martedì 30 dicembre 2008

Unità dei russofobi

L'Unità, come non mi stanco mai di ricordare, in politica estera ha due obiettivi fondamentali: dimostrare di essere filo statunitense e dimostrare di essere russofoba, il tutto per un malcelato complesso di inferiorità, quello che Troisi chiamava "orchestra d'inferiorità".

Andiamo con ordine. Il Parlamento russo, la Duma, in novembre aveva proposto di prolungare la durata in carica del Parlamento stesso e del Presidente della Repubblica. Di quanto, di vent'anni? Certo che no: sei anni anziché gli attuali cinque per il Presidente, cinque anni anziché gli attuali quattro per il Parlamento. Come in Italia, per il Parlamento, meno che in Italia, per il Presidente.

Subito l'Unità aveva gridato allo scandalo: dittatura per i prossimi decenni!

Oggi, Medvedev ha ratificato il progetto di modifica costituzionale, che entrerà in vigore nel 2012, allo scadere dell'attuale legislatura parlamentare e presidenziale.

Ovvero, il prossimo Parlamento (non quello attuale) sarà operativo dal 2012 al 2017, anziché 2016, ed il prossimo Presidente (non quello attuale) si insedierà al Cremlino dal 2012 al 2018, anziché al 2017.

Che dice l'Unità ai suoi lettori? Russia, passa la legge di Medvedev: resterà in carica sei anni. Cosa se ne deduce? Che Medvedev resterà in carica dal 2008 al 2014, anziché al 2013.

Per quelli più duri di comprendonio, spiego. L'Unità mente, sono dei bugiardi, dei bugiardi consapevoli e perciò infami. La prossima volta che andate in edicola, pensateci, prima di scegliere il quotidiano da leggere, se volete essere informati anziché turlupinati.

domenica 28 dicembre 2008

Il testimone

Avevo voglia di scrivere queste scarne righe un'ora fa. Poi ho pensato che sicuramente mia moglie, la mia amatissima compagna, riuscirà a fare addormentare quella via di mezzo tra Highlander e Terminator che è nostra figlia a breve, e finalmente andremo a dormire, visto che è da circa tre ore che il tentativo va avanti e nel frattempo è l'una di notte, e gli israeliani continuano a bombardare, tanto per cambiare, i bambini palestinesi.

Allora sono uscito sul balcone coperto, che peraltro io scopro per poter fumare una sigaretta in santa pace, che poi diventano due, e poi tre.

Ecco perché le scorte di acqua minerale gelano: in casa, un caldo maiale, sui venticinque gradi. Sopra lo zero, ovviamente. Fuori, una decina. Sotto lo zero, anche questo è piuttosto ovvio, viste le latitudini. E così, sul balcone si balla intorno allo zero, e l'acqua non è contenta.

Ha nevicato, e manco me ne sono accorto. Qui Natale e Santo Stefano non era festa, in compenso oggi, 27 dicembre, è sabato, e fuori non c'è un'anima. E nemmeno un'anima in automobile. Ecco perché la neve fa effetto ovattato. Noi però faremo festa fino a lunedì 19 gennaio, di riffe o di raffe, tra Capodanno, Natale ortodosso (che per puro caso coincide con la Befana) e Vecchio Anno Nuovo. Tiè.

I ragazzi tadžiki ancora dormono, cominceranno a spalare verso le cinque del mattino, perché sennò non li pagano. Peccato, io lascerei tutto così com'è, ma non è colpa loro. E' di una bellezza lacrimevole, sconvolgente, a quest'ora. Mi ricorda l'infanzia, quando ancora potevo sentire la neve scricchiolare sotto i piedi avvolti nei valenki di feltro.

Quando nostra figlia crescerà, avrà dei figli, e magari vorrà che assomiglino a sua madre, o a me, suo padre. La madre è bellissima, per me, personalmente non mi ritengo un adone, e spero che, se avrà una figlia, non le cresca la barba a quindici anni come a me.

Sto cincischiando. Non è di tutto questo che volevo parlare, questa sera, questa notte.

Noi, italiani all'estero (che poi, già io, un quarto russo, un quarto ebreo, nato a Praga quando ancora era Cecoslovacchia, come italiano sono piuttosto spurio), dobbiamo per forza organizzarci con la parabola, sennò i figli col cavolo che parleranno italiano madrelingua. Al massimo, lo parleranno come nel doppiaggio di Rocky, "io ti spiezo in due".

Oddio, direte voi, non è che si perdano un granché: tra RAI e Mediaset, sembra di essere davvero su un altro pianeta, altro che all'estero. Le uniche volte che fanno qualcosa di decente, le criptano, per non meglio identificati "diritti di ritrasmissione all'estero". Peccato che non lo facciano né i russi, né quelli dell'Europa Occidentale, dai francesi agli inglesi, passando per i portoghesi, gli spagnoli, i tedeschi. La 7, poi, ha avuto la geniale pensata di cambiare satellite, che in Europa Orientale non si vede proprio, e così ci perdiamo anche quel poco che c'è di buono.

Sto nuovamente divagando. Insomma, ci resta RAI Edu 2, che poi sarebbe Rewind. Ultimamente, spesso ripropongono Paolo Rossi e Cochi Ponzoni in "Su la testa". Ricordate? Occhetto aveva già sciolto il PCI, e i giudici di Milano avevano appena iniziato a smascherare i ladri della Democrazia Cristiana e del PSI Craxiano. Sembrava, da una parte, di essere lì lì da cambiamenti improbabilissimi, e dall'altra al crepuscolo di un minimo di decenza e di intelligenza.

La realtà, come sempre, è stata peggiore dei nostri peggiori incubi. C'erano, ancora non del tutto incanutiti, Jannacci, Capossela ragazzino, Gino e Michele, Antonio Albanese, Aldo Giovanni e Giacomo non ancora svenduti al legittimo erede craxiano Berlusconi, Bisio con i capelli (pochi già allora), Vergassola, persino Salvatores.

Era l'ultima puntata, i saluti promettevano un "a rivederci presto". No. Perché l'epitaffio, a conclusione, l'ha coniato Paolo Rossi stesso. Per i sogni che avete rubato ai nostri padri, e ai padri dei nostri padri, adesso basta. Ce li riprenderemo. Ora. Qui. Subito.

Davvero? In famiglia, ci bastonano da almeno tre generazioni. Chissà, la quarta. Per ora, sempre peggio.

martedì 23 dicembre 2008

Il gas, questo sconosciuto

Interessante rassegna stampa del 22 dicembre 2008.

La Stampa, 10:31 Gas, Russia: "Il debito dell'Ucraina mette a rischio la fornitura all'UE"

RAI News 24, 12:32 Mosca litiga con Kiev e minaccia di tagliare il gas all'Europa

l'Unità, 12:46 La Russia avverte l'UE: Kiev potrebbe bloccare le vostre forniture di gas

Repubblica, 13:58 Russia: "Se l'Ucraina non paga chiudiamo i rubinetti all'Europa"

Sole 24 Ore, 13:59 Gas, Russia: con debito Ucraina a rischio le forniture alla UE

Dal titolo di Repubblica a quello dell'Unità ci sono parecchie sfumature. La domanda sorge spontanea: chi potrebbe bloccare il gas all'Europa, Mosca o Kiev? Ergo, chi è giornalista e chi pennivendolo? Chi mi legge regolarmente, sa che generalmente non sono tenero con l'Unità. Eppure, stavolta sono stati gli unici corretti.

Una prova? L'inverno scorso, è successa la stessa cosa. Attraverso i gasdotti ucraini passa il gas per riscaldare l'Ucraina stessa, ma fanno anche da transito per le forniture in Europa. Quando l'anno scorso non hanno pagato, Gazprom (non la Russia: come dire FIAT, non l'Italia) ha interrotto le forniture per l'Ucraina, ma non ha toccato quelle per l'Europa. Cosa ha fatto l'Ucraina? Esatto: dalle forniture per l'Europa ha detratto quelle per se, dicendo che era colpa di Mosca.

sabato 6 dicembre 2008

Alessio II

Trovo le seguenti notizie su RAI News 24:

http://www.rainews24.it/Notizia.asp?NewsId=89156

Mentre prosegue l'omaggio dei russi alla salma di Alessio II nella cattedrale del Cristo Salvatore a Mosca, continuano a rincorrersi gli interrogativi sul passato del patriarca di tutte le Russie come sospetto informatore del Kgb. Secondo alcuni esperti, il capo della chiesa ortodossa sarebbe stato un assiduo informatore della polizia politica del regime sovietico, reclutato nel 1958 con il nome di "Drozdov".

Quello di Alessio II sarebbe stato un destino comune a quasi tutti i vescovi russi nell'era sovietica, secondo quanto affermato da padre Gleb Iakunin, dissidente e difensore dei diritti dell'uomo, che ha studiato gli archivi del Kgb negli anni '90. "Erano tutti informatori. Ma Alessio si distingueva particolarmente. Era molto attivo nell'esercizio di questa professione", ha affermato. E molti di questi vescovi parteciperanno, adesso, all'elezione del successore di Alessio II, morto ieri all'età di 79 anni.

La prova più convincente della collaborazione di Alessio II con il Kgb sarebbe un documento scoperto in Estonia negli anni '90 dallo storico Indrek Jurjo, direttore delle pubblicazioni degli archivi di stato. "E' la descrizione dell'assunzione dell'agente Drozdov. Il suo vero nome non è indicato, ma tutto corrisponde alla biografia del patriarca Alessio II, tra cui l'anno della sua nascita", ha dichiarato Jurjo. "Il Kgb non ha esercitato forti pressioni su di lui. Non ci sono documenti compromettenti. Gli hanno appena offerto la possibilità di fare carriera e se avesse opposto un rifiuto sarebbe probabilmente rimasto un sacerdote ordinario", ha commentato ancora Jurjo.

Alessio non ha mai ammesso di essere stato un informatore del Kgb e la Chiesa ortodossa ha smentito tutte le accuse di infiltrazione nella polizia politica sovietica anche dopo la pubblicazione di alcuni articoli a tal proposito negli anni '90. Il patriarca ha tuttavia chiesto "perdono" per le azioni compiute dai vertici della chiesa, in un'intervista concessa al quotidiano russo Izvestia nel 1991. Spiegando come, da vescovo in Estonia, aveva ottenuto che nessuna chiesa locale venisse chiusa, aveva ammesso: "Difendendo una cosa, è necessario cedere su un'altra. Chiedo perdono, comprensione e preghiere a coloro i quali hanno ricevuto danno da compromessi, silenzio, passività forzata o espressioni di onestà tollerate dai vertici della Chiesa".

Secondo Oleg Kalouguin, ex generale del Kgb e autore di alcuni libri sui servizi segreti sovietici, Alessio II avrebbe ritenuto opportuno collaborare per salvare la chiesa ortodossa. L'ex ufficiale ha raccontato di avere chiesto nel 1991 all'allora vescovo le ragioni della sua scelta. "Che cos'altro avrei potuto fare? Dovevo scegliere tra emigrare, essere ucciso, andare in un campo di concentramento o collaborare. Ho cooperato per salvare la chiesa e me stesso", avrebbe risposto Alessio II.

D'altra parte, la direttrice dell'Istituto Keston di Oxford, Ksenia Dennen, afferma di non essere affatto stupita dalla collaborazione di Alessio II con il Kgb: non vedo "nulla di straordinario", ha confessato. "Tutto il mondo ne era a conoscenza e quello era l'unico modo che aveva la chiesa per sopravvivere come organizzazione non clandestina".

E adesso vediamo di analizzare, visto che è un sublime esempio di manipolazione dell'informazione da parte di pennivendoli italici venduti al potere – chiunque ci sia – per trenta denari, che si assurgono a coraggiosi giornalisti che rischiano la pelle.

