mercoledì 30 luglio 2008

Il solito zar Putin

Il 29 luglio su "La 7" ho assistito ad una splendida trasmissione sullo zar Putin. Il giornalista intervistato (ruolo un po' perverso, concorderete), ex portavoce del compianto Sergio Garavini, oltre alle varie stereotipate (e, mi si consenta, un po' stantie) amenità sul KGB, ha ricordato il "famoso" (???) episodio della Maddalena, quando una giornalista russa, anziché parlare, che so io, della fame in Africa, della mattanza in Iraq, del gas russo che giunge in Italia transitando in Ucraina e misteriosamente scomparendo in quest'ultima, dei rapporti Russia-Unione Europea e del regime reciproco dei visti, non trova di meglio che chiedere se sia vero quanto vociferato dai giornali scandalistici russi (tipo quelli che vengono distribuiti gratuitamente agli ingressi della metropolitana londinese, per intenderci), ossia che il Presidente russo stia per divorziare da sua moglie e sposarsi con una campionessa olimpionica di ginnastica e deputata del Parlamento russo, più giovane di lui di trent'anni.

Il giornalista, evidentemente ben informato, al punto da essere più informato di me, afferma che, a seguito di quest'episodio, Putin ha chiuso quel giornale, che poi era il giornale della giornalista, licenziando quest'ultima.

Primo, il giornale in questione, era, come dicevo prima, un fogliaccio scandalistico, mentre la giornalista lavorava (e lavora!) per l'autorevolissima "Nezavisimaja Gazeta".

Secondo, non è stato chiuso: il suo proprietario (non Putin!) ha licenziato in tronco il direttore, senza peraltro che ciò abbia minimamente influito sull'uscita del periodico.

Terzo, la giornalista è stata addirittura promossa: adesso è corrispondente permanente della sua testata presso l'Amministrazione del Presidente (un po' come quelli italiani presso Montecitorio, Palazzo Chigi, il Quirinale).

Complimenti al giornalista de "La 7" per il suo naso da Pinocchio.

Da ultimo, sulle famose lacrime della giornalista. Putin ha dato una risposta che mi sento di sposare appieno:

– Abbiamo discusso di tante questioni politiche internazionali, economiche, energetiche, e Lei non ha ritenuto possibile chiedermi qualcosa su cose serie. Comincerò dalla seconda parte della Sua domanda […] (risposta sulla visita a Berlusconi). …Ma veniamo alla prima parte del quesito da Lei posto, affinché non ci sia dubbio alcuno che non ho intenzione di sfuggire ad una risposta. Innanzitutto, in quel che Lei ha detto, non c'è una sola parola di verità. In secondo luogo, Lei ha rammentato l'articolo di uno dei nostri giornali scandalistici, dove effettivamente viene menzionata sia Alina Kabaeva, nostra campionessa olimpionica di ginnastica artistica, sia, se non vado errato, Katja Andreeva, vostra collega, conduttrice del telegiornale del Primo canale televisivo di Stato. In altre edizioni analoghe vengono citate altre giovani donne e ragazze di successo. [...] Infine, conosco ovviamente il trito e ritrito stereotipo per il quale i politici vivono in una casa di vetro. La società naturalmente ha diritto di sapere come vivono le persone che si occupano di attività pubbliche. Ma persino in questo caso, è ovvio, esistono pur sempre dei limiti. Esiste la vita privata, e a nessuno è consentito di intrufolarsi in essa. Sono sempre stato disposto negativamente verso coloro i quali ficcano il loro naso raffreddato per personali fantasie erotiche nelle vite altrui.

Personalmente, non essendo Presidente d'alcunché, posso concedermi di dire le cose "pane al pane, vino al vino": la giornalista ha fatto una domanda imbecille, ed il giornalista de "La 7", essendo sicuramente informato di quanto ho qui riportato, si è comportato da infame, confidando nella scarsa informazione e memoria del suo pubblico.

giovedì 17 luglio 2008

Lasciare un’impronta nella storia

Come è piuttosto intuibile, ero contrario e contrariato per le impronte coatte dei bambini zingari, ordinate dal batterista padano che, con un male interpretato sense of humour, il cantante da piano bar delle crociere di lusso ha voluto mettere a capo degli affari interni. Vista la sconfessione da parte del Parlamento Europeo, più che fare dietro-front, la notiziona è che dal 1 gennaio 2010 le impronte verranno prese a tutti, e riprodotte sulle carte d'identità.

