domenica 19 ottobre 2008

Ribellione vo cercando

Alle 17:41 italiane di ieri, sabato 18 ottobre, RAI News 24 lancia sul web una notiziona:

Una cinquantina di soldati russi morti in due imboscate in Inguscezia, il Kremlino che in primo momento parlave di due morti ha confermato la strage e annunciato il lancio di una operazione antiterrorismo nella repubblica caucasica.

La notizia è di quelle da sobbalzare: cinquanta morti?! Naturalmente, comincio a girare tutti i canali televisivi russi satellitari e normali. Niente, non ce n'è traccia. Eh certo, direte voi: Putin e il KGB ha blindato tutta l'informazione... Io vi dico che non è così e non è mai stato così, ma non importa, tanto non vi convinco. Allora però comincio a guardare RAI, Mediaset, e poi, via web, Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, Stampa, Unità... Niente. Blindati anche loro da Putin e dal KGB? Un favore di Berlusconi? Persino l'Unità? Beh, complimenti: se il KGB fosse stato così potente ed efficiente, forse adesso vivremmo meglio. Ma andiamo a vedere i dettagli della velina di RAI News 24:

Gli agguati sono stati riportati dal sito web di opposizione "Ingushetia.org".

Ah, ecco. E' sufficiente mettere su un sito, allocarlo su un qualche registar del New Jersey o di Hudson, nel Wisconsin, oppure di Henderson, nel Nevada (perché così è: Datarealm Internet Services), per guadagnarsi l'onorifico status di "oppositore". Così va il mondo. E, naturalmente, è tutto a stelle e strisce.

Le dichiarazioni di Napolitano

Ciampi è stato decisamente migliore non dico di taluni Presidenti degli anni ’50 e ’60, ma persino dell’epoca recente: 10-100-1000 Ciampi, piuttosto che Kossiga. Per quanto riguarda Napolitano, è da sempre un migliorista, ed un nostro nemico di classe, ma non è assolutamente né un rincoglionito (l’ho conosciuto di persona sia da ragazzo, a Botteghe Oscure, dove lavorava mio padre, sia al Parlamento Europeo, quando Napolitano faceva l’eurodeputato ed io il funzionario, seppure in due gruppi parlamentari diversi), né un disonesto. Semplicemente, non è mai stato nostro, ma non mi pare una gran colpa. Ho visto altri nostri fare attualmente lingua in bocca col nano.

I miglioristi erano la corrente – non dichiarata, perché ufficialmente nel PCI non c’erano correnti – più moderata del Partito Comunista, quella, per intenderci, che faceva l’occhietto al PSI di Craxi.

Detto questo, Napolitano non è mai stato dei “miei”, non ne ho mai condiviso le tesi, ma non mi pare affatto una ragione sufficiente per denigrare “a babbo morto” chicchessia. Io denigro i ladri ed affaristi tra i “loro”, ed i voltagabbana ed affaristi tra gli ex “nostri”. Napolitano non ha mai rubato. E persino Andreotti non ha mai rubato. Ci troviamo ora a rimpiangere gli Andreotti, i La Malfa (Ugo, non Giorgio), i Saragat, i Malagodi, i De Martino ed i Nenni. Addirittura gli Agnelli, Gianni, ovviamente, la nostra bestia nera dell’ottobre 1980.

Flash. Ero segretario di zona della FGCI, a Roma, IX Circoscrizione, la sezione era quella fondata da mio nonno. Una litigata della madonna con Pio La Torre, che per me era il solito burocrate del cazzo, e almeno dentro al Partito non dovevo per forza difendere posizioni indifendibili. E gli oggetti del contendere erano due, entrambi mica cazzatine da poco: la sconfitta operaia con Berlinguer ai cancelli della FIAT, e i missili nucleari Cruise all’aeroporto Magliocco di Comiso, in provincia di Ragusa, dove peraltro io ero già andato a prendere le prime (prime a Comiso, mica in assoluto) mazzate dalla polizia (ed ero stato anche a Mirafiori, se è per questo). In pratica, gli avevo aizzato contro l’intera sezione. Il giorno dopo, incontrando mio padre nei corridoi della sezione esteri di Botteghe Oscure, fece un unico commento: “Certo che tuo figlio è un bel peperino!”.

