilitare UNSO (15) (Autodifesa nazionale ucraina), svolse a Kiev esercitazioni dello stato maggiore per mettere a punto le misure da intraprendere nel caso di una “secessione della Crimea, della fondazione di una Repubblica Donecko-Krivorožskaja o di una aggressione della Russia contro l’Ucraina”. Da quella dichiarazione conseguiva che l’UNA era pronta, ancora prima dell’inizio di un conflitto, a concentrare in territorio russo “50-100 punti di appoggio per atti di terrorismo”. In conseguenza di ciò il Ministero della Giustizia ucraino privò UNA-UNSO (16) dello status legale, ma, due anni dopo, effettuò una nuova registrazione dell’organizzazione, che adesso esorta la gioventù della Galizia a seguire l’esempio di Che Guevara (e non quello di Stepan Bandera) e ha assunto la denominazione non più di “movimento nazionalista”, bensì di “associazione eurasiatica”. Di fatto però la sua eurasiaticità si riduce a fraternizzare in tutto il mondo con le organizzazioni terroristiche islamiche e a mandare propri combattenti in Cecenia, mentre per ciò che riguarda propriamente la Galizia coltiva l’idea di unire gli ortodossi e i cattolici “in un unico patriarcato”. Il leader dell’UNA-UNSO, Dmitro Korčinski, si è presentato alle elezioni attuali come candidato alla carica di Presidente dell’Ucraina. Non ha superato il primo turno. Ma anche così è troppo.
Promettere e dimenticare!
Per una parola russa, minacciò una volta questo giovane politico, taglieremo un dito, per due parole la mano, per tre la testa. Non è il caso di esagerare la serietà di simili minacce: per gli estremisti nell’attuale Ucraina non è certo un momento buono. Ma già il fatto stesso di percepire una parte della società come una biomassa sottoproletaria e le insistenti accuse pubbliche di “moscalità” si accordano con troppa evidenza con la formula del fanatismo di Doncov: “considerare la propria verità unica, generale, obbligatoria per gli altri”. Anche quando ciò provoca una “lite in casa”.
Mi permetto ora di citare un autore altolocato che ha riflettuto a lungo su questo tema: «La nazione ucraina (nazione-Stato) si forma oggi non in senso etnico, ma politico e civico. Cosa vuol dire “si forma”? Vuol dire che in essa è in corso un processo di consolidamento, una tappa necessaria del quale è costituita dal consolidamento socio-culturale. Ma non c’è il pericolo di una divaricazione? Il progetto non potrebbe infrangersi sulla questione linguistica? Ove si rispettino rigorosamente i diritti e le libertà di tutti i gruppi della società e ove si conduca una ragionevole politica culturale, ciò non dovrebbe avvenire».
Tuttavia è appunto ciò che si è verificato un anno dopo l’uscita dell’ottimistico libro di Leonid Kučma. Nei giorni roventi della crisi ucraina la mia attenzione venne catturata da una dichiarazione del presidente dell’Istituto per la strategia nazionale, Stanislav Belkovski: “La separazione non procede secondo la linea delle relazioni con la Russia. La questione qui è l’atteggiamento verso la cultura e la lingua. Dire che qualcuno in Ucraina guardi alla Russia come alla manna è un errore”.
In teoria, ciò è risaputo già da quattordici anni, a partire dall’ultimo referendum sovietico, quando l’Ucraina scelse la strada dello sviluppo indipendente. Già allora, il confronto del numero totale dei votanti con quello della comunità russa non lasciava alcun dubbio sul fatto che anche quest’ultima, con una preponderante maggioranza, avesse operato la scelta a favore di un’Ucraina senza l’URSS, a favore dell’Ucraina e “non della Russia”. Vale a dire che già in quella fase, di fatto, tutti i cittadini della repubblica, senza differenze tra i gruppi etnici, avevano dimostrato di essere una nazione ad altissimo potenziale di consenso politico, pronta a costruire un suo nuovo Stato comune. Il potenziale, tuttavia, è cosa del futuro, che non si può costruire senza un fondamento, senza il consenso delle comunità etniche.
Il famoso appello “a una Russia unica ed indivisibile” tracciato sul monumento di Bogdan Chmel’nicki a Kiev appartiene all’ucraino M. Juzefovič. Precedentemente, costui veniva ingiuriato in quanto “filo moscovita”, mentre adesso semplicemente viene chiamato “collaborazionista”. Ma perché adesso ci si dovrebbe arrabbiare per un monumento del passato? I nuovi tempi esigono una nuovo appello: “Per una Ucraina unita e indivisibile”. Quando e su quale pietra scolpirlo lo deciderà la storia futura. Intanto si sta preparando la pietra.