Personalmente, non sono cristiano ortodosso. Non sono nemmeno cattolico. Non sono cristiano. Non sono religioso. E non sono nemmeno agnostico. Sono proprio ateo, e, a differenza di molti ipocriti italioti, non lo nascondo, ma anzi lo affermo con orgoglio. Non sono manco battezzato, né circonciso, né quant'altro, figuriamoci.

Francamente, mi stava molto più simpatico l'estone Alessio II, che ha combattuto, armi in pugno, ragazzino, contro i nazisti, piuttosto che il tedesco Ratzinger, che nazista lo è stato in prima persona. Una questione di stile e di etica, se vogliamo.

Ma vediamo di analizzare, dicevo.

Si parla di "alcuni esperti". Nomi e cognomi? Altrimenti, non sono esperti, ma semplici anonimi e vili delatori, che oltretutto non si sa se non siano in realtà inventati di sana pianta dai pennivendoli di cui sopra, che sono troppo pavidi per assumersi la responsabilità delle loro allusioni. E si pone, soprattutto, un problema di millantato credito e di vilipendio. Cioè, di calunnia gratuita. Gratuita perché manca il soggetto da denunciare in tribunale.

Chi è Gleb Jakunin? Già il fatto che sia osannato dal Partito Radicale italiano dovrebbe mettere in guardia e suscitare non pochi pruriti. Ma non è questo, il fatto più eclatante. Jakunin, ex sassofonista jazz, viene definito "dissidente". In epoca sovietica? No: adesso. Ma adesso non ci sono dissidenti! A meno che non si possa definire dissidente chiunque, nel proprio Paese, sia contrario alla maggioranza al governo. Allora, in Italia circa un terzo degli abitanti è "dissidente", nei confronti di Berlusconi. Mi pare un termine smodato. Di più: Jakunin è stato deputato. Quando? Dal 1993 al 1996, ovvero da dopo che El'cin ha massacrato con i carri armati il Parlamento russo (4 ottobre 1993). Insomma, è uno el'ciniano di ferro.

Chi è Indrek Jurio? Un illustre sconosciuto. Uno dei tanti. Ma è estone. Dunque, degno di fede in quanto russofobo per elezione etnica. Almeno, da come viene presentato in occidente. Un po' come se tale Mario Rossi parlasse di Lavrentij Beria, o tale Vladimir Ivanov parlasse di Amintore Fanfani. Per carità, ciascuno può parlare di quel che gli pare, basta che non venga recepito come "verbo".

Cosa corrisponde, nella descrizione dell'agente "Drozdov", secondo Jurio? L'anno di nascita. Una prova inoppugnabile. Io sono nato nel 1962. Chissà quanti figli di puttana sono nati anch'essi nel 1962. C'è poco da fidarsi, di noialtri del 1962. Qualcos'altro? Dice di sì. Cosa? Non ci è dato di saperlo.

Anzi: una prova sarebbe il perdono che Alessio II ha chiesto per le malefatte della chiesa ortodossa in epoca sovietica. Attendo le scuse della chiesa cattolica per le malefatte compiute in epoca nazista tedesca e fascista italiana.

Chi è Oleg Kalugin? E' una delle gole profonde del dossier Mitrokhin. Ma sì, la bufala di Paolo Guzzanti, non so se mi spiego. Ci aveva messo pure mio padre, figuriamoci. Strano che non ci sia finito pure io. Quindici anni fa il Corriere della Sera lo definiva "lo 007 di El'cin". E non finisce qui: pur di guadagnar soldi, una mattina sì e l'altra invece pure elargiva pillole di rivelazioni a pagamento, tipo quando si inventò marines yankee trasferiti dal Vietnam a Mosca. Ma vive negli Stati Uniti. Dunque, adesso diventa anch'esso il verbo.

E poi, Gorbačëv. Secondo i giornali italiani, era profondamente avvilito, addirittura sconvolto. E invece? Invece, ha detto di essere tuttora ateo, ma che è sinceramente dispiaciuto per la morte di una persona degna. Avete trovato qualche accenno a ciò nei giornali italiani?

Fondamentalmente, ho una sola domanda da porre ai pennivendoli italici di cui sopra: ma a voi che vi frega? Possibile che vi paghino persino per questo? Continuate a parlare dell'isola dei famosi, che vi riesce decisamente meglio…

sabato 29 novembre 2008

L'odore dei soldi

Leggo sul "Sole 24 Ore" un articolo dell'inviata a Mosca Antonella Scott. Parla del lusso sfrenato e degli eccessi alla Fiera del Milionario di Mosca.

Ora, io capisco che, una volta giunta qui, di qualcosa doveva pur parlare. Però la prossima volta le consiglio di farsi inviare in Costa Smeralda: vi troverà il Billionaire di Flavio Briatore, mentre in Italia aumenta il numero di famiglie che la terza settimana non mangia.

domenica 23 novembre 2008

Piccoli parolai crescono

Prima che si fosse addormentata, mi sono affacciato da mia figlia Vera. E lei:
– Buona notte, buona pasqua, spokojnoj noči!
E mia moglie Katja:
– Va ancora bene che non dica “mortacci tua”…
Io:
– Stacci attenta, che questa impara al volo…
E Vera, ovviamente:
– Mortacci tua!

domenica 16 novembre 2008

I soliti accordi

Sì, vai! (Vado?) Vai, e percuotilo nell'ombra! (E se le prendo io?) No...

(Oh!) Chi è? (Ma non dovevamo cantarla al matrimonio?) E' uguale.

E in fondo alla strada (chi è che c'è?)

ci son tre ladroni (ah, va beh)

sembravano onesti, sembravano buoni

eran solo furboni.

Il primo contava, (Ma son tutti di mia moglie!)

il secondo sudava, (tra un ballo, una bionda e un panino)

il terzo spiegava, ma cosa spiegava,

la rava e la fava! (Che storia è?)

E in fondo la storia (dai, spiegamela!)

è sempre la stessa (cosa ti avevo detto, io?)

c'è uno che grida, che grida e fa i versi

da quella finestra.

Si cambiano i nomi,

rimangon bastardi,

tu guarda alla radio, le solite facce,

i soliti accordi. (Quali accordi?) I soliti.

Do maggiore, la maggiore, la minore,

re minore, sol settima, re minore...

Do maggiore, la maggiore, re minore,

la minore, sol settima, si minore...

In mezzo alla strada (Cosa c'è?)

son tre coi forconi (ah, va beh)

ma i piccoli ladri li impiccano sempre

i grandi ladroni.

Il primo strillava (tutti in girotondo, Forza Italia!)

il secondo fa i conti (mi scappa un plotone...)

il tre licenziava, ma dopo spiegava

la rava e la fava.

Do maggiore, la maggiore, la minore,

re minore, sol settima, re minore...

Do maggiore, la maggiore, re minore,

la minore, sol settima, si minore...

E sotto giù in strada

sono in tre caporioni

che cantan stonati, ognuno davanti

al suo bel karaoke!

Il primo cantava (Come prima, più di prima)

il secondo ballava (l'avanzo di balera)

il terzo applaudiva e l'ombra gridava

"né rava né fava!" (E allora?)

E allora la storia (la storia cambia?)

non è più la stessa (ma cosa ti avevo detto, io?)

se un giovane grida, e grida e fa i nomi

da una finestra.

E rischia la pelle

perché i nomi son tanti (son tantissimi!)

guardare giù in fondo alle Pagine Gialle

alla voce, Bastardi! (E allora?)

Do maggiore, la maggiore, la minore,

re minore, sol settima, re minore...

Re maggiore, la minore, si minore,

la minore, sol settima, si minore...

i soliti accordi,

le solite facce, (si minore diminuito...)

i soliti accordi, (si minore maggioritario...)

le solite palle, (si minore proporzionale...)

i soliti accordi, (si minore referendario...)

le solite facce (hehehehe...)

Vai e torna vincitore. (Libero stato in libero show!)

Ma cosa stai dicendo? (è un epilogo)

(... ma chi è che c'è nell'ombra?)

(non ho capito chi è che sta nell'ombra!)

domandare è lecito, rispondere è fantasia.

Capito? (Va beh)

La solita orchestra. I soliti accordi.

Breve omaggio a Guccini

[...]

io, chierico vagante, bandito di strada,

io, non artista, solo piccolo baccelliere,

perché, per colpa d'altri, vada come vada,

a volte mi vergogno di fare il mio mestiere,

io dico addio a tutte le vostre cazzate infinite,

riflettori e paillettes delle televisioni,

alle urla scomposte di politicanti professionisti,

a quelle vostre glorie vuote da coglioni...

E dico addio al mondo inventato del villaggio globale,

alle diete per mantenersi in forma smagliante

a chi parla sempre di un futuro trionfale

e ad ogni impresa di questo secolo trionfante,

alle magie di moda delle religioni orientali

che da noi nascondono soltanto vuoti di pensiero,

ai personaggi cicaleggianti dei talk-show

che squittiscono ad ogni ora un nuovo "vero"

alle futilità pettegole sui calciatori miliardari,

alle loro modelle senza umanità

alle sempiterne belle in gara sui calendari,

a chi dimentica o ignora l'umiltà...

[...]

Io dico addio a chi si nasconde con protervia dietro a un dito,

a chi non sceglie, non prende parte, non si sbilancia

o sceglie a caso per i tiramenti del momento

curando però sempre di riempirsi la pancia

e dico addio alle commedie tragiche dei sepolcri imbiancati,

ai ceroni ed ai parrucchini per signore,

alle lampade e tinture degli eterni non invecchiati,

al mondo fatto di ruffiani e di puttane a ore,

a chi si dichiara di sinistra e democratico

però è amico di tutti perché non si sa mai,

e poi anche chi è di destra ha i suoi pregi e gli è simpatico

ed è anche fondamentalista per evitare guai

a questo orizzonte di affaristi e d'imbroglioni

fatto di nebbia, pieno di sembrare,

ricolmo di nani, ballerine e canzoni,

di lotterie, l'unica fede il cui sperare...

lunedì 10 novembre 2008

Il compagno Obama

A me fa piacere che sia stato eletto Obama, per carità: che un discendente degli schiavi africani portati con la violenza tra gli indiani da dei fottuti inglesi, ad un fottuto comunista come me può solo far piacere.

Io mi sono assolutamente rotto che da sei mesi a questa parte in Italia non si parla d'altro che di elezioni americane, manco fosse il 51° Stato USA.

Secondo me, manco a Porto Rico se ne parla così tanto e da così tanto tempo.

E comunque, in Italia se ne parla più che delle elezioni italiane, e qui già si capisce tutto.

A me Obama sembra simpatico e sveglio.

Anche Clinton sembrava simpatico, anche se un po' meno sveglio, tipo bamboccione.

Poi, per non far parlare di un pompino, ha fatto bombardare, nell'ordine: Jugoslavia, Afghanistan, Iraq.

Con buona pace dell'ex comunista autorinnegante Veltroni, non sta scritto da nessuna parte che i repubblicani americani siano il male ed i democratici americani siano il bene.

La guerra civile americana la iniziò il democratico Buchanan, e la terminò il repubblicano Lincoln. Sappiamo con che risultati e a quale prezzo, ma non importa.

La partecipazione americana alla prima guerra mondiale, alla Grande Guerra la decise e la gestì il democratico Wilson. Sappiamo con che risultati e a quale prezzo, ma non importa.

La guerra in Corea la iniziò il democratico Truman (che fondò anche la NATO, mentre il Patto di Varsavia fu fondato solo nel 1955, come risposta alla NATO, contrariamente a quanto tuttora fa intendere in Occidente la propaganda yankee), e la terminò il repubblicano Eisenhower. Sappiamo con che risultati e a quale prezzo, ma non importa.

La guerra in Vietnam la iniziò il democratico Kennedy, e la terminò il repubblicano Nixon, tanto vituperato - giustamente, ma per altre cose - dalla mia sinistra italiana. Sappiamo con che risultati e a quale prezzo, ma non importa.