Nel frattempo, l’allora segretario del PCI in Sicilia, Gianni Parisi, compagno universitario di mio padre a Mosca, aveva chiesto di essere sollevato dall’incarico, a pienissima ragione: viveva blindato da anni, lui e la sua famiglia, suo figlio veniva spesso da noi a Roma per non essere ostaggio delle minacce mafiose al padre. Venne nominato segretario proprio Pio La Torre. Di lì a poche settimane, tornando da un volantinaggio “problematico” (scazzottata con gli autonomi prima, manganellate della celere dopo), ho visto l’inizio del telegiornale dell’ora di pranzo. Chiamai mio padre gridando, e questi non capiva la mia reazione: sullo schermo, l’ennesimo omicidio di mafia, una macchina blu ministeriale, finestrino vicino al guidatore aperto, una gamba della vittima che si sporge dal finestrino. L’ho riconosciuto dalla scarpa e soprattutto dal calzino. Nulla di particolare, eppure, avevo capito ancor prima che venisse pronunciato il nome. Dopo l’attentato a Togliatti, era la prima volta che veniva assassinato un membro della Direzione nazionale del PCI.

Non l’avevo mai denigrato, ci avevo solo litigato, eppure ancora adesso, ad oltre un quarto di secolo, mi rimane l’amaro in bocca, una sorta di senso di colpa.

Stasera, alla trasmissione di Fabio Fazio, c’era Carlo De Benedetti, attuale editore di “Repubblica – L’Espresso”. All’epoca della Olivetti, ci stava sulle balle un po’ a tutti. Ben diverso dalle minacce delle Brigate Rosse, per le quali fece crescere i tre figli in Svizzera (di cui l’anno prossimo acquisirà la cittadinanza), ma tant’è. Ho scoperto un capitalista nel senso puro del termine. Uno “non dei nostri”, appunto, cosa che però non è sufficiente per la denigrazione. Un capitalista che non vede nulla di male nell’accumulazione di capitale di un Bill Gates, ma che trova immorale (parole sue) che gli eventuali figli godano di ricchezze accumulate da generazioni precedenti, decisamente più versatili. Un capitalista che contraddice l’adagio americano per il quale due Paesi in cui esista il Mac Donalds non si faranno mai la guerra: contro questa tesi, cita Russia e Georgia.

martedì 14 ottobre 2008

Il capitale, un furto

Mi è stato segnalato in rete un interessante scritto, "L'oro di carta", di tal Ugo Bardi, che vi riporto per intero, per poi commentarlo.

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Uscendo l'altro giorno dal ristorante, mia moglie mi ha domandato, "ma non ti è parso un po' caro?" "Direi di no," ho risposto, " ci hanno dato da mangiare e in cambio hanno voluto soltanto dei pezzetti di carta colorata". Avrei potuto aggiungere che in certi posti si contentano di avere in cambio un quadratino di plastica, e dopo te lo rendono anche.

Il fatto che si possano ottenere beni e servizi in cambio di pezzetti di carta o di plastica colorata (che poi ti rendono anche) è uno dei tanti misteri di questo pianeta. Una volta, i pezzetti di carta avevano valore in quanto - teoricamente - erano convertibili in oro. Dal 1971, tutto è cambiato quando gli Stati Uniti dichiararono ufficialmente che abbandonavano la convertibilità del dollaro in oro. Da allora, la non convertibilità si è estesa a tutte le monete mondiali anche se, fino a non molto tempo fa, sulle banconote in lire, c'era scritto "pagabili a vista al portatore". Pagabili con cosa? Presumibilmente, con altri pezzi di carta di colore diverso. Oro di carta, evidentemente.

Sembra che il valore reale di una banconota, ovvero costo di produrla, sia di circa 0.3 eurocent; decisamente l'oro di carta è un buon affare per le banche centrali che lo stampano. Ancora meno costa la moneta virtuale; quella delle carte di credito e dei conti in banca che esiste solo in forma di bit; entità magnetiche situate nella memoria di qualche computer che non si sa nemmeno dove sia. L'oro di plastica è un affare ancora migliore per le banche. In compenso, le monete hanno un certo valore intrinseco. Le micromonetine da 1, 2 e 5 centesimi di euro sembrano di rame, ma sono di acciaio placcato e non valgono quasi niente. Più interessanti sono le monete da 10, 20 e 50 centesimi, sono fatte di "nordic gold", ovvero una lega che contiene circa il 90% di rame. La moneta da 10 centesimi contiene circa 4 grammi di rame, al prezzo attuale di circa 3 euro al kg, vale un po' più di un centesimo. Quelle più grosse, da due euro, contengono circa otto grammi e mezzo di una lega di rame-nickel. Ai prezzi attuali, il metallo vale poco più di un paio di centesimi. In tutti i casi, il valore nominale della moneta è enormemente superiore a quello del metallo.