Nel 1976, in Spagna muore l'ultimo dittatore fascista d'Europa, Francisco Franco (poco tempo prima, la rivoluzione dei garofani in Portogallo), lasciando ai colonnelli fascisti greci, golpisti del 1974, il primato dell'anacronismo nel vecchio continente: gli stadi di sterminio del cileno Pinochet erano lontani un oceano.

Subito, rientra dall'esilio a Madrid Santiago Carrillo, segretario generale del Partito Comunista Spagnolo (che alle prime elezioni democratiche del 1977 avrebbe preso quasi il 10%). Viene arrestato sotto bordo dell'aeromobile, per essere poi rilasciato di lì a qualche giorno.

Fatto sta che, come Federazione Giovanile Comunista Romana, subito organizziamo una veglia notturna sotto l'ambasciata spagnola, in piazza di Spagna. Eravamo tutti un po' massimalisti ed un po' uguali, barba (quelli a cui già cresceva), capelli lunghi, false Clark ai piedi, eskimo. Si distingueva un ragazzino dall'aria "secchiona", con gli occhiali Rayban da vista, con cravatta e giacca di raso rosa scuro, che al megafono spiegava tutta la nostra esecrazione, con pacatezza, moderatamente, ma anche serenamente. Chiesi chi fosse, e mi dissero che era il nostro segretario della FGCR, tale Valter Veltroni. Sì, l'attuale segretario del Partito Democratico, quello che dice di non essere mai stato comunista.

Eppure, il fascismo interiore spagnolo non era stato ancora estirpato. Nel 1981, il colonnello Tejero entra in Parlamento armi in pugno, prendendo in ostaggio i deputati, con tanto di diretta televisiva. Ricorda molto la macchietta di Ugo Tognazzi nel film "Vogliamo i colonnelli". Fu in quell'occasione che il re Juan Carlos, pur essendo un monarca, dimostra di essere un sincero democratico, negandogli ogni appoggio e giustificazione, facendogli terra bruciata attorno. Il golpe si sgonfia nel giro di poche ore.

Ricordo quando, nel 1980, al mio primo campo internazionale di volontariato antincendio, conobbi per la prima volta dei ragazzi spagnoli. Le loro carte di identità erano già plastificate, cosa che in Italia sarebbe accaduto ben quindici anni dopo, ed erano già della dimensione di una carta di credito, cosa che in Italia è arrivata solo in questo millennio, e nemmeno dappertutto. Ma c'era una cosa che metteva i brividi: l'impronta digitale. La mente correva alle leggi razziali fasciste italiane del 1938, alle schedature a seguito delle quali mezzo milione di zingari vennero gasati nei campi di sterminio: Germania, Italia e Repubblica di Vichy.

Il modulo della carta d'identità italiana, tuttora, è quello del Ventennio mussoliniano. Il rettangolino bianco in basso a sinistra sotto alla foto, laddove finora viene scritto il prezzo, era destinato, appunto, all'impronta digitale del detentore del documento. Se ho bene interpretato le disposizioni di legge, tra un anno e mezzo torneremo indietro di settant'anni.

Coi tempi che corrono, mi si potrebbe obiettare, bisogna pur identificare ogni essere umano, se si vogliono evitare ulteriori stragi che continuano ad insanguinare il pianeta. Oggi esistono molti altri mezzi tecnologici, dalla lettura dell'iride a quella del DNA. Decisamente, farebbe meno impressione. Una questione psicologica? Probabile: il fascismo è ancora troppo vicino, troppe sono ancora le sue sue vittime viventi (compreso il sottoscritto, che non è esattamente un vecchio, con i suoi 46 anni).

Del resto, è piuttosto evidente ed oggettiva la progressiva, ancorché repentina, militarizzazione della penisola italiana, dall'invio dell'esercito a Roma per il mantenimento dell'ordine pubblico, al divieto di mangiar panini nelle piazze (chi di noi non l'ha fatto, da studente senza un soldo bucato?), passando per il sequestro dei borsoni contenenti merci, cosa che, ovviamente, danneggia solo i soliti poveracci morti di fame, mica i negozianti di via Montenapoleone o di via del Corso.