La guerra in Jugoslavia la iniziò il democratico Clinton, e la terminò il repubblicano Bush. Sappiamo con che risultati e a quale prezzo, ma non importa.

La guerra in Afghanistan la iniziò il democratico Clinton, ed è tuttora in corso. Sappiamo con che risultati e a quale prezzo, ma non importa.

La guerra in Iraq, iniziata sotto il repubblicano Bush, ha avuto le prime avvisaglie sotto il democratico Clinton. Sappiamo con che risultati e a quale prezzo, ma non importa.

A me fa piacere che sia stato eletto Obama, per carità: che un discendente degli schiavi africani portati con la violenza tra gli indiani da dei fottuti inglesi, ad un fottuto comunista come me può solo far piacere.

Però non dimentico che Obama, ancor prima che negro (o "abbronzato", come dice Berlusconi), è statunitense.

Dunque, lo attendo al varco, alla prova dei fatti.

Attendo che dimostri di non soffrire del complesso di inferiorità a non dover dimostrare di essere troppo di sinistra.

Attendo che mandi fuori le sue truppe da invasore dalla Jugoslavia, dall'Afghanistan, dall'Iraq, che non rompa i coglioni in Iran, che non mostri i muscoli con la Russia, che vada fuori dai coglioni dalla Germania, dal Giappone, dalla Corea, da Bruxelles, dalla Kirgizia, dalla Georgia, dall'Ucraina, dalla Repubblica Ceca, dalla Polonia, dai Paesi Baltici, e soprattutto dall'Italia: da Vicenza, dalla Sardegna, da Comiso, da Anzio.

Poi, dopo - e solo dopo - potremo riparlarne.

venerdì 7 novembre 2008

Cioccolatini

Mussolini diceva che “il giorno che un comunista dice che fuori c’è il sole, e fuori davvero c’è il sole, quel giorno ha ragione anche un comunista”.

Il bailamme scatenato dalla cosiddetta opposizione sulla battuta berlusconiana circa l’abbronzatura di Obama, mi pare davvero una roba da imbecilli. Una battuta del genere poteva farla chiunque di noi, io sicuramente, senza che per questo qualcuno possa accusarmi di razzismo. Posso anche dire che hanno eletto un cioccolatino, come facciamo le battute sulla tirchieria genovese, o sull’arte truffaldina dell’arrangiarsi napoletana, o sull’ignoranza lombarda, eccetera. Piemontese falso e cortese, quante volte l’abbiamo sentita? Meglio un morto in casa che un marchigiano (per qualcuno “un pisano”) fuori dall’uscio. Perché, subito dopo l’unità d’Italia, la maggior parte degli esattori delle tasse (e, tuttora, dei controllori delle ferrovie) erano marchigiani. Quante barzellette sulla tirchieria degli ebrei? E sui gusti sessuali dei marocchini? E i russi tutti ubriaconi, e gli italiani tutti mafiosi.

Battute del cazzo, sono d’accordo, eppure tutti ne facciamo. Altro è che noi non facciamo i presidenti del consiglio. Ma non ne farei un dramma. M’importa ‘na sega, preferirei che l’opposizione proponesse modelli alternativi di governo del Paese. Ed invece, proprio in questo, di argomenti ne sento pochini.

domenica 19 ottobre 2008

Ribellione vo cercando

Alle 17:41 italiane di ieri, sabato 18 ottobre, RAI News 24 lancia sul web una notiziona:

Una cinquantina di soldati russi morti in due imboscate in Inguscezia, il Kremlino che in primo momento parlave di due morti ha confermato la strage e annunciato il lancio di una operazione antiterrorismo nella repubblica caucasica.

La notizia è di quelle da sobbalzare: cinquanta morti?! Naturalmente, comincio a girare tutti i canali televisivi russi satellitari e normali. Niente, non ce n'è traccia. Eh certo, direte voi: Putin e il KGB ha blindato tutta l'informazione... Io vi dico che non è così e non è mai stato così, ma non importa, tanto non vi convinco. Allora però comincio a guardare RAI, Mediaset, e poi, via web, Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, Stampa, Unità... Niente. Blindati anche loro da Putin e dal KGB? Un favore di Berlusconi? Persino l'Unità? Beh, complimenti: se il KGB fosse stato così potente ed efficiente, forse adesso vivremmo meglio. Ma andiamo a vedere i dettagli della velina di RAI News 24:

Gli agguati sono stati riportati dal sito web di opposizione "Ingushetia.org".

Ah, ecco. E' sufficiente mettere su un sito, allocarlo su un qualche registar del New Jersey o di Hudson, nel Wisconsin, oppure di Henderson, nel Nevada (perché così è: Datarealm Internet Services), per guadagnarsi l'onorifico status di "oppositore". Così va il mondo. E, naturalmente, è tutto a stelle e strisce.

Le dichiarazioni di Napolitano

Ciampi è stato decisamente migliore non dico di taluni Presidenti degli anni ’50 e ’60, ma persino dell’epoca recente: 10-100-1000 Ciampi, piuttosto che Kossiga. Per quanto riguarda Napolitano, è da sempre un migliorista, ed un nostro nemico di classe, ma non è assolutamente né un rincoglionito (l’ho conosciuto di persona sia da ragazzo, a Botteghe Oscure, dove lavorava mio padre, sia al Parlamento Europeo, quando Napolitano faceva l’eurodeputato ed io il funzionario, seppure in due gruppi parlamentari diversi), né un disonesto. Semplicemente, non è mai stato nostro, ma non mi pare una gran colpa. Ho visto altri nostri fare attualmente lingua in bocca col nano.

I miglioristi erano la corrente – non dichiarata, perché ufficialmente nel PCI non c’erano correnti – più moderata del Partito Comunista, quella, per intenderci, che faceva l’occhietto al PSI di Craxi.

Detto questo, Napolitano non è mai stato dei “miei”, non ne ho mai condiviso le tesi, ma non mi pare affatto una ragione sufficiente per denigrare “a babbo morto” chicchessia. Io denigro i ladri ed affaristi tra i “loro”, ed i voltagabbana ed affaristi tra gli ex “nostri”. Napolitano non ha mai rubato. E persino Andreotti non ha mai rubato. Ci troviamo ora a rimpiangere gli Andreotti, i La Malfa (Ugo, non Giorgio), i Saragat, i Malagodi, i De Martino ed i Nenni. Addirittura gli Agnelli, Gianni, ovviamente, la nostra bestia nera dell’ottobre 1980.

Flash. Ero segretario di zona della FGCI, a Roma, IX Circoscrizione, la sezione era quella fondata da mio nonno. Una litigata della madonna con Pio La Torre, che per me era il solito burocrate del cazzo, e almeno dentro al Partito non dovevo per forza difendere posizioni indifendibili. E gli oggetti del contendere erano due, entrambi mica cazzatine da poco: la sconfitta operaia con Berlinguer ai cancelli della FIAT, e i missili nucleari Cruise all’aeroporto Magliocco di Comiso, in provincia di Ragusa, dove peraltro io ero già andato a prendere le prime (prime a Comiso, mica in assoluto) mazzate dalla polizia (ed ero stato anche a Mirafiori, se è per questo). In pratica, gli avevo aizzato contro l’intera sezione. Il giorno dopo, incontrando mio padre nei corridoi della sezione esteri di Botteghe Oscure, fece un unico commento: “Certo che tuo figlio è un bel peperino!”.

Nel frattempo, l’allora segretario del PCI in Sicilia, Gianni Parisi, compagno universitario di mio padre a Mosca, aveva chiesto di essere sollevato dall’incarico, a pienissima ragione: viveva blindato da anni, lui e la sua famiglia, suo figlio veniva spesso da noi a Roma per non essere ostaggio delle minacce mafiose al padre. Venne nominato segretario proprio Pio La Torre. Di lì a poche settimane, tornando da un volantinaggio “problematico” (scazzottata con gli autonomi prima, manganellate della celere dopo), ho visto l’inizio del telegiornale dell’ora di pranzo. Chiamai mio padre gridando, e questi non capiva la mia reazione: sullo schermo, l’ennesimo omicidio di mafia, una macchina blu ministeriale, finestrino vicino al guidatore aperto, una gamba della vittima che si sporge dal finestrino. L’ho riconosciuto dalla scarpa e soprattutto dal calzino. Nulla di particolare, eppure, avevo capito ancor prima che venisse pronunciato il nome. Dopo l’attentato a Togliatti, era la prima volta che veniva assassinato un membro della Direzione nazionale del PCI.

Non l’avevo mai denigrato, ci avevo solo litigato, eppure ancora adesso, ad oltre un quarto di secolo, mi rimane l’amaro in bocca, una sorta di senso di colpa.

Stasera, alla trasmissione di Fabio Fazio, c’era Carlo De Benedetti, attuale editore di “Repubblica – L’Espresso”. All’epoca della Olivetti, ci stava sulle balle un po’ a tutti. Ben diverso dalle minacce delle Brigate Rosse, per le quali fece crescere i tre figli in Svizzera (di cui l’anno prossimo acquisirà la cittadinanza), ma tant’è. Ho scoperto un capitalista nel senso puro del termine. Uno “non dei nostri”, appunto, cosa che però non è sufficiente per la denigrazione. Un capitalista che non vede nulla di male nell’accumulazione di capitale di un Bill Gates, ma che trova immorale (parole sue) che gli eventuali figli godano di ricchezze accumulate da generazioni precedenti, decisamente più versatili. Un capitalista che contraddice l’adagio americano per il quale due Paesi in cui esista il Mac Donalds non si faranno mai la guerra: contro questa tesi, cita Russia e Georgia.

martedì 14 ottobre 2008

Il capitale, un furto

Mi è stato segnalato in rete un interessante scritto, "L'oro di carta", di tal Ugo Bardi, che vi riporto per intero, per poi commentarlo.

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Uscendo l'altro giorno dal ristorante, mia moglie mi ha domandato, "ma non ti è parso un po' caro?" "Direi di no," ho risposto, " ci hanno dato da mangiare e in cambio hanno voluto soltanto dei pezzetti di carta colorata". Avrei potuto aggiungere che in certi posti si contentano di avere in cambio un quadratino di plastica, e dopo te lo rendono anche.

Il fatto che si possano ottenere beni e servizi in cambio di pezzetti di carta o di plastica colorata (che poi ti rendono anche) è uno dei tanti misteri di questo pianeta. Una volta, i pezzetti di carta avevano valore in quanto - teoricamente - erano convertibili in oro. Dal 1971, tutto è cambiato quando gli Stati Uniti dichiararono ufficialmente che abbandonavano la convertibilità del dollaro in oro. Da allora, la non convertibilità si è estesa a tutte le monete mondiali anche se, fino a non molto tempo fa, sulle banconote in lire, c'era scritto "pagabili a vista al portatore". Pagabili con cosa? Presumibilmente, con altri pezzi di carta di colore diverso. Oro di carta, evidentemente.

Sembra che il valore reale di una banconota, ovvero costo di produrla, sia di circa 0.3 eurocent; decisamente l'oro di carta è un buon affare per le banche centrali che lo stampano. Ancora meno costa la moneta virtuale; quella delle carte di credito e dei conti in banca che esiste solo in forma di bit; entità magnetiche situate nella memoria di qualche computer che non si sa nemmeno dove sia. L'oro di plastica è un affare ancora migliore per le banche. In compenso, le monete hanno un certo valore intrinseco. Le micromonetine da 1, 2 e 5 centesimi di euro sembrano di rame, ma sono di acciaio placcato e non valgono quasi niente. Più interessanti sono le monete da 10, 20 e 50 centesimi, sono fatte di "nordic gold", ovvero una lega che contiene circa il 90% di rame. La moneta da 10 centesimi contiene circa 4 grammi di rame, al prezzo attuale di circa 3 euro al kg, vale un po' più di un centesimo. Quelle più grosse, da due euro, contengono circa otto grammi e mezzo di una lega di rame-nickel. Ai prezzi attuali, il metallo vale poco più di un paio di centesimi. In tutti i casi, il valore nominale della moneta è enormemente superiore a quello del metallo.