Da qui erano partiti anche Leonid Kravčuk e Leonid Kučma: nei loro programmi elettorali promisero di fare il possibile al fine di attribuire alla lingua russa lo status, se non di seconda lingua statale, almeno di lingua ufficiale. Tuttavia, al momento di assumere la carica, il punto di vista cambiò. Kravčuk affermò che in Ucraina non ci sono russi, e che "gli undici milioni di parlanti russo non rappresentano un problema". Durante l’attuale campagna presidenziale, Leonid Kučma, prendendo la parola nella regione di Čerkassy, ha sollevato dubbi su alcuni punti del programma elettorale di V. Janukovič, tra cui anche l’eterna pietra d’inciampo, lo status della lingua russa. Adesso Leonid Danilovič non sente neanche la necessità di argomentare la sua posizione: «In quanto Presidente dell’Ucraina, intendo dichiarare solo una cosa: la Costituzione per me è come il “Padre Nostro”. Ed è tutto. I commenti a questo proposito sono superflui». A queste affermazioni Viktor Fedorovič, dalla regione di Vinnica, replicò che, in caso di vittoria, avrebbe sottoposto a referendum nazionale lo status della lingua russa, la doppia cittadinanza e i rapporti tra l’Ucraina e la NATO, “dove non si deve entrare”. Comunque vada, è ormai giunto il momento di fare chiarezza sulla natura della lingua russa in Ucraina, se la si deve considerare una madrelingua oppure una lingua straniera. Senza di ciò, non si può ovviare alla confusione statistica, non si può costruire una chiara politica nazionale che sia rispettosa verso tutti i gruppi di popolazione.
Una sola lingua porterà fino a Kiev?
Ma quanti russi ci sono in Ucraina? “8.334.100”, risponde con esattezza matematica nel suo libro il Presidente Kučma, evidenziando subito il rapporto tra ucraini e russi: 77, 8% e 17, 3%. Il restante 5% è costituito da gruppi etnici minori, di cui elencherò solo quelli che ammontano almeno a 100.000: ebrei, bielorussi, moldavi, tatari di Crimea, bulgari, polacchi, ungheresi, romeni. Questa era la situazione alla fine del 2001.
A quel tempo, Vladimir Malinkovič, direttore della sezione ucraina dell’Istituto internazionale di ricerche umanistiche e politiche, aveva già abbandonato la squadra presidenziale in segno di disaccordo con le sue posizioni. Era stato proprio lui a elaborare le promesse elettorali del presidente sullo status della lingua russa e il relativo progetto di legge presentato alla Rada. Ecco il suo punto di vista, espresso a Radio Svoboda: “Noi siamo un Paese dove c’è un bilinguismo reale. Oggi le persone che sono state educate alla cultura russa e a cui è cara la lingua russa, rappresentano non meno del 50% della popolazione ucraina. Alla lingua russa occorre assegnare uno status che può essere leggermente inferiore a quello della lingua ucraina nazionale. Così non ci sarebbero arbìtri da parte degli impiegati a L’vov, in Crimea o a Lugansk”.
Ecco dunque come stanno le cose: nella statistica presidenziale sono del tutto omessi i cosiddetti “ucraini di lingua russa”! Si tratta, certamente, di un gruppo non etnico, ma linguistico, tuttavia sono pur sempre cittadini ucraini. Sono propriamente cittadini di etnia ucraina, la cui madrelingua è il russo. Ecco spiegato il motivo per cui i candidati alla carica di presidente cedono sempre alla tentazione di puntare ai voti di questa metà del Paese e, una volta ottenuti, dimenticano subito le loro promesse.
Ha mai contato qualcuno quanti sono in Ucraina i cittadini di etnia russa e quanti quelli di etnia ucraina ma di madrelingua russa, quanti sono quelli realmente immigrati e quanti quelli che hanno dietro di sé più di una generazione, o addirittura secoli? Probabilmente ricerche del genere sarebbero state effettuate, se lo storico bilinguismo dell’Ucraina fosse stato ufficialmente riconosciuto. Anzi, all’inizio questo bilinguismo è stato soppresso dalla scienza e, in seguito, in silenzio e senza clamori, è stato bandito dalla politica. Iniziò Gruševski, quando era professore all’Università di L’vov: l’antica Rus’, nei suoi lavori di storia, si trasformò dapprima in “Ucraina-Rus’”, poi il nome “Rus’” venne abbandonato e rimase solo “Ucraina”. Poi, “russi” e “bielorussi” si dissolsero definitivamente nella “storia millenaria del popolo ucraino”. Su come questo punto di vista sia coesistito con la scienza storica dell’epoca sovietica, quando Gruševski divenne socio dell’Accademia delle scienze dell’URSS, non intendo pronunciarmi. E’ evidente, tuttavia, che, una volta “svernato”, questa tesi sia fiorita con la primavera ucraina. Proclamando che l’antica Rus’ era uno Stato ucraino primigenio, hanno privato del luogo di origine non solo i russi e i bielorussi, ma anche buona parte degli ucraini.