E' un fascismo (per ora) latente, che percepisco persino nel vedere passare elicotteri ogni mezzora sopra le spiagge, a differenza di appena un anno fa. Il Parlamento Europeo, che certo non è un covo di comunisti sovversivi, per ora è un argine che 35 anni fa non avevamo. Ma quanto resisterà, ancora, a fronte degli interventi di razzisti di Mario Borghezio (quello che spruzzava il DDT sulle prostitute negre sul treno Torino-Milano) e Roberto Fiore (uno dei fondatori di "Terza Posizione", quella dei Fioravanti, della Mambro, di Alibrandi)?

martedì 15 luglio 2008

Amarcordless

Fa troppo caldo per rimanere seri a lungo. Mi concedo anch'io qualche frivolezza, manco fossi un giornalista. Ho lo stimolo, infatti, di parlare di un argomento così frivolo e balneare quale è quello della capacità di acquisto dei salari dei lavoratori italiani.

Posso sbagliare di qualche anno, ma insomma ho dei ricordi piuttosto precisi delle cose che mi interessavano da ragazzino, all'inizio degli anni '70, anche perché venivo in Italia solo d'estate, e quindi, dopo nove mesi di interruzione, gli aumenti dei prezzi balzavano agli occhi. Erano gli anni in cui l'inflazione, pur se come un brocco suonato, galoppava che dio la benedica, fino ad arrivare al 22% nel 1978 (proprio per questo, non capisco cosa ci sia di scandaloso nell'inflazione al 10% in Russia di questi anni d'inizio Millennio, ma questo sarebbe altro argomento, che peraltro ho trattato e tratto di frequente, nel mio blog).

Dunque, 30 lire un ghiacciolo, 5 lire l'ascensore, 10 lire tre palline di gomme americane alle macchinette, 45 lire il giornale, idem il biglietto dell'autobus, 50 lire il gettone del telefono ed una partita a flipper (a cinque palline, mica a tre), 100 lire una scatolina di soldatini della italiana Atlantic (da pronunciare rigorosamente "Atlànticce"), 150 quelli della Airfix.

Se mio padre, nel '63, prendeva 90.000 di stipendio, nel '77 ne prendeva 700.000: è proprio negli anni '70 che egli ha iniziato a lavorare come funzionario alla Sezione Esteri della Direzione del PCI a Botteghe Oscure. Prendeva lo stipendio di un operaio specializzato in base al Contratto Nazionale dei Metalmeccanici, il ché, per un Partito che si richiama alla classe operaia, mi pare tuttora la conditio sine qua non.

Insomma, con le mie 100 lire al giorno della prima metà degli anni '70, e le 1.000 lire a settimana della seconda metà, mi sentivo un signore. Poi sono cresciuto, e persino le Nazionali senza filtro – che io, appunto, fumavo – costavano 180 lire. Andare a mangiare una pizza con i compagni persino a San Lorenzo (quello bombardato dagli americani il 19 luglio 1943, per intenderci) costava 1.500 lire. Un paio di Clark rigorosamente finte (oggi si direbbe "taroccate"), 4.000 lire.

Molte cose sono cambiate da allora, non solo oggettivamente, ché questo non avevate bisogno di me per saperlo, ma anche nella mia vita. Guadagno bene, soprattutto perché sono emigrato da Roma da 22 anni e dall'Italia da 7 anni. Ma, proprio per questo, io non faccio testo.

Non ricordo quanto costassero all'epoca le sigarette "da ricchi", tipo Marlboro, Camel, Lucky Strike (chi se le è mai potute permettere?), ma immagino almeno 500 lire. Adesso siamo sui 4 euro, ovvero 8.000 lire. Il rapporto è 1 a 16. L'autobus ed il giornale costano 1 euro, rapporto 1 a 40. La pizza con gli amici (compagni ne vedo sempre meno), 20 euro, rapporto 1 a 25. Un par de scarpe nòve, 100 euro, rapporto 1 a 50.

Purtroppo, non ricordo quanto costasse all'epoca la benzina, la carne, il latte, il pane, non avevo ancora di questi problemi.

Ma veniamo ai salari. Mediamente, checché ne dica Berlusconi, i lavoratori superano a malapena i 1.000 euro, ma abbondiamo pure, diciamo che ne pigliano 1.400. A fronte dei 350 di mio padre di allora, il rapporto è di 1 a 4.