Allora, come mai possiamo ottenere tante cose con dei pezzetti di metallo sopravvalutati, con dei pezzetti di carta colorati, o addirittura con dei bit, entità puramente virtuali che stanno dentro un computer? Forse vi sembra normale che l'oro sia di carta o di plastica.

Ma pensateci un attimo. Nella storia, la gente si scambiava merci e servizi, ma quasi sempre in cambio di qualcosa di reale, beni o servizi. Ti do un cammello in cambio di tre pecore, oppure potevi assumere dei mercenari in cambio di un sacchetto d'oro. Un tempo, in Giappone, gli Shogun coniavano moneta indicizzata in koku un'unità di misura del volume di riso. Si racconta che in certi posti si usassero conchiglie come moneta, ma ho un po' il dubbio che questa sia una storiella che gli indigeni hanno inventato per prendere in giro l'antropologo. Può anche darsi che fosse vero ma, se è vero, le conchiglie dovevano avere un valore di scambio garantito dal capoccia locale in forma di capre, pelli di pescecane, o che altro.

Certo, governi, zecche e falsari hanno sempre teso a imbrogliare "svalutando" la moneta, ovvero producendo monete che valevano meno del loro valore nominale; per esempio usando leghe che contenevano meno oro. Ma quello si sapeva che era un imbroglio. Non credo che sia mai successo nella storia che si stampasse carta dichiarando esplicitamente che non aveva nessun controvalore reale e che la gente la accettasse per moneta "buona". Certo, la propaganda moderna è potente, ma che riesca a far credere alla gente che l'oro è fatto di carta sembra veramente un po' troppo.

Io un'ideuzza ce l'avrei per spiegare l'esistenza dell'oro di carta. Ovvero che i foglietti di carta colorata, in realtà, un controvalore reale ce l'hanno, anche se non viene dichiarato esplicitamente. Pensate un attimo a cosa è successo nell'agosto del 1971, quando Richard Nixon dichiarò ufficialmente la non convertibilità del dollaro in oro. Beh, pochi mesi prima, nel Dicembre del 1970, c'era stato un evento epocale. Talmente epocale che nessuno, o quasi, se ne era accorto: il picco del petrolio degli Stati Uniti. Era epocale perché da allora gli Stati Uniti cessavano di essere energeticamente indipendenti e diventavano importatori di petrolio. Per gestire questa nuova situazione, fu necessario costruire nuove strutture economiche. Fu a quel tempo che nacque quel regime economico che noi chiamiamo "globalizzazione". Bene, io credo che quello che Nixon non disse, ma che era sottinteso, era che da allora il dollaro era convertibile in petrolio e che questa conversione era garantita militarmente dagli Stati Uniti che assicuravano a tutti l'accesso al mercato globale del petrolio; purché lo si pagasse in dollari. E' per questo che mettiamo tanta attenzione su quanti dollari vale un barile. Sembrerebbe che sulle banconote da un dollaro ci dovrebbe essere scritto, più o meno, "pagabile a vista al portatore in petrolio". C'è una ragione per la quale si parla tanto di "oro nero". Legare la moneta all'oro nero, al petrolio, si presta allo stesso imbroglio che tutti quelli che hanno stampato o coniato moneta hanno fatto, ovvero svalutarla. In questo caso, svalutare la moneta vuol dire aumentare la massa monetaria; cosa che si sta facendo da molti anni. Fino ad oggi, questo non ha avuto effetti particolarmente drammatici dato che l'aumento della massa monetaria in circolazione è avvenuto in corrispondenza con aumenti paralleli della produzione petrolifera. Il petrolio ci ha arricchiti, e a questo arricchimento reale ha corrisposto un arricchimento virtuale in termini di una maggior disponibilità monetaria. Ma qui sta cominciando a nascere un problema: il fatto che la base monetaria è esauribile. Negli ultimi anni abbiamo visto una la stasi produttiva mentre la massa monetaria ha continuato a crescere. Di conseguenza, stiamo vedendo una tremenda impennata dell'inflazione che neanche gli imbrogli contabili dei vari istituti di statistica riescono più a mascherare. Con l'imminente declino della produzione petrolifera, vedremo anche il declino rapido e irreversibile del nostro curioso oro di carta.

La moneta virtuale in forma di bit è destinata a scomparire senza lasciare traccia, cancellata dalla memoria dei computer. Le banconote si potranno sempre usare per accendere il camino o la stufa, come si faceva con i marchi tedeschi negli ultimi anni della repubblica di Weimar. Per le carte di credito, non vedo molti usi a parte come sottobicchieri o per pareggiare qualche tavolo traballante. Quelle più pacchiane, quelle dorate o platinate, le si potrebbero forse usare per farne paillettes per i vestiti delle signore. Per le monete, il destino potrebbe essere diverso. Le monetine in acciaio potrebbero essere ottimi bottoni, mentre quelle che contengono rame e nichel potrebbero essere fuse per recuperarne il metallo. Oppure, le monete potrebbero rinascere in una loro vita post-petrolifera circolando con il loro valore reale, in peso di metallo, ben diverso da quello nominale.

Comunque vada, non c'è troppo da prendersela. Il denaro, alla fine dei conti è fatto "della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni". E i sogni, si sa, non durano a lungo.

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Ed ecco il mio commento. Il valore dell’oro è dovuto alla sua disponibilità ed alla difficoltà di estrarlo, alla stregua dell’argento, del nichel, del platino, dell’alluminio, ma, secoli fa, anche del bronzo, del rame, del ferro, del palladio, come giustamente è stato notato, e persino del sale, non solo metalli, quindi. Resta però il problema del perché: in effetti, a parte il sale, tutto il resto non si mangia. Però col bronzo si facevano e col ferro si fanno le armi (quest’ultimo, opportunamente temperato, diventa acciaio). E con le armi ci si fanno le guerre. E le guerre servono per prendere con la forza agli altri le capre, le pelli, la carne, il latte, le case, o più modernamente, ogni prodotto generato dalla forza lavoro altrui; e, in epoca recente (dalla rivoluzione industriale in poi), per costringere la forza lavoro altrui ad acquistare i tuoi prodotti ai prezzi ed alle condizioni favorevoli a te anziché alla forza lavoro degli sconfitti.

Non finisce qui: oggi, col rame ci si fanno i cavi, che servono per ogni sorta di trasmissione, soprattutto (ma non solo) comunicativa. Con l’oro in quantità singole irrisorie ci si fanno i circuiti stampati, ma moltiplicatelo per tutti i circuiti stampati esistenti, ed ovviamente non stiamo parlando solo di computer, ovvero di macchine calcolatrici (“computatrici”, a voler fare i puristi).

Insomma, è vero che non siamo più al baratto, anche perché le merci (pelli, cibo, animali) deperiscono e sono scomode da trasportare, ma in effetti ha del grottesco che ci si metta d’accordo per dei pezzetti di carta colorati, più o meno elaborati (filigrana e quant’altro).

Ricordo due cose di quando ero bambino. La prima. Una volta mio padre, per lavoro, doveva passare una settimana al Club Méditerranée di Terrasini, e mi portò con se. Lì con i soldi si compravano delle palline colorate che si incastravano l’una con l’altra, e ci si facevano collanine e braccialetti. A seconda del colore, variava il loro valore nominale, e ogni pagamento (sdraio, bibite, pasti) veniva effettuato con queste perline da selvaggi.

La seconda. A Mosca, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, vicino casa mia la sera di ogni festa comandata i militari facevano i fuochi d’artificio. Anche questi constano in una specie di ordigni, e, come ogni ordigno che si rispetti, una volta “sparati”, lasciavano sul terreno i bossoli e dei cerchietti di ottone, di colore diverso a seconda del colore del fuoco d’artificio. Noi ragazzi, coi militari che cercavano di cacciarci (era pericoloso), raccoglievamo questi cerchietti. A seconda del loro colore, per gioco, gli assegnavamo un diverso valore, e li usavamo come nostra “divisa valutaria”, all’interno del nostro gruppetto, tipo “I ragazzi della via Pal”.

Ecco, penso di poter rispondere in questo modo alla domanda su come dei cerchietti qualcuno abbia deciso che assumano un valore nominale superiore alla loro difficoltà di estrazione e “formattazione”.

Personalmente, sono un cultore dei soldi trasformati in bit. Io non produco materiali tangibili: io parlo. Grazie al mio parlare, altre persone che parlano in modi (lingue) diversi riescono a capirsi. Per questo servizio, periodicamente mi viene comunicato che sul mio conto bancario sono stati bonificati, accreditati dei numeri, rubli, euro o quant’altro. Io, via computer (nei cui circuiti stampati c’è dell’oro) ordino cose del tutto tangibili, quali pappine per bambini, acqua, pane, latte, carne, vino, cibo insomma. Il cibo viene portato direttamente a casa, e per questo una parte di quei numeri viene detratta dal mio conto. In altre parole, la cartamoneta non la vedo proprio.

Il giochino funziona e funzionerà solo finché siamo tutti d’accordo ad assegnare un valore convenzionale ai bit. Francamente, non mi dispiace: i traduttori esistono da quando l’uomo ha iniziato a viaggiare ed a guerreggiare, ma venivano pagati in pelle, talvolta in terreni, sui quali dedicarsi alla pastorizia ed alla coltivazione. In nuce, la disgrazia umana è sempre stata insita nei pochi che non producono nulla e che ciò nonostante accumulavano valori convenzionali: monarchi, cesari, signorotti vari. Per questo mi ritengo marxista: l’accumulazione, dunque la giacenza inutilizzata, è un furto, perché il proprietario non ne fruisce, ma non consente di trarne giovamento a chi non ne ha. Ricominciamo da qui, e forse troviamo il bandolo della matassa di questa crisi attuale, che giustamente in Russia viene chiamata “crisi finanziaria di carta”, in contrapposizione all’economia della produzione reale.

lunedì 13 ottobre 2008

Nobel alla faziosità

Ascoltando i servizi dei mass-media russi sui premi Nobel in tutte le nominazioni (le nomination le lascio ai cultori degli invasori anglofoni nel continente indio), quello che fondamentalmente si evinceva, è il rammarico e la stizza per la totale assenza di russi. Insomma, sembrerebbe che sia una critica del tutto provinciale.

Per una volta, tralascio la mia opinione personale in merito. Però, vorrei che si facesse caso ad alcuni argomenti portati a supporto della tesi per la quale questa premiazione non abbia alcun senso, o, quantomeno, nessuna giustificazione. E non sto pensando nemmeno al fatto che il Nobel per la pace, che tradizionalmente veniva assegnato per aver messo d’accordo parti combattenti tra loro, è stato invece conferito ad un architetto finlandese del riconoscimento del Kosovo, ex presidente del suo Paese. E stiamo parlando di circa un milione di euro.

Complessivamente, stiamo parlando di quattro giapponesi (di cui uno vive negli Stati Uniti), tre statunitensi, due francesi ed un tedesco (chi fossero i candidati, si saprà solo tra cinquant’anni). In totale, dal 1901 (quando fu istituito il premio), i russi sono stati solo 19. Pavlov fu il primo, nel 1908, ma siamo ancora nella Russia zarista.

Tolstoj, Blok, Čechov, non ebbero mai (sottolineo: mai, nemmeno postumo) tale premio per la letteratura. E non ritengo di dover spendere qui nulla circa il loro valore. Pure, il premio esisteva già.

Gli scrittori russi che si videro assegnato il premio, vivevano da anni, decenni, in Occidente: Bunin (1933, viveva in Francia), Brodskij (1987, viveva da 16 anni negli USA e scriveva poesie in inglese), Solženicyn.