Non sarà per questo che il pensiero politico ucraino scorre attualmente lungo due correnti separate? In una, c’è il lavoro collettivo di quegli storici ucraini di cui abbiamo parlato all’inizio di questo articolo, nell’altra troviamo un intero fiume di pubblicazioni che calpestano apertamente la verità storica. Basta sfogliare lo Slovar’ drevneukrainskoj mifologii (Vocabolario di mitologia ucraina antica) dell’“etnografo e scrittore” Sergej Plačinda: “Arii (orii) è il nome più antico degli ucraini, i primi aratori del mondo. Sono loro che hanno impiegato per primi i cavalli in questa attività, che hanno inventato la ruota e l’aratro, sono stati loro i primi nel mondo a coltivare la segala, il grano, il miglio, loro che hanno esportato le proprie conoscenze sull’agricoltura e sui mestieri del popolo in Cina, in India, in Mesopotamia, in Palestina, in Egitto, nell’Italia settentrionale, nei Balcani, nell’Europa occidentale, in Scandinavia. Le tribù degli arii sono state alla base di tutte le culture indoeuropee”.
Se queste cose fossero state pubblicate in qualcuna di quelle edizioni speciali dove i geni non riconosciuti dànno sfogo alla propria anima, non varrebbe neanche la pena di farci caso. Ma vengono pubblicate nei giornali centrali, le case editrici le stampano con grandi tirature. Le ultime scoperte sono: Cristo sarebbe nato non in Galilea bensì in Galizia, la lingua ucraina sarebbe la “lingua di Noè prima del diluvio” e addirittura la “base viva del sanscrito”. Nessuno, né i corifei della scienza storica né il potere politico ucraino, ha mai cercato neppure di frenare questa insensata invenzione di miti. Ma quando l’autocoscienza nazionale di un popolo si nutre di miti, c’è da meravigliarsi di ciò che avviene nelle strade?
Da Rossijskaja gazeta, 24 dicembre 2004, p. 10. Traduzione di Martina Valcastelli.
1 Vserossijskaja Črezvyčajnaja Komissja po bor’be s kontrrevoljuciej [Commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione].
2 Central’naja Rada: blocco patriottico - nazionale dei partiti socialisti ucraini e delle organizzazioni democratiche, istituito nel marzo del 1917. Organo del potere statale ucraino, svolse le funzioni del Parlamento regionale nel periodo aprile 1917-gennaio 1918 e marzo-aprile 1918. Ne fu presidente M. S. Gruševski.
3 Sovety narodnogo chozjajstva: organismi economici.
4 Rossijskaja Sovetskaja Federativnaja Socialističeskaja Respublika: Repubblica federale socialista sovietica russa.
5 Ukrainskaja Sovetskaja Socialističeskaja Respublika: Repubblica socialista sovietica ucraina.
6 Accordo politico-militare stipulato tra Inghilterra, Francia e Russia nel 1904. Durante la Prima guerra mondiale, per contrastare la coalizione tedesca, si aggiungeranno all’Intesa più di venti Stati, tra cui gli USA, il Giappone e l’Italia.
7 Ukrainskaja Narodnaja Respublika: Repubblica popolare ucraina.
8 CK: CC, Comitato Centrale. VKP(b), Vsesojuznaja kommunističeskaja partija (bol’ševikov): Partito comunista pansovietico (bolscevico).
9 Kommunističeskaja partija (bol’ševikov): Partito comunista (bolscevico).
10 Organizacija Ukrainskich Nacionalistov: Organizzazione dei Nazionalisti ucraini.
11 Ukrainskaja Povstančevskaja Armija: Esercito insurrezionale ucraino.
12 Narodnyj Komissariat vnutrennich del: Commissariato del popolo agli affari interni.
13 Periodo della storia ucraina degli anni 1918-1920, caratterizzato dall’instaurazione di poteri in regioni separate dell’Ucraina.
14 Ukrainskaja Nacional’naja assambleja: Assemblea nazionale ucraina.
15 Ukrainskaja nacional’naja samooborona: Autodifesa nazionale ucraina.
16 Ukrainskaja Nacional’naja Assambleja: Assemblea Nazionale Ucraina; Ukrainskaja nacional’naja samooborona: Autodifesa nazionale ucraina.
Aleksandr Sabov, "Slavia" N°2 2008