Allora, come mai possiamo ottenere tante cose con dei pezzetti di metallo sopravvalutati, con dei pezzetti di carta colorati, o addirittura con dei bit, entità puramente virtuali che stanno dentro un computer? Forse vi sembra normale che l'oro sia di carta o di plastica.

Ma pensateci un attimo. Nella storia, la gente si scambiava merci e servizi, ma quasi sempre in cambio di qualcosa di reale, beni o servizi. Ti do un cammello in cambio di tre pecore, oppure potevi assumere dei mercenari in cambio di un sacchetto d'oro. Un tempo, in Giappone, gli Shogun coniavano moneta indicizzata in koku un'unità di misura del volume di riso. Si racconta che in certi posti si usassero conchiglie come moneta, ma ho un po' il dubbio che questa sia una storiella che gli indigeni hanno inventato per prendere in giro l'antropologo. Può anche darsi che fosse vero ma, se è vero, le conchiglie dovevano avere un valore di scambio garantito dal capoccia locale in forma di capre, pelli di pescecane, o che altro.

Certo, governi, zecche e falsari hanno sempre teso a imbrogliare "svalutando" la moneta, ovvero producendo monete che valevano meno del loro valore nominale; per esempio usando leghe che contenevano meno oro. Ma quello si sapeva che era un imbroglio. Non credo che sia mai successo nella storia che si stampasse carta dichiarando esplicitamente che non aveva nessun controvalore reale e che la gente la accettasse per moneta "buona". Certo, la propaganda moderna è potente, ma che riesca a far credere alla gente che l'oro è fatto di carta sembra veramente un po' troppo.

Io un'ideuzza ce l'avrei per spiegare l'esistenza dell'oro di carta. Ovvero che i foglietti di carta colorata, in realtà, un controvalore reale ce l'hanno, anche se non viene dichiarato esplicitamente. Pensate un attimo a cosa è successo nell'agosto del 1971, quando Richard Nixon dichiarò ufficialmente la non convertibilità del dollaro in oro. Beh, pochi mesi prima, nel Dicembre del 1970, c'era stato un evento epocale. Talmente epocale che nessuno, o quasi, se ne era accorto: il picco del petrolio degli Stati Uniti. Era epocale perché da allora gli Stati Uniti cessavano di essere energeticamente indipendenti e diventavano importatori di petrolio. Per gestire questa nuova situazione, fu necessario costruire nuove strutture economiche. Fu a quel tempo che nacque quel regime economico che noi chiamiamo "globalizzazione". Bene, io credo che quello che Nixon non disse, ma che era sottinteso, era che da allora il dollaro era convertibile in petrolio e che questa conversione era garantita militarmente dagli Stati Uniti che assicuravano a tutti l'accesso al mercato globale del petrolio; purché lo si pagasse in dollari. E' per questo che mettiamo tanta attenzione su quanti dollari vale un barile. Sembrerebbe che sulle banconote da un dollaro ci dovrebbe essere scritto, più o meno, "pagabile a vista al portatore in petrolio". C'è una ragione per la quale si parla tanto di "oro nero". Legare la moneta all'oro nero, al petrolio, si presta allo stesso imbroglio che tutti quelli che hanno stampato o coniato moneta hanno fatto, ovvero svalutarla. In questo caso, svalutare la moneta vuol dire aumentare la massa monetaria; cosa che si sta facendo da molti anni. Fino ad oggi, questo non ha avuto effetti particolarmente drammatici dato che l'aumento della massa monetaria in circolazione è avvenuto in corrispondenza con aumenti paralleli della produzione petrolifera. Il petrolio ci ha arricchiti, e a questo arricchimento reale ha corrisposto un arricchimento virtuale in termini di una maggior disponibilità monetaria. Ma qui sta cominciando a nascere un problema: il fatto che la base monetaria è esauribile. Negli ultimi anni abbiamo visto una la stasi produttiva mentre la massa monetaria ha continuato a crescere. Di conseguenza, stiamo vedendo una tremenda impennata dell'inflazione che neanche gli imbrogli contabili dei vari istituti di statistica riescono più a mascherare. Con l'imminente declino della produzione petrolifera, vedremo anche il declino rapido e irreversibile del nostro curioso oro di carta.