Quello che pochissimi sanno, e quei pochi si guardano bene dal rilevarlo, è che, nonostante il premio ufficialmente sia svedese, esso consiste in una remunerazione pecuniaria che è parte del patrimonio del Fondo. Solo che gli introiti derivano dagli investimenti del Fondo stesso nei Fondi statunitensi, nella sua stragrande maggioranza. Può il premio Nobel essere considerato svedese (?) e perciò “obiettivo”? Un proverbio russo dice che, nei ristoranti, chi paga, ordina la musica…

lunedì 6 ottobre 2008

Fregnacce

Fin da piccolo, ho sempre avuto una naturale predisposizione per la matematica, nel senso più puro del termine, o piuttosto per i numeri.

Avevo circa due anni e mezzo, quando per settimane me ne sono stato seduto per terra a studiare il centimetro da sarto. A un certo punto, venne a trovare mio padre a Roma un amico di famiglia, un fisico ceco (nel senso di Cecoslovacchia: lo so che a molti non entra in testa che il “non vedente” è cieco, non ceco). Con la sicumera tipica dell’infanzia – ma qualcuno non se ne libera manco da adulto – gli comunicai di sapere fare qualunque addizione e sottrazione. Visti i suoi sorrisi comprensivi e compassionevoli, insistetti. Va beh, disse, quanto fa sette più cinque? …Dodici, risposi. Troppo facile. Quarantatré più trentotto? Rotelle in fibrillazione… ottantuno. In pratica, non sapevo né leggere, né scrivere, e non conoscevo le moltiplicazioni e le divisioni, ma potevo fare ogni addizione e sottrazione… fino a centodieci, perché è a questo numero che arrivava il centimetro che avevo pazientemente studiato.

Negli anni, a scuola, sia a Mosca che a Roma, fui sempre considerato l’asso della matematica nella mia classe, ed era anche l’unica materia, assieme al francese, in cui eccellevo, per il resto un disastro.

Agli inizi di settembre di quest’anno, prima di rientrare da Roma a Mosca, siamo riusciti a vederci con mio padre. Casualmente, ci siamo cimentati in un dialogo che aveva del surreale. Stavo ultimando alcune traduzioni per un catalogo fieristico. Molte aziende italiane, che avevano ricevuto per posta elettronica il modulo da riempire in italiano in formato word, anziché riempirlo, salvarlo e rispedirlo, lo hanno invece stampato, riempito a mano, scannerizzato e quindi rimandato in formato jpg. Fin lì, passi. Solo che quasi la metà di queste aziende, alla voce “indirizzo”, ha indicato la via ed il numero civico, senza CAP e città. Come dire: “Via Nazionale, 7” e basta. O, al limite, città senza provincia. Non sto qui a discettare sulla superficialità italica, per la quale ancora non capisco come facciamo ad essere così apprezzati sui mercati esteri. Ma quel che a quel punto ho fatto notare a mio padre, è che, per fortuna, ho la testa piena di informazioni perfettamente inutili, quali, ad esempio, tutte le sigle di capoluoghi di provincia e buona parte dei prefissi telefonici d’Italia. Che so io, “Via Nazionale, 7”, nome di cittadina di duemila anime e telefono che inizia per 045, sicuramente la ditta si trova in provincia di Verona. Meglio che niente. Mio padre, incredulo, si alzò ed andò a consultare la Treccani. Ovviamente, avevo ragione.

Da questo episodio, ne scaturì un ragionamento più generale. Credo che ogni persona adulta ed istruita sappia un minimo fare di conto, per esempio sette alla seconda, undici alla seconda, eccetera. Io però, entro certe grandezze, non ne ho bisogno. Voglio dire: 4, 9, 16, 25, 36, 49, 64, 81, 100, 121, 144, 169, 196, 225, 256, 289, 324, 361, sono tutte potenze quadre che so a memoria, non debbo calcolarle. Un kilobyte è pari a 1.024 bytes (e non a 1.000, come di solito si dice), un megabyte corrisponde a 1.024 kilobytes, un gigabyte a 1.024 megabytes, perché 1.024 altro non è che due alla decima: 2, 4, 8, 16, 32, 64, 128, 256, 512, 1.024, 2.048, 4.096, 8.192, 16.384, 32.768, 65.536. A che serve? A niente. Eppure, stanno lì, ad occupare inutilmente alcune cellule del mio cervello. Ed il cervello umano è come il cestino di Windows: quanto che sia grande, una volta pieno, cancella le informazioni più vecchie, indipendentemente dalla loro importanza.

Ecco la ragione del titolo di questo mio scritto: il commento di mio padre è stato “figlio mio, quante fregnacce che hai in testa”. Ed ha perfettamente ragione. Però, di gente che dice un sacco di fregnacce è pieno il mondo, e non sanno manco quanto faccia diciassette alla seconda. Tanto vale saperlo, a parità di fregnacce…

venerdì 3 ottobre 2008

Siamo numeri

Leggo, sento alla radio e vedo in tv stamane che ieri in Italia c'è stata l'ennesima mattanza quotidiana di morti bianche sul lavoro: stavolta sono sei persone. Sei operai, sei sfigati, disgraziati, sei nuovi proletari. Allora, visto che come recita il titolo di questo articolo, siamo meri numeri, null'altro, ai fini della storia e della statistica, usiamoli, i numeri.

Gli infortuni si attestano attorno ad 1 milione di eventi l’anno; gli infortuni mortali oscillano tra i 1.400 e i 1.500. Fonte: CGIL. Sì, capisco, i soliti comunisti, direbbero Berlusconi e la Marcegaglia, presso le fabbriche della quale, ultimamente, sembra quasi una mortale epidemia, peggio della lebbra o della peste. Siamo sui 4 (quattro) morti al dì. O, se preferite, sui 120 morti al mese.

Poi ci sono gli incidenti stradali, soprattutto nelle nottate di venerdì, sabato e domenica. Particolarmente odiosi sono quelli dell'alba del lunedì, quando gli ultimi figli di papà impasticcati lasciano le discoteche del profondo Nord e si sfracellano contro i primi operai padri di famiglia che si erano già incamminati alla volta del loro luogo di lavoro, perché i soldi son sempre pochi. Ogni giorno in Italia si verificano in media 652 incidenti stradali, che provocano la morte di 16 persone e il ferimento di altre 912. Sedici persone ogni giorno. Mezzo migliaio al mese. Fonte: quel covo sovversivo di comunisti che è l'ISTAT.

In Italia, i voli continuano a costare più dei treni, nonostante i low cost. Mediamente, in un aereo ci sono un centinaio di passeggeri. Ecco: la prossima volta che a voi, che non siete operai e non andate in discoteca, vi dicono che volare è pericoloso, ricordatevi che in Italia è come se ogni mese (ogni mese) cadesse un aereo di operai e cinque aerei di automobilisti.

giovedì 2 ottobre 2008

Corrado Augias - Le storie

Gentile dott. Augias,

sono un italiano residente all’estero, in Russia, per la precisione. Guardo con molto interesse, quando posso, la Sua trasmissione, apprezzando molto la Sua precisione, cura, attenzione, rispetto nei confronti della lingua italiana. Nella puntata N°32, che ho visto sabato 27 settembre su RAItalia, Lei ha chiesto, giustamente, ad una sua collaboratrice, Cristina (che Lei ha presentato come “praticamente russa”: in effetti, aveva un leggero accento slavo, ma molto più era evidente l’accento romano), se si dicesse:

  1. Kòssovo o Kossòvo;

  2. Ucràina o Ucraìna.

La collaboratrice in questione ha affermato, senza nemmeno tentennare:

  1. Kossòvo, perché così si dice in russo;

  2. Per diretta conseguenza, Ucràina o Ucraìna indifferentemente, sempre perché – si suppone – così è in russo.

Il sottoscritto non è solo residente in Russia: ho vissuto in Italia 27 anni su 46 (collaborando anche con la RAI, ad esempio, ma non solo, con RAI 3 nel periodo del golpe in URSS del 1991), ho iniziato la scuola a Mosca e l’ho terminata a Roma, ma soprattutto faccio l’interprete da 30 anni esatti. Per tutto ciò mi permetto di farLe notare che:

  1. In russo si dice esclusivamente Ukraìna, mentre in italiano si dice e si scrive Ucraìna, non Ucràina, mentre ucràini sono gli abitanti di tale Paese, sempre in italiano. Il tutto rigorosamente con la “c”, essendo un Paese noto fin dai tempi, relativamente recenti, in cui Paesi e città si “traducevano”, per cui Lei si reca a Londra e non a London, ed a Mosca e non a Moskva, a Ragusa e non a Dubrovnik, ma a Ekaterinburg e non a Caterinburgo. Fin qui, una questione linguistica;

  2. In russo, ed in tutte le lingue slave in genere, si dice Kòsovo (con una “s”) e non Kossòvo, che invece è il nome imposto dagli Stati Uniti in seno all’ONU perché tale è la sua dizione in albanese. E qui, invece, è una questione squisitamente politica.

Dispiace avere assistito a questo scivolone di superficialità che, sono convinto, è del tutto episodico e non potrà diventare una regola della Sua apprezzabile trasmissione.

giovedì 25 settembre 2008

Costituente per la sinistra

Le mie risposte non possono essere sempre puntuali, vi chiedo di tenerlo in considerazione: ad esempio, voi ieri eravate a cena, mentre il sottoscritto andava a letto; viceversa, io ho già finito la lettura dei giornali e ho iniziato a lavorare, mentre voi probabilmente state prendendo a pugni la sveglia, bestemmiate scivolando nella vasca o ustionandovi con la moka.

Veniamo alla parte politica. E cominciamo con Occhetto. Nel '68, era segretario della FGCI, che contava mezzo milione di iscritti. Ebbe la geniale idea di sciogliere la FGCI nel Movimento. Quando, durante l'autunno caldo del '69, il PCI comprese l'errore e la ricostituì, il danno era fatto, si arrivo ad appena 140.000. Occhetto, per punizione, venne mandato a fare il segretario regionale del PCI in Sicilia. Bella fesseria, anche questa: per lui, piemontese, era certo una punizione, ma perché punire i compagni siciliani?

Ricordo un bel libro (bello nel senso che si doveva capire subito dove volevano andare a parare), "A dieci anni dal '68", intervista di Walter Veltroni ad Achille Occhetto. Era tutto un parlare di socialismo.

Nel '91, eravamo in piena Tangentopoli. Finalmente crollava la Balena Bianca, insieme all'altra Banda Bassotti, quella del PSI. In pratica, era la prova provata di tutto quello che il PCI aveva detto per decenni. Ed erano crollati anche il muro di Berlino e l'URSS. In pratica, era anch'essa la prova provata di tutto quello che il PCI aveva detto dalla Primavera di Praga in poi.

E il nostro Occhetto? Immaginandosi una sorta di Gorbačëv mediterraneo, solo un po' più sfigato, che fa, pur di entrare nella storia? Scioglie il PCI. Quando ci si accorge della cazzata, anche stavolta, è troppo tardi: PDS e MRC (di cui sono stato uno dei fondatori, dal Brancaccio, per intenderci) raccolgono insieme metà dei voti ed un quarto degli iscritti del PCI.

Insomma, Occhetto non è che porti sfiga: è corrosivo, nel senso che quel che tocca, scioglie.