Capito il giochetto? Certo, ci dicono che viviamo meglio: abbiamo la televisione a colori, il telecomando, il telefonino, il dvd, il computer, internet. Ma non è che prima non li avevamo perché non potevamo permetterceli: semplicemente, non erano stati ancora inventati. Si chiama progresso tecnico-scientifico, mentre ce lo spacciano per capitalismo dal volto umano, contrapposto al comunismo feroce e sanguinario.

Mi sono lasciato prendere la mano e sto ricominciando perciò a sudare, fermiamoci pure qui: per oggi, vi ho intristiti abbastanza.

venerdì 11 luglio 2008

In quel Paese un po’ così

Come ad ogni mia temporanea permanenza in Italia, continuo a scontrarmi con incongruenze kafkiane. Sarò sfigato io? Mah. Nella mia vita normale, non direi, solo in Italia.

Tutto è iniziato dall'apertura della porta dell'aereo Aeroflot a Fiumicino. Nonostante che la compagnia di bandiera russa faccia parte dello Sky Team come l'Alitalia, ai voli dell'Aeroflot vengono sempre riservati i parcheggi più lontani, per cui si viaggia circa venti minuti in autobus per tutto l'aeroporto, anziché penetrare direttamente nel salsicciotto di collegamento tra aeromobile e terminal. I bagagli vengono riconsegnati sempre sul nastro più distante. Ma di questo avevo già scritto a suo tempo nei miei appunti spuntati di viaggio.

Dopo quaranta minuti di attesa, sul nostro nastro cominciano a consegnare i bagagli del volo da Dublino, arrivato mezzora dopo di noi, ovvero appena dieci minuti dopo il loro arrivo. Nel frattempo, tutti noi, passeggeri provenienti da Mosca, compresa la squadra nazionale femminile di pallacanestro, ci accalchiamo, silenziosi ed increduli, guardando con invidia gli irlandesi. Totale, settanta minuti.

Passati i controlli, si trattava di accedere alla ferrovia. Bisogna scendere con una scala mobile, dove però non si possono trasportare i carrelli. Dulcis in fundo, poi si tratta di risalire su un'altra scala mobile. E' noto che l'80% dei passeggeri non sono uomini d'affari con solo bagaglio a mano, ma famiglie che vengono in vacanza, con valigioni, bambini, carrozzine e quant'altro. La logica non è di queste lande. Pur essendoci alzati alle due di notte ora italiana ed arrivati a Roma alle undici del mattino (comunque in ritardo), rischiamo di arrivare in città quando non sarà possibile pranzare da nessuna parte, perché, a differenza di Mosca, qui dopo le due se ne riparla a cena.

In realtà, c'è una scappatoia, che io già conoscevo, memore delle amare esperienze degli anni precedenti: nascosto da sguardi indiscreti, c'è un ascensore, che porta ad un budello sopraelevato, che permette di superare le due scale mobili, con tanto di carrello. E' però solo uno, venti minuti di fila. Acceduto al quale, ci siamo trovati davanti al budello ridotto ad un terzo: il tapis roulant centrale era chiuso per lavori in corso. Peccato che il telo di copertura avesse addosso uno strato di polvere spesso un dito: in corso da quanto?

Finalmente, siamo giunti al trenino. Fila interminabile per i biglietti, ma, anche qui, io ho la supremazia dell'amara esperienza: accanto alla fila, un paio di apparecchi, miracolosamente funzionanti, dove è possibile fare i biglietti con carta di credito.

Fatti. In treno, l'avviso che lo stesso è munito di aria condizionata. Aggiungo: a condizione che spiri il vento, infatti mai visto che funzioni. Ad onor del vero, era così anche negli anni '70, quando il trenino, costruito per i Mondiali del '90, manco c'era. Morale, un caldo appiccicoso della madonna. Ma questo l'avevo messo in conto.

E' l'una, siamo arrivati a Termini. Termini, mica Milano Quarto Oggiaro. Non c'è un carrello nemmeno a pagarlo oro, pur essendo smontati dalla carrozza di testa. D'improvviso, ne vedo uno, mi precipito (si fa per dire, con 35 kg sul groppone e 35°C all'ombra), ci sbatto sopra le valigie, il computer portatile, la macchina fotografica, lo zainetto di mia moglie, la figliola seduta sulle valigie... Ecco perché era libero: ruote rotte, non si muove nemmeno a piangere in turco.