La moneta virtuale in forma di bit è destinata a scomparire senza lasciare traccia, cancellata dalla memoria dei computer. Le banconote si potranno sempre usare per accendere il camino o la stufa, come si faceva con i marchi tedeschi negli ultimi anni della repubblica di Weimar. Per le carte di credito, non vedo molti usi a parte come sottobicchieri o per pareggiare qualche tavolo traballante. Quelle più pacchiane, quelle dorate o platinate, le si potrebbero forse usare per farne paillettes per i vestiti delle signore. Per le monete, il destino potrebbe essere diverso. Le monetine in acciaio potrebbero essere ottimi bottoni, mentre quelle che contengono rame e nichel potrebbero essere fuse per recuperarne il metallo. Oppure, le monete potrebbero rinascere in una loro vita post-petrolifera circolando con il loro valore reale, in peso di metallo, ben diverso da quello nominale.

Comunque vada, non c'è troppo da prendersela. Il denaro, alla fine dei conti è fatto "della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni". E i sogni, si sa, non durano a lungo.

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Ed ecco il mio commento. Il valore dell’oro è dovuto alla sua disponibilità ed alla difficoltà di estrarlo, alla stregua dell’argento, del nichel, del platino, dell’alluminio, ma, secoli fa, anche del bronzo, del rame, del ferro, del palladio, come giustamente è stato notato, e persino del sale, non solo metalli, quindi. Resta però il problema del perché: in effetti, a parte il sale, tutto il resto non si mangia. Però col bronzo si facevano e col ferro si fanno le armi (quest’ultimo, opportunamente temperato, diventa acciaio). E con le armi ci si fanno le guerre. E le guerre servono per prendere con la forza agli altri le capre, le pelli, la carne, il latte, le case, o più modernamente, ogni prodotto generato dalla forza lavoro altrui; e, in epoca recente (dalla rivoluzione industriale in poi), per costringere la forza lavoro altrui ad acquistare i tuoi prodotti ai prezzi ed alle condizioni favorevoli a te anziché alla forza lavoro degli sconfitti.

Non finisce qui: oggi, col rame ci si fanno i cavi, che servono per ogni sorta di trasmissione, soprattutto (ma non solo) comunicativa. Con l’oro in quantità singole irrisorie ci si fanno i circuiti stampati, ma moltiplicatelo per tutti i circuiti stampati esistenti, ed ovviamente non stiamo parlando solo di computer, ovvero di macchine calcolatrici (“computatrici”, a voler fare i puristi).

Insomma, è vero che non siamo più al baratto, anche perché le merci (pelli, cibo, animali) deperiscono e sono scomode da trasportare, ma in effetti ha del grottesco che ci si metta d’accordo per dei pezzetti di carta colorati, più o meno elaborati (filigrana e quant’altro).

Ricordo due cose di quando ero bambino. La prima. Una volta mio padre, per lavoro, doveva passare una settimana al Club Méditerranée di Terrasini, e mi portò con se. Lì con i soldi si compravano delle palline colorate che si incastravano l’una con l’altra, e ci si facevano collanine e braccialetti. A seconda del colore, variava il loro valore nominale, e ogni pagamento (sdraio, bibite, pasti) veniva effettuato con queste perline da selvaggi.

La seconda. A Mosca, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, vicino casa mia la sera di ogni festa comandata i militari facevano i fuochi d’artificio. Anche questi constano in una specie di ordigni, e, come ogni ordigno che si rispetti, una volta “sparati”, lasciavano sul terreno i bossoli e dei cerchietti di ottone, di colore diverso a seconda del colore del fuoco d’artificio. Noi ragazzi, coi militari che cercavano di cacciarci (era pericoloso), raccoglievamo questi cerchietti. A seconda del loro colore, per gioco, gli assegnavamo un diverso valore, e li usavamo come nostra “divisa valutaria”, all’interno del nostro gruppetto, tipo “I ragazzi della via Pal”.