Veniamo a Vendola. Lo ricordo segretario della FGCI barese, all'inizio degli anni '80. Bari, per quanto importante, è pur sempre un capoluogo di regione, non tutta la nazione. Eppure, meritò sull'organo settimanale della FGCI, "La Città Futura", direttore Ferdinando Adornato (!!!), un'intervista di due pagine. Nulla del genere per il segretario di Torino, Piero Fassino, o per quello di Milano prima di diventare segretario nazionale, Marco Fumagalli, o per quanti si avvicendarono a Roma, Goffredo Bettini, Carlo Leoni, Maurizio Sandri, Nicola Zingaretti (e, in quegli anni, in segreteria a Roma c'era anche, come responsabile del servizio d'ordine, Norberto Natali, che ricorderete in galera pochi anni fa con l'accusa – falsa! – di terrorismo). La ragione? Beh, ricordate "Palombella Rossa" di Nanni Moretti? Noi siamo diversi, ma siamo uguali, ma siamo diversi, ma siamo uguali, ma siamo diversi, mamma, portami a casa! Vendola, per ingraziarsi i "gruppettari" (li chiamavamo così), portava il "chiodo", con le borchie ed una vistosa piuma color giallo canarino nell'occhiello, ma soprattutto... E' omosessuale.

Per me, finché si tratta di esseri umani, adulti, maggiorenni e consenzienti, ciascuno può farlo come gli pare e con chi gli pare. Non ne ho mai fatto e non ne faccio una bandiera. Analogamente, detesto chi, essendo donna, parla solo delle problematiche femminili e femministe, essendo negro (che in spagnolo vuol dire "nero": i colorati siamo noi "bianchi", che diventiamo blu per il freddo, verdi per avvelenamento, rossi per la vergogna) parla solo di razzismo, essendo operaio parla solo di sindacato e di contratti. E' un'auto ghettizzazione.

Qui sono già le nove del mattino, devo lavorare, anche se vorrei dire ancora molte cose. Concludo però con un paio di considerazioni. La prima è che l'assise per la costituente della sinistra, svoltasi a Roma il 20 settembre, mi è sembrata un raduno di trombati dei congressi dei rispettivi Partiti. E se a quello del PRC avesse vinto Vendola, all'assise sicuramente avrebbe partecipato Ferrero. Quel Ferrero che era segretario della FGEI, ovvero della Federazione Giovanile Evangelica Italiana. Ed io sono ateo e manco battezzato, per cui detesto anche chi porta le proprie impostazioni religiose tra le file comuniste. Sono marxista, che volete farci, l'oppio dei popoli continua ad essere quello delle credenze, le più variegate.

La seconda è che, una costituente per la sinistra vera, deve essere un progetto alternativo, "Nuova sinistra", appunto, che deve ripartire da zero e mandare ramengo i tromboni e i trombati. E cosa ti trovo? Una serie di truppe cammellate che continuano a tirarsi tra loro una coperta che comunque resta troppo corta, anziché cercare di tessere la tela assieme. Sì, lo so che "truppe cammellate" è offensivo, ma una rosa è una rosa è una rosa, e quelli che si spargono in ogni dove per portare il verbo del vate di turno restano truppe cammellate, le parole hanno un senso…

venerdì 19 settembre 2008

E la borsa (russa) e la vita

In merito alla chiusura per un paio di giorni della borsa russa, qui hanno deciso di far raffreddare i cervelli ai brokers, prima di riaprire, proprio ad evitare storiacce tipo 17 agosto 1998. E tutto il Paese, da governo ad opposizione, passando per il popolino, è d’accordo. In Occidente fanno in altro modo? Chi se ne frega, anche perché spesso, nella storia, se ne sono visti i risultati.

A questo aggiungiamo che, alla riapertura, lo Stato ha fornito alle tre principali banche centrali mezzo trilione di rubli (quattordici miliardi di euro), affinché a loro volta possano garantire che nessuna delle banche minori faccia bancarotta e che possa diffondersi il panico con effetto a macchia d’olio. Qui per ora tutto bene (e speriamo meglio).

A differenza del decennio alcolico (El’cin), in Russia è gradito che esista la borsa, ma se non c’è – nessuno piange, ed il Paese va avanti lo stesso. Un po’ come per la OMC: entrarci, eviterebbe un sacco di scartoffie doganali tra Russia ed UE, tra Russia ed Occidente in genere; ma se la signora Rice non gradisce, qui nessuno si strappa i capelli, il Paese è autosufficiente anche senza OMC.

Autarchia? Beh, in un Paese che ha tutta (tutta!) la tabella di Mendeleev a disposizione, non sarebbe un dramma. Sarà per questo che, periodicamente, al Congresso USA, si trova il russofobo di turno che afferma che bisognerebbe ridiscutere l’appartenenza della Siberia (sic!) alla Russia?

Vedrete, nelle prossime settimane, che casino scoppierà sui confini territoriali russi nel circolo polare artico! E non sto scherzando: il riscaldamento globale sta portando allo scoperto risorse prima inimmaginabili...

giovedì 11 settembre 2008

Unità nuova?

La "striscia rossa" dell'Unità di oggi, 11 settembre 2008, riporta la seguente dichiarazione: "Sono presidente del Consiglio di un Paese molto solido, con alto livello di vita e di benessere. Possediamo il 72% del catalogo delle opere d’arte e di cultura d’Europa, il 50% di quelle mondiali, abbiamo 100.000 tra chiese e case storiche. Siamo il Paese che ha la squadra campione del mondo di calcio. Siamo il Paese del sorriso e della gioia di vivere". Silvio Berlusconi, Ansa 10 settembre. Bene, dico io. E l'immagine qui a sinistra che c'entra? Non saprei. Provate a chiederlo a Concita De Gregorio...

domenica 7 settembre 2008

In memoria di Enrico Berlinguer

Leonid Popov, "Slavia" N°2 2008

L'articolo che qui pubblichiamo per gentile concessione dell'autore è apparso in russo, con qualche abbreviazione, nella Nezavisimaja gazeta di Mosca l'11 giugno 1994, in occasione del decennale della morte del leader comunista italiano. Leonid Popov ha il titolo accademico di kandidat ekonomičeskich nauk, ha lavorato per moltissimi anni presso l'ambasciata dell'URSS a Roma e poi presso il Comitato Centrale del PCUS, e in varie e numerose occasioni ha tradotto gli incontri e i colloqui di Enrico Berlinguer con dirigenti e delegazioni del PCUS.

Il tempo bizzarro scorre veloce e spietato. Si allontanano nel passato personaggi che ancora poco tempo fa sembrava esercitassero un'enorme influenza sulla politica, sulla formazione della coscienza di massa e – in una certa misura – sulla cultura nazionale di questo o quel paese.

Esattamente dieci anni fa, l'11 giugno 1984, è scomparso il segretario generale del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer, un uomo le cui idee politiche hanno influito notevolmente sulle menti degli uomini in Italia e in una serie di altri paesi dell'Europa occidentale, ma che non sono state apprezzate secondo il loro giusto valore né da noi in Russia né nei paesi dell'Europa orientale. Berlinguer è morto, come avrebbero detto un tempo, «sul suo posto di combattimento»: l'emorragia cerebrale lo colpì durante un comizio elettorale. Poche settimane prima della sua fine Berlinguer aveva compiuto 62 anni. La sua azione politica come vicesegretario e poi come segretario generale ha costituito una tappa importantissima, dal 1969 al 1984, nella storia del Partito Comunista Italiano, una tappa durante la quale il PCI ha imboccato definitivamente la via di uno sviluppo completamente autonomo, tagliando il «cordone ombelicale» che lo teneva legato a un approccio da partito «postcomintern» (se poi questo sia stato del tutto un bene o del tutto un male, resta una questione in discussione) e ha scelto di essere una forza al servizio di tutta la nazione, una forza che esprimeva (e difendeva) gli interessi non soltanto delle masse lavoratrici, ma della stragrande maggioranza della popolazione. Alcuni risultati – il 34,4% dei voti alle elezioni politiche del 1976 e il 33,3 % alle elezioni del Parlamento europeo nel 1984, – ci dicono che non tutto nella linea dei compagni italiani era «sbagliato», tutt'altro.

Forse è per questo che in qualche punto, nel profondo dell'animo, probabilmente là dove nell'uomo nascono l'intuito e la coscienza, la capacità di prevedere e di essere consapevoli, sorge in noi una strana sensazione. Non si tratta di un senso di colpa e non è una spinta all'autoanalisi. Più probabilmente si tratta di rimpianto, di rammarico. Rammarico per ciò che a suo tempo non è stato fatto, riconosciuto, percepito. Rammarico perché le forze di sinistra in Europa avrebbero potuto comportarsi diversamente (ma non lo fecero), perché la storia avrebbe potuto imboccare una via diversa. Rammarico perché in nome di una linea di principio erroneamente intesa sono stati commessi troppi errori, e non soltanto da parte nostra.

Ma questo articolo non vuole essere la risposta ad emozioni nostalgiche nel campo della politica. E' una riflessione sulle posizioni politiche ed etiche di Enrico Berlinguer, sul ruolo politico da lui svolto soprattutto in Europa, senza del quale è inconcepibile la moderna politologia, è impossibile capire a fondo i problemi del movimento di sinistra nel nostro continente negli anni Sessanta-Ottanta.

L'autore di queste righe ha già avuto modo di scrivere che le forze di sinistra, socialiste europee, e anche il PCUS, hanno perduto molto a causa dell'ingiustizia storica costituita dalla prematura fine di Enrico Berlinguer, sopravvenuta nel 1984. Non ci sono più stati incontri tra Berlinguer e Gorbačëv, non c'è stato quel dibattito fecondo che avrebbe potuto influenzare le posizioni degli interlocutori e dei partiti, provocando in definitiva seri fallimenti nella politica della sinistra sul continente. Tutte cose, mi si passi l'azzardo, che avrebbero persino potuto scongiurare alcuni dei grandi errori della perestrojka, quelli che alla fine l'hanno portata al fallimento.

Naturalmente, bisogna subito premettere che le idee politiche formulate da Berlinguer negli anni 70-80 contenevano un'analisi delle situazioni storiche concrete di quegli anni e che non solo non sono trasferibili sul terreno della Russia, dell'Austria, dell'Ungheria, della Romania ecc., ma che non sono applicabili – nella loro formulazione originaria – neanche all'Italia della metà degli anni Novanta. Ciò nondimeno, esse sono attuali. Attuali perché rappresentano l'esempio di un metodo dialettico di analisi politica che ha sottoposto a critica (in senso filosofico e non giornalistico) la realtà concreta, proponendo nuove vie d'uscita dalle nuove situazioni.

Un chiaro esempio di questa metodologia è stata l'idea del «compromesso storico», elaborata e formulata da Berlinguer nel settembre 1973 in seguito ai tragici avvenimenti cileni, un concetto che, ad essere franchi, non è stato ben capito non soltanto all'estero, ma neppure nella stessa Italia. Politologi e giornalisti italiani hanno spesso sostenuto che il «compromesso storico» non era altro che un tentativo di accordo di vertice tra comunisti e democristiani alle spalle delle masse per arrivare al governo.

Il senso e il contenuto della strategia del «compromesso storico» così come formulata da Berlinguer sono molto più profondi.

Secondo la concezione di Berlinguer il «compromesso storico» voleva essere la linea strategica del PCI nelle condizioni dell'Italia, una linea di lungo periodo per il passaggio graduale al socialismo, affinché nei rapporti di produzione, nella distribuzione dei redditi e nei consumi – attraverso la trasformazione e la programmazione dei principali settori dell'economia e grazie alla crescita della democrazia anche nella natura del potere – si affermassero gradualmente nuove tendenze che avrebbero introdotto alcuni elementi propri del socialismo nelle strutture generali e nel funzionamento della società. Non si trattava dunque di considerare la costruzione di una società socialista come obiettivo immediato, giacché per questo non v'erano alcune delle principali condizioni di carattere interno e internazionale, ma di attuare provvedimenti e passi di tipo socialista. A questo proposito possiamo aggiungere che, nelle condizioni italiane, il discorso avrebbe potuto riguardare una ulteriore avanzata negli enti locali governati dalle sinistre, un ulteriore progresso di altri «elementi di socialismo».