Ansimante e grondante, con addosso tutto quanto testè descritto (figlia di 19 kg esclusa, naturalmente), arrivo ai tassì, che mi sentono bestemmiare da lontano.

Qui finisce l'avventura del signor Bonaventura. Anzi no.

Un mio cliente, per una traduzione fatta in gennaio, ha pensato bene di mandarmi un assegno a Roma, con raccomandata con ricevuta di ritorno, anziché fare un bonifico sul mio conto di Bruxelles (dal 1 luglio 2003 i bonifici intra-UE non sono soggetti a commissioni), e dunque spendendo inutilmente il costo dell'assegno e della raccomandata per un assegno di... 30 euro. Assegno emesso da una banca di provincia, che non dispone di sportelli a Roma, ed io viceversa non dispongo di conto corrente in Italia, sarebbe uno spreco, essendo ufficialmente residente all'estero ed iscritto all'AIRE. Stamane, tento di recarmi alla più vicina agenzia bancaria, Intesa San Paolo, che conosco bene, avendo avuto da loro un libretto di risparmio quando era Banca Commerciale Italiana, all'inizio degli anni '80. Fuori, un paio di persone di fila. La porta è bloccata, uno dei due della fila è proprio un funzionario dell'agenzia, ma non fanno entrare neanche lui. Quando la fila ha raggiunto la quindicina di persone, un funzionario si degna di uscire e spiegarci che hanno tutti i terminali bloccati. Rinuncio, visto che oltretutto sospetto già che non mi cambieranno l'assegno.

Sempre stamane, dovevo andare in stazione a fare i biglietti del treno per andare al mare lunedì prossimo. Doveroso excursus dei miei rapporti con FS ed ATAC (l'azienda romana trasporti).

Per quanto riguarda le Ferrovie dello Stato, sono anni che tento di prenotare i biglietti via internet da Mosca con la mia carta di credito VISA, e sono anni che non ci riesco. Chissenefrega che è una VISA: non è emessa da una banca italiana, quindi devi morì. Ecco perché mi tocca andare in stazione, dove, alle macchinette, faccio i biglietti... con la mia carta di credito VISA moscovita.

In gennaio 1986, venne a casa di mio padre un vigile urbano,consegnandomi una multa per avere viaggiato senza biglietto nel dicembre precedente sull'autobus 4 in piazza Cavour. Con tanto di mio nome (di Mark col kappa ce ne son molti, di Bernardini ce n'è una marea, ma di "Mark Bernardini" ce ne sono pochi nel mondo ed uno solo italiano: il sottoscritto) e numero della mia allora carta d'identità. Io in dicembre 1985 ero militare, avevo quindi il trasporto gratuito, non ero a Roma, bensì in caserma ad Ascoli Piceno (tutto documentato), ma soprattutto, per chi conosce Roma, l'autobus 4 (attualmente sostituito dal 360) non passa in piazza Cavour.

L'anno scorso, sulla falsa riga di quest'anno, dovevo andare in stazione a fare i biglietti. Alla fermata "San Giovanni" della metropolitana, ho messo due euro nella macchinetta per fare subito due biglietti, uno per l'andata ed uno per il ritorno. Attendere prego, biglietti in corso di stampa, grazie ed arrivederci. Cosa manca? I biglietti. E vallo a dimostrare. Certo, mi venne spiegato che potevo presentare una richiesta di rimborso. E dove mi facevo mandare la risposta, a Mosca? Per due euro?

Quest'anno, memore di quest'episodio, i biglietti li ho fatti in tabaccheria prima di scendere. Timbrato, si è aperto lo sbarramento a vetri. Giunto a Termini, all'uscita c'erano i controllori. Ho consegnato loro direttamente entrambi i biglietti, avvisando che uno era timbrato e l'altro mi serviva per il ritorno. Invece, non erano timbrati nessuno dei due. E allora come mai a San Giovanni si è aperto lo sbarramento? Morale: multa. Va bene, dico io, se vogliamo prenderci in giro, facciamolo fino in fondo. Ecco il mio passaporto.Non ha una carta d'identità? Non ho diritto di averla, essendo residente all'estero. Ma non c'è l'indirizzo? No che non c'è, dovrete fidarvi di quel che vi dico. Avrei potuto inventarmene uno, ma sono stato educato al rigore ed all'onestà, gli ho dato quello vero. Salito in stazione, in dieci minuti ho fatto i biglietti e sono risceso. Ho chiamato i controllori e li ho portati alle obliteratrici all'ingresso. Sotto i loro occhi, ho infilato uno dei due biglietti, ed era proprio quello che avevo già infilato a San Giovanni. Non erano passati i 75 minuti, quindi l'obliteratrice, anziché intimare "biglietto scaduto", ha comunicato che il biglietto è valido per una sola corsa. Hanno dovuto annullare il verbale, ma a quel punto, per darsi un tono... mi hanno consigliato, la prossima volta, di controllare, quando si aprono le porte, se il biglietto reca o meno la timbratura. Io??? Non dico a Zurigo, a Bruxelles o a Berlino, ma una roba del genere non mi è mai successa manco a Mosca...