Ecco, penso di poter rispondere in questo modo alla domanda su come dei cerchietti qualcuno abbia deciso che assumano un valore nominale superiore alla loro difficoltà di estrazione e “formattazione”.

Personalmente, sono un cultore dei soldi trasformati in bit. Io non produco materiali tangibili: io parlo. Grazie al mio parlare, altre persone che parlano in modi (lingue) diversi riescono a capirsi. Per questo servizio, periodicamente mi viene comunicato che sul mio conto bancario sono stati bonificati, accreditati dei numeri, rubli, euro o quant’altro. Io, via computer (nei cui circuiti stampati c’è dell’oro) ordino cose del tutto tangibili, quali pappine per bambini, acqua, pane, latte, carne, vino, cibo insomma. Il cibo viene portato direttamente a casa, e per questo una parte di quei numeri viene detratta dal mio conto. In altre parole, la cartamoneta non la vedo proprio.

Il giochino funziona e funzionerà solo finché siamo tutti d’accordo ad assegnare un valore convenzionale ai bit. Francamente, non mi dispiace: i traduttori esistono da quando l’uomo ha iniziato a viaggiare ed a guerreggiare, ma venivano pagati in pelle, talvolta in terreni, sui quali dedicarsi alla pastorizia ed alla coltivazione. In nuce, la disgrazia umana è sempre stata insita nei pochi che non producono nulla e che ciò nonostante accumulavano valori convenzionali: monarchi, cesari, signorotti vari. Per questo mi ritengo marxista: l’accumulazione, dunque la giacenza inutilizzata, è un furto, perché il proprietario non ne fruisce, ma non consente di trarne giovamento a chi non ne ha. Ricominciamo da qui, e forse troviamo il bandolo della matassa di questa crisi attuale, che giustamente in Russia viene chiamata “crisi finanziaria di carta”, in contrapposizione all’economia della produzione reale.

lunedì 13 ottobre 2008

Nobel alla faziosità

Ascoltando i servizi dei mass-media russi sui premi Nobel in tutte le nominazioni (le nomination le lascio ai cultori degli invasori anglofoni nel continente indio), quello che fondamentalmente si evinceva, è il rammarico e la stizza per la totale assenza di russi. Insomma, sembrerebbe che sia una critica del tutto provinciale.

Per una volta, tralascio la mia opinione personale in merito. Però, vorrei che si facesse caso ad alcuni argomenti portati a supporto della tesi per la quale questa premiazione non abbia alcun senso, o, quantomeno, nessuna giustificazione. E non sto pensando nemmeno al fatto che il Nobel per la pace, che tradizionalmente veniva assegnato per aver messo d’accordo parti combattenti tra loro, è stato invece conferito ad un architetto finlandese del riconoscimento del Kosovo, ex presidente del suo Paese. E stiamo parlando di circa un milione di euro.

Complessivamente, stiamo parlando di quattro giapponesi (di cui uno vive negli Stati Uniti), tre statunitensi, due francesi ed un tedesco (chi fossero i candidati, si saprà solo tra cinquant’anni). In totale, dal 1901 (quando fu istituito il premio), i russi sono stati solo 19. Pavlov fu il primo, nel 1908, ma siamo ancora nella Russia zarista.

Tolstoj, Blok, Čechov, non ebbero mai (sottolineo: mai, nemmeno postumo) tale premio per la letteratura. E non ritengo di dover spendere qui nulla circa il loro valore. Pure, il premio esisteva già.

Gli scrittori russi che si videro assegnato il premio, vivevano da anni, decenni, in Occidente: Bunin (1933, viveva in Francia), Brodskij (1987, viveva da 16 anni negli USA e scriveva poesie in inglese), Solženicyn.

Quello che pochissimi sanno, e quei pochi si guardano bene dal rilevarlo, è che, nonostante il premio ufficialmente sia svedese, esso consiste in una remunerazione pecuniaria che è parte del patrimonio del Fondo. Solo che gli introiti derivano dagli investimenti del Fondo stesso nei Fondi statunitensi, nella sua stragrande maggioranza. Può il premio Nobel essere considerato svedese (?) e perciò “obiettivo”? Un proverbio russo dice che, nei ristoranti, chi paga, ordina la musica…

lunedì 6 ottobre 2008

Fregnacce

Fin da piccolo, ho sempre avuto una naturale predisposizione per la matematica, nel senso più puro del termine, o piuttosto per i numeri.