Nel campo della politica interna avevano acquistato un valore primario i rapporti dei comunisti con le altre due maggiori forze politiche del paese, i socialisti e i cattolici, che esercitavano una notevole influenza sulle masse popolari, tra gli strati proletari e non proletari della popolazione. La strategia del «compromesso storico» significava appunto il compromesso tra comunisti, socialisti e cattolici, un'alternativa non «di sinistra», ma «democratica» al sistema di potere esistente, una prospettiva politica di collaborazione e accordi tra le masse popolari schierate su posizioni comuniste e socialiste e quelle di orientamento cattolico.

In altri termini, questa strategia significava voler introdurre «elementi di socialismo» nella società italiana, nel suo sistema democratico-borghese. Ciò si sarebbe realizzato attraverso accordi e intese tra comunisti, socialisti e cattolici allo scopo di attuare per via pacifica graduali, coerenti trasformazioni in senso socialista.

Nella seconda metà degli anni Settanta suscitò clamorose, accanite discussioni, a volte al di là delle buone regole, il termine eurocomunismo, che 17 o 18 anni fa non ottenne una definizione precisa e venne – e in parte ancora viene – inteso in modo ambiguo, anzi doppiamente ambiguo. Ricordiamo che Enrico Berlinguer non fu l'unico «padre» dell'eurocomunismo e che oltre a lui di padri ce ne furono altri due: Santiago Carrillo, segretario generale del Partito comunista spagnolo, e – parzialmente – Georges Marchais, segretario generale del Partito comunista francese.

Propriamente, l'eurocomunismo non è stato un concetto ben definito. Fu più che altro un tentativo dei tre maggiori partiti comunisti dell'Europa occidentale di compiere passi pratici (a volte congiuntamente, più spesso singolarmente) intesi a sviluppare ulteriormente il processo di trasformazioni democratiche in corso nel continente, che stava procedendo velocemente sulla via dell'integrazione.

L'eurocomunismo è stato uno dei primi, importanti tentativi delle sinistre del continente di tenere conto delle nuove, specifiche particolarità dell'evoluzione politica, economica e sociale dei paesi della regione nelle condizioni dell'integrazione, un tentativo per trovare le risposte ai problemi del tutto nuovi che si ponevano davanti alle forze di sinistra europee nella seconda metà degli anni Settanta, un tentativo per trovare una nuova via al socialismo nelle condizioni specifiche dell'Europa occidentale.

Le risposte a queste questioni furono: la rinuncia alla dittatura del proletariato, il riconoscimento del valore universale della democrazia, dei principi del pluralismo politico e dell'economia mista, una decisa critica all'indirizzo del «socialismo reale» ecc.

Partendo dalla critica al «socialismo reale», dall'analisi della situazione internazionale e della situazione nei paesi del campo socialista, gli autori dell'eurocomunismo gettarono un ponte verso una nuova idea, l'idea di una «terza via» al socialismo, una via che rifiutava il modello esistente di socialismo «dogmatico» ma neanche faceva propria l'esperienza della socialdemocrazia a causa della sua «insufficienza organica».

Nei paesi socialisti, osservò Berlinguer nel suo intervento al Comitato Centrale del PCI del marzo 1979, invece della realtà, invece di una prassi trasformatrice e creativa basata sui nuovi fatti e sulle nuove idee, si è fatta avanti un'ideologia, più esattamente una specie di «credo ideologico» nella forma del cosiddetto «marxismo-leninismo», inteso come un corpo dottrinario fossilizzato, qualcosa quasi di ordine metafisico, un insieme di formule che dovevano giustificare e garantire quel tipo di struttura politico-economica, quel modello universalmente valido a cui i diversi soggetti e le varie realtà sociali dovevano adattarsi e dove il partito, in virtù di un principio che non poteva essere messo in dubbio, doveva attuare o imporre la propria linea.

Sulla base di un'analisi della realtà politica e socioeconomica di quegli anni nei paesi socialisti, la direzione del PCI giunse a queste conclusioni:

1. La rivoluzione d'ottobre aveva esaurito la sua spinta propulsiva.

2. La via percorsa dall'Unione Sovietica dopo il 1917 non era adatta ai paesi capitalistici avanzati.

3. Non erano accettabili, «trasferibili» sul terreno dell'Europa occidentale i regimi sorti sulla base del modello sovietico.

4. In una serie di paesi dell'Europa orientale tali regimi erano in crisi.

Di qui fu tratta la conclusione della necessità di una «terza fase» nella lotta per il socialismo che avrebbe comportato «il superamento dell'esperienza socialdemocratica e al tempo stesso la non applicabilità del «modello sovietico» in Italia e in altri paesi dell'Europa occidentale.

A questo riguardo riportiamo anche il giudizio sulla socialdemocrazia:

«I partiti socialdemocratici, – disse Berlinguer, – grazie a un certo spazio di manovra creato dal funzionamento dei meccanismi del sistema capitalistico, hanno realizzato determinate riforme sociali in conseguenza delle quali è cresciuto il tenore di vita delle masse lavoratrici. Ma noi parliamo dell'insufficienza organica della soluzione socialdemocratica in quanto essa, nonostante le conquiste e i miglioramenti, non rappresenta un superamento del capitalismo. Tanto più che ci troviamo di fronte a una crisi del capitalismo che investe le basi materiali su cui nei grandi centri è cresciuta l'influenza della socialdemocrazia come espressione di quello strato delle masse lavoratrici che Lenin definì "aristocrazia operaia"». Di qui la conclusione che fosse necessario «esplorare», «ricercare» nuove vie al socialismo, di qui la necessità di una «terza via».

Guardando retrospettivamente all'eurocomunismo e in una certa misura anche all'idea della terza via non dobbiamo dimenticare che nel formulare queste proposte i leader dei tre partiti comunisti europei si basavano su una valutazione obiettiva della situazione nell'Europa occidentale della seconda metà degli anni Settanta, sull'analisi dei mutamenti avvenuti negli anni Sessanta e Settanta in campo economico, nella struttura sociale, nelle tattiche di lotta e nei rapporti di forza sull'arena internazionale.

L'analisi di un mondo che era in continuo cambiamento, delle nuove condizioni storiche concrete in Italia, in Europa e in tutta la Terra, consentì a Enrico Berlinguer di avanzare nuove idee politiche a volte assolutamente sorprendenti, di gettare uno sguardo – magari soltanto parziale, sulla base di quell'intuito che è proprio degli italiani e dei loro leader politici – sul futuro, di indovinarne i contorni, di capire quali potessero esserne le forze trainanti.

Ricordiamo tra queste l'idea del «governo globale», una previsione abbastanza chiara della grave situazione ambientale della Terra. Berlinguer colse la necessità per il PCI di trasformarsi in una forza democratica nazionale di sinistra (trasformazione compiuta sei anni dopo la morte di Berlinguer dal nuovo segretario generale Achille Occhetto). Tra le decisioni adottate da Berlinguer ci fu quella di far aderire il PCI all'Internazionale socialista, quella di ristabilire i rapporti con il Partito comunista cinese, ecc.

Commise errori Enrico Berlinguer nelle sue valutazioni, idee, proposte? Certo, ne commise. Ma furono errori di un politico di talento, che non potevano e non hanno potuto cancellare l'importanza e la profondità della partitura della sua azione politica.

Dopo tutto, errori ne hanno commessi Beethoven e Verdi, Shakespeare e Tolstoj, Croce ed Engels. Ci sono opere incompiute di Leonardo e di Raffaello, di Aristotele Fioravanti e Andrea Palladio. Ma non per questo sono stati meno grandi.

Ovviamente, questo articolo non vuole essere un panegirico a Berlinguer, un tentativo di collocarlo tra i classici. Come si suol dire, «Date a Dio quel che è di Dio, ecc.».

Su una cosa però non ci sono dubbi, ed è che Enrico Berlinguer cercò costantemente di perfezionare l'idea del socialismo, cercò una via per avanzare verso il socialismo nelle condizioni molto specifiche dell'Europa occidentale e persino, in un certo senso, una via di uscita dal vicolo cieco in cui egli avvertiva intuitivamente che il cosiddetto «modello amministrativo di comando» avrebbe potuto cacciare il socialismo.

Oggi mi si potrebbe obiettare: che senso ha rivangare il passato, tanto più che l'idea del socialismo ha perduto la sua forza di attrazione, ha cessato di essere, come si diceva un tempo, la «stella polare» di milioni di persone? Mi permetto di dissentire da tale opinione.

La riproduzione dei rapporti sociali nei paesi dell'ex campo socialista (e particolarmente in Russia) procede sulla via di un capitalismo abbastanza strano e inevitabilmente porterà a una stratificazione molto complessa della società, alla nascita di gruppi e ceti sociali di cui oggi è impossibile prevedere gli atteggiamenti. Ma è abbastanza chiaro che l'alienazione sociale e soprattutto economica dell'uomo del lavoro, del produttore diretto, quell'alienazione per la cui «abolizione» si sono attivamente (e, aggiungo, giustamente) battuti i sinceri democratici nel 1990-1991, non soltanto non scomparirà nella nuova società che oggi sta nascendo, ma sarà più acuta e profonda della «strana» alienazione dell'epoca del socialismo da caserma. Essa assumerà nuove e incomprensibili forme.

Molto probabilmente la società si dividerà in gruppi e gruppuscoli sociali, al centro dell'attenzione dei quali ci saranno valori e interessi individualistici, o, nel migliore dei casi, corporativi. Questi gruppi, a differenza delle classi, cesseranno di assumere posizioni politiche, delegheranno il potere agli «eletti», il che in definitiva porterà a una eteronomia, non all'autonomia della nazione.

In queste condizioni, per quanto possa apparire strano, le forze di orientamento socialista – non necessariamente, anzi auspicabilmente non grandi – possono esercitare un ruolo frenante, cioè il ruolo di chi vuole salvaguardare i principali istituti della società e persino dello Stato.

Il nostro «quasicapitalismo» si svilupperà, ciò è inevitabile. Ma nelle condizioni di questo quasicapitalismo è estremamente necessario che nella società ci sia un raggruppamento di forze di orientamento socialista, capaci non semplicemente di battersi per gli interessi del momento di singoli gruppi sociali, ma di pensare con categorie globali, nazionali, di porsi al di sopra degli interessi particolari, per scongiurare l'insorgere di situazioni catastrofiche.

Né il «quasicapitalismo» russo, che per ora si sviluppa su una base speculativa, né le forze politiche che esprimono gli interessi della nuova (per noi) classe dei proprietari sono in grado di trovare soluzioni adeguate nella caotica e assolutamente imprevedibile situazione odierna.

E' evidente che adesso il «male minore» sarebbe quello di una scelta in favore del capitalismo di Stato, cioè di un sistema che affermasse il ruolo prioritario dello Stato nei settori strategici dell'economia, che riconoscesse il principio di un'economia mista o diversificata e perseguisse tra gli obiettivi primari una politica sociale.

In Russia c'è un partito che si propone tali obiettivi e compiti democratici. E' il Partito socialista dei lavoratori (SPT, Socialisticeskaja partija trudjaščichsja), che per motivi incomprensibili (ma forse, al contrario, pienamente comprensibili) sembra essere «dimenticato» dai mezzi di informazione di massa, particolarmente da quelli elettronici.

Nella sua analisi il Partito socialista dei lavoratori (SPT) va oltre le soluzioni puramente tattiche, cerca «berlinguerianamente» di guardare al futuro. A questo riguardo vorrei ricordare soltanto i tre punti principali del Programma approvato dal suo IV congresso nel 1994.

Innanzi tutto, c'è la netta posizione dell'SPT circa l'inopportunità e l'impossibilità di ricreare nella Russia di oggi un modello di «socialismo di Stato», e neppure un modello da «società dei consumi». E' necessaria una sintesi degli aspetti positivi dei due modelli che abbiano superato la prova del tempo, è necessario creare su tale base una società nuova, naturalmente tenendo conto delle tradizioni storiche e culturali della Russia.