Puntate precedenti

20 marzo 2008: Appunti spuntati di viaggio

6 febbraio 2008: Un Paese così può durare?

giovedì 10 luglio 2008

Piccole intercettazioni crescono

Leggo sul Kommersant (il corrispettivo russo del Sole 24 Ore) che "il Senato USA il 9 luglio, con 69 voti favorevoli contro 28, ha approvato il progetto di legge per intercettare le telefonate ALL'ESTERO degli stranieri sospettati di spionaggio o di collusioni col terrorismo". All'estero, mica a casa loro. Domanda retorica: se lo facessero anche i russi, quante ne dovremmo leggere, sull'Unità e gli altri giornali cosiddetti di sinistra, sulla longa manu del KGB e di Putin?

mercoledì 2 luglio 2008

Morte sul pavimento d'un ospedale

Nella clinica statunitense di Kings County una donna è morta nell'accettazione sotto gli occhi indifferenti del personale medico.

Posso fare una domanda retorica? Come mai questa non l'ho letta su alcun giornale italiano, mentre l'ho letto sul Kommersant russo, il corrispettivo del Sole 24 Ore, mica di Liberazione o di Rinascita? Forse perché era nera? Poco male: in Italia, sarebbe zingara, o rumena, o marocchina, insomma, poco padana.

Guardatevi il video, va...

martedì 1 luglio 2008

Non ci saranno più sogni al davanzale

Stufo di vedere il ciuffo scompigliato di Berlusconi nella conferenza stampa da Napoli su Sky, sono passato all’intervista di Veltroni da Roma sempre su Sky. Che palle!

Io ho sempre votato comunista, si sa. Beh, Veltroni, pensando di protestare tra un quadrimestre (tra un Manhattan ed uno Screw Driver) e fagocitare gli antiberlusconiani, sbaglia tempi ed obiettivi. Per i tempi, sarà – ma secondo me è già, da ben un quindicennio – troppo tardi, per gli obiettivi, o beh, l’obiettivo non è ingrassare il suo Partito, e questo proprio non gli entra nella sua borghesissima zucca. “Salari, stipendi, pensioni”, manco fosse un anatema. Il salario è una “remunerazione periodica, spettante al lavoratore dipendente”; lo stipendio è una “retribuzione fissa, corrisposta a chi presta continuativamente un lavoro subordinato”. “Presta”, ma lasciamo stare, questo discorso ci porterebbe troppo lontano. Forse faceva differenza tra operai ed impiegati, ed invece è troppo tardi, alla terza settimana non ci arriva alcun dipendente ordinario. Forse, invece, intendeva la differenza tra chi è fisso, e chi di mese in mese non sa se potrà sfamare la famiglia il mese successivo, ed infatti non si fanno più figli.

Insomma, ad ottobre una manifestazione di protesta che non avrà pari, più bella che prìa. Veltroni! Non sarà tua! Ecco perché, ben venga la manifestazione a cui ha aderito (non “della”) Italia dei Valori di Di Pietro. Mi spiace solo che io arriverò in Italia il giorno dopo, il 9 luglio. Per Veltroni, qualunque cosa non abbia il suo “possumus”, è da combattere, ufficialmente perché fa il gioco del nemico (ops, “dell’avversario di cui non pronuncio il nome”), realmente perché “non siamo stati consultati”. Veltroni ha consultato Di Pietro nell’indire la manifestazione di ottobre? Già, ma il PD è molto più grande. Sicuro che prossimamente sarà ancora così? In altre parole, il patrimonio del PCI, tra gli amerikani di Veltroni, i craxiani di Bertinotti ed i carrieristi del PdCI, è ormai (definitivamente?) disperso.