Avevo circa due anni e mezzo, quando per settimane me ne sono stato seduto per terra a studiare il centimetro da sarto. A un certo punto, venne a trovare mio padre a Roma un amico di famiglia, un fisico ceco (nel senso di Cecoslovacchia: lo so che a molti non entra in testa che il “non vedente” è cieco, non ceco). Con la sicumera tipica dell’infanzia – ma qualcuno non se ne libera manco da adulto – gli comunicai di sapere fare qualunque addizione e sottrazione. Visti i suoi sorrisi comprensivi e compassionevoli, insistetti. Va beh, disse, quanto fa sette più cinque? …Dodici, risposi. Troppo facile. Quarantatré più trentotto? Rotelle in fibrillazione… ottantuno. In pratica, non sapevo né leggere, né scrivere, e non conoscevo le moltiplicazioni e le divisioni, ma potevo fare ogni addizione e sottrazione… fino a centodieci, perché è a questo numero che arrivava il centimetro che avevo pazientemente studiato.

Negli anni, a scuola, sia a Mosca che a Roma, fui sempre considerato l’asso della matematica nella mia classe, ed era anche l’unica materia, assieme al francese, in cui eccellevo, per il resto un disastro.

Agli inizi di settembre di quest’anno, prima di rientrare da Roma a Mosca, siamo riusciti a vederci con mio padre. Casualmente, ci siamo cimentati in un dialogo che aveva del surreale. Stavo ultimando alcune traduzioni per un catalogo fieristico. Molte aziende italiane, che avevano ricevuto per posta elettronica il modulo da riempire in italiano in formato word, anziché riempirlo, salvarlo e rispedirlo, lo hanno invece stampato, riempito a mano, scannerizzato e quindi rimandato in formato jpg. Fin lì, passi. Solo che quasi la metà di queste aziende, alla voce “indirizzo”, ha indicato la via ed il numero civico, senza CAP e città. Come dire: “Via Nazionale, 7” e basta. O, al limite, città senza provincia. Non sto qui a discettare sulla superficialità italica, per la quale ancora non capisco come facciamo ad essere così apprezzati sui mercati esteri. Ma quel che a quel punto ho fatto notare a mio padre, è che, per fortuna, ho la testa piena di informazioni perfettamente inutili, quali, ad esempio, tutte le sigle di capoluoghi di provincia e buona parte dei prefissi telefonici d’Italia. Che so io, “Via Nazionale, 7”, nome di cittadina di duemila anime e telefono che inizia per 045, sicuramente la ditta si trova in provincia di Verona. Meglio che niente. Mio padre, incredulo, si alzò ed andò a consultare la Treccani. Ovviamente, avevo ragione.

Da questo episodio, ne scaturì un ragionamento più generale. Credo che ogni persona adulta ed istruita sappia un minimo fare di conto, per esempio sette alla seconda, undici alla seconda, eccetera. Io però, entro certe grandezze, non ne ho bisogno. Voglio dire: 4, 9, 16, 25, 36, 49, 64, 81, 100, 121, 144, 169, 196, 225, 256, 289, 324, 361, sono tutte potenze quadre che so a memoria, non debbo calcolarle. Un kilobyte è pari a 1.024 bytes (e non a 1.000, come di solito si dice), un megabyte corrisponde a 1.024 kilobytes, un gigabyte a 1.024 megabytes, perché 1.024 altro non è che due alla decima: 2, 4, 8, 16, 32, 64, 128, 256, 512, 1.024, 2.048, 4.096, 8.192, 16.384, 32.768, 65.536. A che serve? A niente. Eppure, stanno lì, ad occupare inutilmente alcune cellule del mio cervello. Ed il cervello umano è come il cestino di Windows: quanto che sia grande, una volta pieno, cancella le informazioni più vecchie, indipendentemente dalla loro importanza.

Ecco la ragione del titolo di questo mio scritto: il commento di mio padre è stato “figlio mio, quante fregnacce che hai in testa”. Ed ha perfettamente ragione. Però, di gente che dice un sacco di fregnacce è pieno il mondo, e non sanno manco quanto faccia diciassette alla seconda. Tanto vale saperlo, a parità di fregnacce…

venerdì 3 ottobre 2008

Siamo numeri

Leggo, sento alla radio e vedo in tv stamane che ieri in Italia c'è stata l'ennesima mattanza quotidiana di morti bianche sul lavoro: stavolta sono sei persone. Sei operai, sei sfigati, disgraziati, sei nuovi proletari. Allora, visto che come recita il titolo di questo articolo, siamo meri numeri, null'altro, ai fini della storia e della statistica, usiamoli, i numeri.