In secondo luogo, questo partito propone una concezione del socialismo fondata su una sintesi tra l'approccio di sistema e quello di valore.

In terzo luogo, il Partito socialista dei lavoratori è convinto che un movimento orientato al socialismo – inteso come concezione moderna dell'umanesimo del XXI secolo – sia una tendenza oggettiva.

E' così che il ricordo del passato, dell'esperienza politica e delle idee di Enrico Berlinguer, è divenuto di per sé un «ricordo del futuro» e persino ci indica che quelle idee – in parte e in nuove forme – possono attecchire in terra russa.

Per questo Berlinguer è attuale, e non soltanto nell'Europa occidentale. Ma se qualcuno si aspetta dall'autore una conclusione con frasi del tipo «l'insegnamento di Berlinguer è forte perché è vero», si sbaglia di molto.

Le idee politiche (sottolineo: esattamente e innanzi tutto politiche) di Enrico Berlinguer sono nate in un'epoca storica del tutto concreta, nelle condizioni di una regione geopolitica concreta, e riguardavano innanzi tutto i problemi relativi all'evoluzione dei paesi di una data regione. E' da pensare che lo stesso Berlinguer si sarebbe molto meravigliato se qualcuno gli avesse proposto di realizzare il «compromesso storico» in Russia. E' impossibile immergersi due volte nella stessa acqua corrente, tanto più se si tratta di fiumi diversi. Ma la vita e l'esperienza politica di Enrico Berlinguer ci insegnano che il politico deve fare politica, che la politica è impossibile senza la ricerca di nuove soluzioni, che il tenere costantemente presenti le condizioni specifiche concrete di un paese o di una regione non esclude, anzi sottintende la capacità di generalizzare, globalizzare, giungere a una sintesi.

L'insegnamento di Berlinguer si è rivelato non onnipotente. Ma era l'insegnamento giusto per l'Italia degli anni Settanta-Ottanta.

(Traduzione di Mark Bernardini)

lunedì 25 agosto 2008

Furio Colombo e Putin

Ho letto un interessante articolo di Furio Colombo sul cambio di direzione all'Unità.

Il ragionamento filerebbe tutto, tranne che – secondo me, ovviamente – in un passo di Furio Colombo, su cui ho qui discettato inutilmente innumerevoli volte: una "sporca guerra di cui ancora sappiamo nulla, se non che uno dei protagonisti spietati, Putin è il miglior amico di Berlusconi". Peggio del prezzemolo.

Di questa sporca guerra si sa molto più di quanto i padroni di centrodestra – ed i gestori di centrosinistra – dell'informazione italica lascino intendere al popolino. E la realtà, sotto gli occhi di chi il prosciutto preferisce mangiarselo anziché foderarci i bulbi oculari, è che:

Esistono nel mondo infinite etnie, numerose religioni ed una sola razza, quella umana. A talune etnie, soprattutto se di religione diversa da quella dei propri vicini, viene concessa, per tornaconto di bottega, lo status di Stato; a talaltre etnie viene intimato di restare parte integrante degli odiati vicini, pena il massacro armato (armato da terzi ancora, nel nostro caso dagli Stati Uniti e da Israele), rasente il genocidio. Kosovo sì, Ossezia no.

L'Ossezia è stata attaccata, bombardata, massacrata dalla Georgia. L'Occidente ha colpevolmente taciuto. La Russia, dopo (per quanto mi riguarda, troppo dopo) qualche giorno, ha dato due ceffoni alla Georgia (forse non è chiaro cosa e quanto avrebbe potuto fare la Russia, se fosse quel mostro che si dipinge in Occidente).

Il punto che mi interessa di più: la logica che continuo ad evidenziare e contrastare, fino forse alla paranoia, è quella per la quale l'amico del mio nemico è mio nemico.

Putin non è amico di Berlusconi. Putin è uno statista, che intrattiene rapporti con capi di Stato e di governo in tutto il mondo. Anche col segretario del Partito Comunista Cinese, per dire, e non per questo qualcuno si sogna di dargli del comunista.

Berlusconi dice, unilateralmente, di essere amico intimo di Putin. Tra le ultime, mirabile quanto risibile dichiarazione di Berlusconi che la guerra in Ossezia è finita perché lui ha telefonato a Putin, salvo poi smentire tutto, colpa dei soliti giornalisti comunisti che fraintendono fraudolentemente.

Il Presidente della Federazione Russa non si chiama Putin: si chiama Medvedev. Dargli del clone sarebbe come dare del clone a Sarkozy rispetto a Chirac.

Putin è uno statista. Furio Colombo, no, forse anche perché, prima di tornare in Italia e fare il direttore dell'Unità, ha fatto per anni il corrispondente della RAI dagli Stati Uniti, convincendoci che qualunque cosa facesse Israele, fosse cosa buona e giusta (sono ebreo anch'io, quindi non provateci a darmi dell'antisemita), dimenticando che si tratta invece di uno Stato religioso (non laico, persino più religioso dell'Italia), con palesi manifestazioni razziste e fasciste non solo tra i governanti, ma in seno al popolo.

Lo dicevo anche durante il precedente governo Berlusconi, quello del 2001-2006: ma una volta che il centrosinistra andrà (se mai andrà ancora) al governo, con che faccia coloro che ora danno del fascista, del guerrafondaio, del mafioso, del ladro, del fornicatore extraconiugale a Putin, intratterranno con la Russia normali rapporti di amicizia e di buon vicinato? Come pensano di riempire i serbatoi delle loro auto blù?

martedì 19 agosto 2008

Bugie (in)titolate

Delle innumerevoli menzogne, scritte imbrattate in Italia come in tutto l'Occidente, sulla mattanza georgiana in Ossezia, due in particolare mi hanno colpito.

La prima, è quella dei bombardamenti russi su Cchinvali, capitale osseta meridionale. Questo è quanto passa nell'immaginario collettivo dei vacanzieri, sbragati al mare come me, che sfogliano svogliati i componimenti dei pennivendoli italici. Cchinvali è stata rasa al suolo dai georgiani, ed è per questo che, dopo e non prima, i russi sono entrati in Ossezia e poi, e non prima, in Georgia. Ma il risultato è che vediamo i carri armati russi a passeggio tra le macerie di Cchinvali, per la gioia dei massmedia occidentali. Tutti parlano dei profughi georgiani in fuga verso Tbilisi, nessuno parla dei profughi osseti in fuga verso la Russia, ed in particolare verso i loro fratelli (letteralmente) in Ossezia del nord. Tutti parlano degli aiuti umanitari ai profughi georgiani, nessuno (eccetto i russi, appunto) invia aiuti umanitari ai profughi osseti.

La seconda, è quella del parallelo con l'invasione di Praga dell'agosto 1968. Io ci sono nato, a Praga. E ricordo, in macchina con mio padre, nel 1969, quando stavamo arrivando a Praga attraverso una stradina provinciale. C'era una colonna di carri armati sovietici, che, per quanto piano, andavano comunque a circa 60 km/h. Troppo per quei bestioni, ma troppo poco per un'automobile. Alla fin fine, mio padre si decise a superarli. Il problema non erano loro: se in quel momento fosse sopraggiunta una macchina in direzione opposta, che facevamo, ci ficcavamo in mezzo a due carri armati? Li vedevo dal finestrino, quei bestioni. Io giocavo con i soldatini sovietici, di latta, ed ora li vedevo invadere il Paese dove ero nato. Non lo dimenticherò mai più.

Ma dov'è la menzogna? Semplice: erano carri armati sovietici (e del Patto di Varsavia! Polacchi, ungheresi, tedeschi...), non russi. Lo so che per gli italiani è la stessa cosa, come per gli yankees, ma è ora che si studino un po' di geopolitica. Scopriranno così che, tra gli "invasori", c'erano anche tadžiki, uzbeki, kazachi, azeri, ucraini e... georgiani.

Quale sia l'interesse statunitense, è lampante. Anche quello del sedicente mediatore Berlusconi. Quale sia l'interesse della cosiddetta sinistra italiana, non lo sanno manco loro.

mercoledì 30 luglio 2008

Il solito zar Putin

Il 29 luglio su "La 7" ho assistito ad una splendida trasmissione sullo zar Putin. Il giornalista intervistato (ruolo un po' perverso, concorderete), ex portavoce del compianto Sergio Garavini, oltre alle varie stereotipate (e, mi si consenta, un po' stantie) amenità sul KGB, ha ricordato il "famoso" (???) episodio della Maddalena, quando una giornalista russa, anziché parlare, che so io, della fame in Africa, della mattanza in Iraq, del gas russo che giunge in Italia transitando in Ucraina e misteriosamente scomparendo in quest'ultima, dei rapporti Russia-Unione Europea e del regime reciproco dei visti, non trova di meglio che chiedere se sia vero quanto vociferato dai giornali scandalistici russi (tipo quelli che vengono distribuiti gratuitamente agli ingressi della metropolitana londinese, per intenderci), ossia che il Presidente russo stia per divorziare da sua moglie e sposarsi con una campionessa olimpionica di ginnastica e deputata del Parlamento russo, più giovane di lui di trent'anni.

Il giornalista, evidentemente ben informato, al punto da essere più informato di me, afferma che, a seguito di quest'episodio, Putin ha chiuso quel giornale, che poi era il giornale della giornalista, licenziando quest'ultima.

Primo, il giornale in questione, era, come dicevo prima, un fogliaccio scandalistico, mentre la giornalista lavorava (e lavora!) per l'autorevolissima "Nezavisimaja Gazeta".

Secondo, non è stato chiuso: il suo proprietario (non Putin!) ha licenziato in tronco il direttore, senza peraltro che ciò abbia minimamente influito sull'uscita del periodico.

Terzo, la giornalista è stata addirittura promossa: adesso è corrispondente permanente della sua testata presso l'Amministrazione del Presidente (un po' come quelli italiani presso Montecitorio, Palazzo Chigi, il Quirinale).

Complimenti al giornalista de "La 7" per il suo naso da Pinocchio.

Da ultimo, sulle famose lacrime della giornalista. Putin ha dato una risposta che mi sento di sposare appieno:

– Abbiamo discusso di tante questioni politiche internazionali, economiche, energetiche, e Lei non ha ritenuto possibile chiedermi qualcosa su cose serie. Comincerò dalla seconda parte della Sua domanda […] (risposta sulla visita a Berlusconi). …Ma veniamo alla prima parte del quesito da Lei posto, affinché non ci sia dubbio alcuno che non ho intenzione di sfuggire ad una risposta. Innanzitutto, in quel che Lei ha detto, non c'è una sola parola di verità. In secondo luogo, Lei ha rammentato l'articolo di uno dei nostri giornali scandalistici, dove effettivamente viene menzionata sia Alina Kabaeva, nostra campionessa olimpionica di ginnastica artistica, sia, se non vado errato, Katja Andreeva, vostra collega, conduttrice del telegiornale del Primo canale televisivo di Stato. In altre edizioni analoghe vengono citate altre giovani donne e ragazze di successo. [...] Infine, conosco ovviamente il trito e ritrito stereotipo per il quale i politici vivono in una casa di vetro. La società naturalmente ha diritto di sapere come vivono le persone che si occupano di attività pubbliche. Ma persino in questo caso, è ovvio, esistono pur sempre dei limiti. Esiste la vita privata, e a nessuno è consentito di intrufolarsi in essa. Sono sempre stato disposto negativamente verso coloro i quali ficcano il loro naso raffreddato per personali fantasie erotiche nelle vite altrui.

Personalmente, non essendo Presidente d'alcunché, posso concedermi di dire le cose "pane al pane, vino al vino": la giornalista ha fatto una domanda imbecille, ed il giornalista de "La 7", essendo sicuramente informato di quanto ho qui riportato, si è comportato da infame, confidando nella scarsa informazione e memoria del suo pubblico.