Gli infortuni si attestano attorno ad 1 milione di eventi l’anno; gli infortuni mortali oscillano tra i 1.400 e i 1.500. Fonte: CGIL. Sì, capisco, i soliti comunisti, direbbero Berlusconi e la Marcegaglia, presso le fabbriche della quale, ultimamente, sembra quasi una mortale epidemia, peggio della lebbra o della peste. Siamo sui 4 (quattro) morti al dì. O, se preferite, sui 120 morti al mese.

Poi ci sono gli incidenti stradali, soprattutto nelle nottate di venerdì, sabato e domenica. Particolarmente odiosi sono quelli dell'alba del lunedì, quando gli ultimi figli di papà impasticcati lasciano le discoteche del profondo Nord e si sfracellano contro i primi operai padri di famiglia che si erano già incamminati alla volta del loro luogo di lavoro, perché i soldi son sempre pochi. Ogni giorno in Italia si verificano in media 652 incidenti stradali, che provocano la morte di 16 persone e il ferimento di altre 912. Sedici persone ogni giorno. Mezzo migliaio al mese. Fonte: quel covo sovversivo di comunisti che è l'ISTAT.

In Italia, i voli continuano a costare più dei treni, nonostante i low cost. Mediamente, in un aereo ci sono un centinaio di passeggeri. Ecco: la prossima volta che a voi, che non siete operai e non andate in discoteca, vi dicono che volare è pericoloso, ricordatevi che in Italia è come se ogni mese (ogni mese) cadesse un aereo di operai e cinque aerei di automobilisti.

giovedì 2 ottobre 2008

Corrado Augias - Le storie

Gentile dott. Augias,

sono un italiano residente all’estero, in Russia, per la precisione. Guardo con molto interesse, quando posso, la Sua trasmissione, apprezzando molto la Sua precisione, cura, attenzione, rispetto nei confronti della lingua italiana. Nella puntata N°32, che ho visto sabato 27 settembre su RAItalia, Lei ha chiesto, giustamente, ad una sua collaboratrice, Cristina (che Lei ha presentato come “praticamente russa”: in effetti, aveva un leggero accento slavo, ma molto più era evidente l’accento romano), se si dicesse:

  1. Kòssovo o Kossòvo;

  2. Ucràina o Ucraìna.

La collaboratrice in questione ha affermato, senza nemmeno tentennare:

  1. Kossòvo, perché così si dice in russo;

  2. Per diretta conseguenza, Ucràina o Ucraìna indifferentemente, sempre perché – si suppone – così è in russo.

Il sottoscritto non è solo residente in Russia: ho vissuto in Italia 27 anni su 46 (collaborando anche con la RAI, ad esempio, ma non solo, con RAI 3 nel periodo del golpe in URSS del 1991), ho iniziato la scuola a Mosca e l’ho terminata a Roma, ma soprattutto faccio l’interprete da 30 anni esatti. Per tutto ciò mi permetto di farLe notare che:

  1. In russo si dice esclusivamente Ukraìna, mentre in italiano si dice e si scrive Ucraìna, non Ucràina, mentre ucràini sono gli abitanti di tale Paese, sempre in italiano. Il tutto rigorosamente con la “c”, essendo un Paese noto fin dai tempi, relativamente recenti, in cui Paesi e città si “traducevano”, per cui Lei si reca a Londra e non a London, ed a Mosca e non a Moskva, a Ragusa e non a Dubrovnik, ma a Ekaterinburg e non a Caterinburgo. Fin qui, una questione linguistica;

  2. In russo, ed in tutte le lingue slave in genere, si dice Kòsovo (con una “s”) e non Kossòvo, che invece è il nome imposto dagli Stati Uniti in seno all’ONU perché tale è la sua dizione in albanese. E qui, invece, è una questione squisitamente politica.

Dispiace avere assistito a questo scivolone di superficialità che, sono convinto, è del tutto episodico e non potrà diventare una regola della Sua apprezzabile trasmissione.